Gli arbëreshë, (gli albanesi d’Italia), costituiscono una minoranza linguistica e culturale presente nella parte meridionale e insulare d’Italia. Di quella che è denominata Arberia, fanno parte circa 120mila persone e tra questi, una nutrita parte parla o comprende la variante linguistica dell’arbëresh, la lingua della comunità, che perdura nei secoli. Oltre alla lingua, la collettività conserva una serie di tradizioni religiose, culturali e gastronomiche. Gli italo-albanesi sono distribuiti in diverse regioni italiane: in Campania, in Molise, in Puglia, in Basilicata, in Sicilia e in Calabria.
Ed è proprio in quest’ultima regione che mi reco, per una full immersion di tre giorni in un mondo a me in parte sconosciuto, grazie alla disponibilità del Presidente della FAA ARBERIA, la Federazione Associazioni Arbëreshë , Damiano Guagliardi, che mi aspetta in stazione a Sibari, in compagnia del professor Francesco Marchianò: così si nasce e si sviluppa un intero pomeriggio, durante il quale, anche se un po’ qua e là, ricevo nozioni, notizie e spunti storici sul popolo italo-albanese, volteggiando su un’altalena di certezze, studio, ricordi e vita vissuta.
Come si sono sviluppate le comunità arbëreshë in Calabria e come interagiscono tra loro?
Damiano Guagliardi: Il villaggio arbëreshë calabrese è un aggregato di immigrazione che si è formato gradualmente nel tempo e che noi identifichiamo con la cosiddetta stirpe o famiglia albanese. In alcuni dei nostri paesi, per esempio, si mescolano i cognomi del nord d’Albania con quelli del sud. Le comunità si sono formate nei secoli passati e la conservazione delle nostre tradizioni e della nostra cultura si è salvata grazie all’isolamento territoriale. Inizialmente erano comunità divise, fino a quando non si è formata un’unica realtà, nel ‘600: mi piace fare riferimento a un paese arbëreshë, chiamato Greci (Katundi in lingua arbëreshë), un comune caratterizzato dalle antiche tradizioni identitarie degli albanesi d’Italia.
Noi italo albanesi abbiamo avuto la possibilità e la fortuna di poter studiare e questo ha permesso che si formasse una sorta di intellighènzia arbëreshë, che è stata in qualche modo egemone nei confronti della popolazione calabrese, formando gli intellettuali non solo calabresi, ma meridionali. Agli inizi del flusso migratorio si è formato un villaggio fatto unicamente da profughi, gente che cercava riparo e una vita migliore. Nel ‘700 fu introdotta la riforma catastale, attraverso il Catasto Onciario (il 4 ottobre 1740 Re Carlo III impose la formazione del catasto per tutti i comuni del Regno); vennero così, registrati, riconosciuti e stratificati i cittadini, tra cui i possidenti, i ricchi, che ebbero la lungimiranza di dare un’istruzione ai figli. In ogni nostro paese, o attraverso il sacerdozio o altri mezzi, i giovani ebbero un’educazione scolastica; quelle stesse persone che nell’800 fecero il Risorgimento calabrese.
Cenni di storia e di personaggi
Damiano Guagliardi: La nostra è una storia straordinaria, purtroppo poco conosciuta. Le comunità, tante basate sulla tradizione del rito religioso, nonostante le vicissitudini storiche che si sono succedute, sono sopravvissute e alcune di esse hanno tenuto duro, anche solo grazie alla propria identità e al loro attaccamento alla tradizione orale e all’espressione delle tradizioni.
È qui che è nata la letteratura albanese, in questi posti; a tal proposito, non posso fare a meno di menzionare Giulio Varibobba, il poeta nato nel 1725 e morto nel 1777. Egli era un sacerdote nato come ortodosso e che durante il suo percorso di vita si avvicinò al rito latino, raccogliendo tutti i canti delle comunità e pubblicandoli in questa lingua, per la prima volta. Inoltre, nel 1761- 62, un certo Alessandro Marini, un giurista e filosofo, quando ancora non esisteva né la nazione italiana, né quella albanese, è stato il primo a definirsi italo-albanese, firmando un trattato di filosofia come tale.
Tornando all’intellighènzia di cui faccio cenno sopra, che si è formata da noi, pur vivendo e sviluppandosi a Napoli, posso menzionare un certo Pasquale Baffi, un grecista, rivoluzionario arbëreshë, giustiziato perché giacobino. Egli compì i suoi primi studi nel collegio greco-albanese di San Benedetto Ullano, dove fu ammesso da monsignor Archiopoli e qui coltivò, in particolare, lo studio della lingua latina e greca. Egli fu una figura di rilievo anche per le nostre comunità.
