Beti Duka era seduta sulla veranda dalle grandi piastrelle rossicce dell’hotel Splendid e contemplava il contrasto chiaroscuro del vespro adriatico, i contorni scuri e rotondi dei pini tra il cielo e il mare, fuso in porpora e blu, quando Eva Starova, la premier del paese, le ha telefonato e l’ha invitata a cena inaspettatamente. «Ti mando la macchina e vieni da me, se sei libera stasera», le disse Eva Starova. Beti notò un filo d’ansia nella voce della premier, ma probabilmente le era solo sembrato così. «Sono a Durazzo e sono appena uscita dall’incontro con i sindaci. Ceniamo in un ristorante qui». «Sì», disse Beti. «Sto arrivando. In realtà, non ho niente da fare». Distolse lo sguardo dall’orizzonte, dai pini e dalle piastrelle della veranda e prese l’Ipad.
Erano passati due giorni dalla notizia della morte del segretario generale del Consiglio dei Ministri e i giornali, così come il sito ufficiale, lo riportavano come morte da infarto. La premier aveva espresso le consuete condoglianze. Un breve comunicato di due minuti era stato rilasciato il mattino seguente ai media dal portavoce della premier affermando che il signor Dilaver Gashi era deceduto a causa di un improvviso arresto cardiaco nel suo ufficio, mentre svolgeva le sue mansioni, nella sede del governo. Quando seppe la notizia, Beti ebbe una strana sensazione che questa morte fosse un segno premonitore. Ma di cosa, si chiese quella notte quando si coricò a letto, di cosa? La gente muore di infarto continuamente. Non sapeva molte cose sul conto di Dilaver Gashi. Lui aveva esperienza nel mondo dell’amministrazione statale e, apparentemente, era stato questo il motivo per cui Eva Starova lo aveva preso con sè alla sede del governo, convinta delle sue capacità organizzative, e a causa delle lettere di referenza molto positive allegate al suo curriculum estremamente ricco. Non aveva mai lavorato con lui, non lo conosceva da vicino, ma stando al principio che all’ufficio bisogna trovare l’uomo giusto e non il contrario, decise di prendere Dilaver Gashi come il suo braccio destro e, stranamente, si sentì tranquilla a causa dei suoi occhi incolore ma persuasivi, che sembravano dire che le cose non sono mai impossibili, difficili o complicate, ma anche se lo fossero, c’è sempre una soluzione, sia pure discutibile.
Lui aveva cinquantuno anni, alto, mingherlino e sorridente, con pochi capelli lisci e tirati all’indietro, giusto per non chiamarlo calvo, e sempre vestito in modo elegante. Su di lui i giornali scrivevano che non rinunciava mai alle scarpe italiane e al triangolo dei fazzoletti di seta nel taschino della giacca. Non si capiva bene se questo vociferare fosse visto come una sfida ai “modi campagnoli” di alcuni degli altri impiegati dell’amministrazione statale o come un segno “filooccidentale” e di “nobiltà”, dal momento che il segretario generale spesso mostrava, come quasi per caso, un grosso anello d’oro con una pietra color ciliegia, in cui era disegnato uno stemma incomprensibile e che lui, durante le conversazioni che intratteneva, quando glielo chiedevano, diceva che era uno stemma di famiglia. Per via della propensione albanese dei decenni post-comunisti a rivelare una discendenza nobile, aristocratica o regale, l’anello faceva tremare e rabbrividire i seguaci delle genealogie di questa categoria, mentre agli scettici e a coloro che negavano le radici aristocratiche nelle terre albanesi faceva storcere la bocca con disprezzo. Sull’anello erano incise anche due o tre lettere minuscole, ma non erano visibili ad occhio nudo, bisognava prenderlo in mano e osservarlo attentamente, con una lente d’ingrandimento.
Beti ebbe l’impressione che quest’uomo, stando a suddetto ritratto, assomigliava più a un diplomatico di carriera nei paesi europei, piuttosto che a un direttore del dipartimento della pubblica amministrazione dove aveva lavorato a lungo. Certo, ho degli stereotipi, disse a se stessa. E inoltre, devo pensare a quest’uomo al passato e non al presente. Contemplò il verde dei pini, delle palme e dei salici che si estendevano per chilometri lungo la costa in cui erano situate ville a schiera di due e tre piani