In questa breve carrellata storico-letteraria, devo assolutamente ricordare il padre dell’alfabeto della lingua albanese che è Girolamo de Rada, considerato il principale iniziatore della letteratura albanese moderna, che si è battuto per l’Indipendenza dell’Albania, quindi una delle figure più importanti del movimento culturale e letterario albanese del XIX secolo. Egli frequentò il Collegio Italo-Albanese Sant’Adriano di San Demetrio Corone.
Premetto che la letteratura albanese nacque quando in Albania non si poteva scrivere in lingua, oppure si scriveva in base alla propria fede religiosa. I cattolici del nord scrivevano in alfabeto latino, i musulmani in alfabeto arabo-turco e i greco ortodossi in greco e bisogna tener presente che era proibita la scuola di lingua albanese.
Noi arbëreshë abbiamo avuto tre figure letterarie di spicco: Girolamo De Rada, Zef Serembe, un grande poeta lirico giudicato all’unanimità uno dei più grandi della letteratura albanese, un’anima sofferente che assorbì i dolori dell’umanità, cosa che influenzò significativamente i suoi versi. Infine, uno dei più grandi scrittori, che, a mio avviso, avrebbe potuto sedere accanto a Verga, Francesco Antonio Santori, un monaco vissuto in povertà, scrittore, poeta e drammaturgo italiano. La sua commedia Emira è considerata il primo dramma albanese originale mai scritto.
Ci sono delle regole che caratterizzano le comunità arbëreshë?
In Calabria ci sono 32 comunità arbëreshë. Alcune di esse hanno le caratteristiche dettate dal rito latino shqiptare autentico, ma un paio tra loro, per esempio, non se ne rendono conto, non parlando nemmeno mai l’arbëreshë. Addirittura, alcune di queste comunità hanno un linguaggio dialettale con tante tradizioni italo-albanesi e non lo sanno. Quello che unisce tutti è il fermento per le iniziative culturali e tradizionali. Esse possono essere o congiunte, o individuali.
I villaggi, infatti, si gestiscono autonomamente, con una programmazione spontanea delle attività. Sottolineo, però, che, per esempio, esiste una scansione temporale in riferimento alle tradizione delle Vallje di di Frascineto, Porcile, Civita e San Basile a Pasqua e poi sono state riscoperte una sessantina d’anni fa, le Vallje di Sant’Atanasio e Santa Sofia e di Sant’Atanasio a Firmo. Esse sono delle danze coreutiche molto particolari, formate da uomini e donne vestiti con abiti tradizionali arbëreshë, che si snodano per le vie del paese, intonando viersh, i canti
epici d’amore.
Le vallje e il loro perché
Damiano Guagliardi: Secondo la tradizione, le Vallje si identificano nella commemorazione della vittoria riportata da Giorgio Castriota Skanderbeg, il quale, alla guida di un piccolo esercito, sconfisse le armate turche guidate dal rinnegato Balabano, salvando la cittadella di Kruja il 24 aprile 1467. Secondo il calendario Giuliano in vigore in quel tempo, il 24 aprile 1467 era proprio il martedì dopo la Pasqua. I movimenti eseguiti durante la danza rappresenterebbero la tecnica di accerchiamento messa in atto da Skanderbeg contro l’esercito turco.
La vallja, infatti, muovendosi, imprigiona i forestieri, che vengono liberati dopo aver pagato il cosiddetto riscatto, che consiste nell’offerta di liquori e dolci. Le Vallje, quindi, costituiscono una modalità per la popolazione arbëreshe di ricordare il suo grandioso passato e di reclamare il diritto di sopravvivere nel tempo, affermando la propria identità.
La vallja, comunque, non viene identificata come un’esibizione folkloristica, ma come un momento importante atto a rafforzare il profilo etnico, sociale e morale della gente arbëreshe. Un’altra ricorrenza molto sentita nelle nostre comunità è la celebrazione dei defunti, che ricorre una settimana prima di carnevale, secondo il calendario ortodosso. È una settimana particolare, caratterizzata dalla credenza, secondo la quale, le anime dei morti lasciano le tombe per vagare per il paese. A Spezzano si usa offrire il cibo a tutti, in ricordo dei defunti.
Un’altra tradizione che unisce le comunità è quella dei canti: il canto polifonico e quello religioso sono i principali. In riferimento al canto religioso, per esempio, posso menzionare il canto pasquale Le calimere che racconta la vita e la passione di Cristo, oppure i canti dei Santi protettori, una tradizione notevole. A Spezzano, nonostante sia una comunità di rito latino, si mantengono molte tradizioni legate al rito greco.
È mai esistito una Statuto regolatore delle comunità?
Non è mai esistito e mai esisterà. Con la legge 482 (comunemente definita legge sul collocamento obbligatorio che prevede l’istituzione di liste speciali separate) siamo stati riconosciuti di fatto. Nel 1919, invece, è stata istituita l’eparchia greca, come eparchia delle comunità albanesi di rito greco, una sorta di atto giuridico del popolo. In virtù di questo, durante il fascismo, è stato varato un decreto legge che favoriva l’ascesa in graduatoria degli insegnanti locali lingua madre per insegnare ai ragazzi che non comprendevano l’italiano; fino a cinquant’anni fa, eravamo in pochi a comprendere la lingua italiana. Il senso lo capivano tutti, ma scrivere e leggere in italiano era una cosa differente.
C’era una sorta di analfabetismo in questo senso, ma non solo. Noi eravamo analfabeti due volte: in italiano perché non lo conoscevamo e in albanese, perché nessuno ci insegnava a scrivere e leggere in lingua. Nonostante questo, possiamo vantare una storia letteraria straordinaria: nelle nostre comunità sono stati prodotti più di 5000 testi negli ultimi 70 anni, che parlano di noi e del periodo risorgimentale.
Francesco Marchianò: Per due anni di fila ho insegnato albanese nell’ex collegio di San Demetrio Corone. Oggi, l’unico posto dove si insegna albanese è proprio a San Demetrio Corone. La cattedra è stata riaperta nell’88 grazie a papas Sparaku.
Gli studenti mostravano interesse per la materia?
Sì, alcuni sì. Specialmente chi parlava l’albanese. Io avevo diviso l’anno in due semestri: il primo periodo era dedicato solo all’apprendimento dell’alfabeto, (ricordo l’analfabetismo totale) e poi il secondo alla letteratura albanese e alle tradizioni. La materia imponeva come insegnamento la lingua d’Albania, ma a me piaceva che apprendessero qualcosa anche sui nostri autori. A San Demetrio Corone, ora, ci sono solo pochi alunni, l’interesse si sta perdendo e i paesi si stanno spopolando. Negli anni scorsi, c’è stata una bellissima iniziativa, con la visita degli studenti di Struga, provenienti da una comunità albanese della Macedonia, guidati dal compianto Pino Cacozza e dal prof. Liguori, docente di albanese. Purtroppo, non ce ne sono più state.
La comunità arbëreshë come ha vissuto quanto accaduto in Albania nei primi anni Novanta, c’è stata accoglienza?
Certamente, le comunità arbëreshë hanno accolto e gestito l’emergenza fin dai primi giorni. Poi, sappiamo bene che non è andata sempre come viene raccontata, questo qui e altrove. Bisogna anche ammettere che una buona fetta di coloro che sono scappati erano delinquenti comuni liberati dalle carceri: questa è una realtà che in tanti, ancora oggi, celano. Sì, vi era brava gente, ma anche in diversi erano criminali.
Personalmente ho questo ricordo: mi trovavo, con altri, in Albania, proprio nei giorni caratterizzati dalle invasioni delle ambasciate: in Piazza Scanderbeg, c’era tantissima gente e a un certo punto mi sento chiamare “signor Damiani” (gli albanesi, chissà perché, non riescono a chiamarmi Damiano). Erano una ventina di uomini, con la barba incolta e i capelli lunghi, cosa non ammessa durante il regime, forse carcerati rilasciati per l’occasione Mi rivolgono delle domande e iniziamo una discussione politica: erano uomini molto arrabbiati, tanto che uno di loro mi ha lanciato contro una bottiglia piena di cognac Skënderbeu: questo per raccontare il clima di tensione dell’epoca e la mia incoscienza nel relazionarmi.
La visita a Civita: Il Ponte del Diavolo
Civita è un comune che non supera il migliaio di abitanti, situato nel cuore del Pollino ed è una delle più storiche comunità arbëreshë. Sorge in una vallata circondata da montagne boscose. È definito anche Il paese del Ponte del Diavolo, per via del suo antico e caratteristico ponte in pietra a dorso d’asino, che costituisce un’importante opera d’ingegneria.

Secondo il parere degli studiosi, il Ponte sarebbe nato nel periodo medievale, ma qualcuno ipotizza la sua presenza in epoca più antica. L’immaginario popolare, invece, la pensa diversamente: considerata la zona impervia in cui sorge e visti gli scarsi mezzi in dotazione agli uomini, quel ponte poteva essere solo opera del Diavolo.
La leggenda racconta che sarebbe stato proprio un proprietario terriero a chiedere al demonio di costruire il Ponte sul torrente, in cambio dell’anima del primo essere umano che lo avesse attraversato. Il Diavolo accetta, costruendo la maestosa costruzione lunga 36 metri. Quindi, il Maligno si apposta in attesa del primo malcapitato; ma l’uomo, furbo, permette solo a una pecora di passare. Il Diavolo si arrabbia molto e tenta di distruggere il ponte; avendolo costruito molto bene, tutti i suoi sforzi diventano vani. Pieno di rabbia e schernito dall’uomo, precipita nel torrente, lasciando dietro di sé un nuvolone grigio.
Il ponte, in realtà, crolla il 28 marzo del 1998 in seguito a un violento temporale, proprio come la notte in cui è stato edificato. Dal 25 gennaio del 2005 è tornato a risplendere in tutta la sua bellezza. Recentemente, è stata rinvenuta la documentazione che attesta la sua avvenuta costruzione intorno al 1840, come struttura voluta da un consorzio di comuni per permettere di attraversare la voragine del Raganello.
La pietra del Demonio
Dal belvedere situato nei pressi della Mater Chiesa è possibile osservare un colosso di pietra stupefacente, chiamato La pietra del Demonio, una parete rocciosa di 800 metri, fatta di roccia rosa stratificata.

Un’altra caratteristica di Civita sono i comignoli, che conservano un’antica tradizione nata a causa del fortissimo vento che caratterizza il posto e che ha indotto i costruttori a studiare delle forme particolari per i comignoli, affinché resistessero al vento.

Alcuni assumono, addirittura, caratteristiche umane. Mentre passeggiamo godendo di queste magnificenze, continuiamo la nostra chiacchierata.
Il patrimonio storico-letterario
Damiano Guagliardi: Noi possediamo un grande patrimonio letterario, sul quale lavoriamo da circa trent’anni, ma al momento è del tutto privato. Solo io possiedo circa 50.000 fotografie della nostra comunità e ci sono almeno quindici persone che come me e Francesco sono dei topi della ricerca.
Come pensate di conservare tutto questo materiale?
Ci sono due possibilità: una di queste, è un istituto di conservazione in Albania e la seconda è data da un altro similare che dovrebbe nascere in Calabria. Sono due realtà esistenti, che non si attivano per pura negligenza: manca la nostra volontà politica e quella della Regione Calabria (da tener conto che già la cifra considerevole di 870mila euro è a disposizione di questo progetto).
Nel 2018 ci siamo recati in Albania con una delegazione per proporre al Ministro della Diaspora la costruzione di una casa arbëreshë della cultura a Tirana. Volevamo donare loro tutte le espressioni di cultura popolare in nostro possesso. L’idea è stata accettata con entusiasmo, anche da parte del sindaco di Tirana: un entusiasmo scemato esattamente due settimane più tardi, perché, probabilmente, qualcuno deve aver remato contro.
Mi sono recato io stesso al museo nazionale di Tirana, portando al direttore una copia originale di Demetrio Camarda, uno dei più importanti studiosi del folklore arbëreshë, una di Paolo Schirò, anche lui noto studioso e una di Antonio Baldacci, il geografico di fine ‘800, che ha condotto studi sull’Albania. Non ho ricavato nulla da questa visita.
Infondo, siamo degli elfi
La verità è che in Albania non ci conoscono, pensano che siamo dei chiacchieroni. Francesco Marchianò lavora con google e ha recuperato tanti documenti che sarebbero utili all’Accademia delle Scienze albanesi. Noi siamo disponibili a fornirli: a casa mia ho circa 1400 testi che trattano di Arberia. Ci sono circa quindici soci proprietari di simili patrimoni e abbiamo tra noi uno studioso specializzato nel recupero dei catasti Ongiari. Noi siamo in grado di dire che la formazione della comunità albanese è qui, i documenti storici ce li abbiamo noi. In ogni caso
sarebbe inutile, a loro questo non interessa. Abbiamo un potenziale librario enorme: Io ho diversi volumi, ma ho tanto materiale in pdf, sicuramente pubblicabile.
Francesco Marchianò: Noi abbiamo ricevuto molto aiuto durante il periodo della Repubblica popolare socialista d’Albania; andavamo a studiare in Albania e spesso, ci venivano consegnati libri di linguistica, di storia e di tradizioni. Con la caduta del regime, è finito tutto.
Damiano Guagliardi: I nuovi docenti albanesi non sono preparati come quelli che abbiamo conosciuto noi, vivono di miti, non sanno nulla di noi, ci credono degli elfi. Noi ci sentiamo pezzi della nazione albanese, ma allo stesso tempo siamo abbandonati dal governo italiano e dall’Albania stessa, alla quale non costerebbe nulla accogliere quello che vogliamo offrire in un proprio Centro Studi.
A noi servirebbe un istituto unico, che possa raccogliere tutto e far convergere tutto il materiale proveniente dal nostro territorio. Faccio un esempio pratico: se ogni nostro comune offrisse un costume, si potrebbe allestire una mostra del costume arbëreshë attraverso la quale spiegare le nostre tradizioni. Noi saremmo disponibili a iniziative come queste, per esempio. Io mi pongo il problema di cosa ne sarà del mio patrimonio, quando non ci sarò più. Mi è costato tanto, economicamente e fisicamente e non esiste né un centro qui, né uno in Albania.
Da dove nasce la scarsa credibilità che l’Albania nutre nei vostri confronti?
Ci considerano un mito, ci considerano esotici perché manteniamo viva la tradizione della lingua e alcune usanze. Sembra quasi che non si rendano conto che siamo umani. Noi della FAA, come intellettuali, chiediamo solo che questo patrimonio venga salvato. Non possiamo farlo da soli e qui c’è una ricchezza culturale da offrire a tutto il mondo e all’Albania stessa.
A casa di papas Antonio
Papas Antonio Trupo ha novant’anni ed è il più anziano parroco vivente delle comunità calabresi. Damiano Guagliardi lo incontra nel 1971, mentre organizza una manifestazione a capo di un gruppo folkloristico. Papas Antonio è molto conosciuto e amato: durante i primi anni Novanta ha gestito amorevolmente e come direbbe lui “poveramente” il centro Caritas per l’accoglienza degli immigrati. Nasce nella piccola comunità di Farneta, una frazione del comune di Castroregio, nel cuore del Pollino, che oggi conta circa centoventi abitanti. Grazie a papas
Antonio, gli arbëreshë hanno recuperato un documento che nessuno vedeva.

Damiano Guagliardi: Io sono dentro a questa materia da cinquant’anni e avevo sentito parlare di un libro rarissimo, che nessuno riusciva a trovare, con la copertina marrone che si apre con Risposta di Filatele a Monsignor Cardamone vescovo di Rossano.
Quando la mia amicizia con lui si è fatta più stretta, ho iniziato a frequentare casa sua. Egli, entusiasta, mi fa vedere alcuni libri fra cui un libricino e mi accorgo che è il volume originale che ho citato prima, che tratta di una questione tra rito greco e latino in riferimento alla nostra zona di cui tutti parlavano e che nessuno possedeva.
Gli chiedo con molto entusiasmo di prestarmelo per fotocopiarlo e in piena fiducia, me lo ha dato. Così l’ho fotocopiato, abbiamo fatto la ristampa del libro e ora in circolazione ci sono circa 400 copie. Un piccolo libro che ha restituito un punto storico della nostra comunità, facendoci capire chi siamo noi arbëreshë. Una zona povera, ma dignitosa e quel libro ci difende.
Padre Trupo costruisce la prima chiesa orientale nella frazione dei Marri, a struttura architettonica greca. Questo suo desiderio di orientalizzazione della chiesa, lo ha portato anche a Civita, dove, però, inizialmente è stato parecchio osteggiato, uscendone, però, vincitore.

Camminando per Civita, si individua una targa molto particolare e Francesco Marchianò mi spiega che la pronipote di Scanderbeg Erina Castriota sposò il principe Pietro Antonio di San Severino che era al terzo matrimonio.
Nel 1560, c’è stata una grande carestia e l’anno successivo, per evitare a eventuali altre carestie, ha dato ordine che in tutti i villaggi fossero costruiti dei magazzini universali, cioè della comunità. Chiacchierando arriviamo davanti alla sede del Municipio, dove ci aspetta il sindaco Alessandro Tocci, che mi racconta tanto della Comunità e della vicenda dolorosa che l’ha colpito. Alla prossima.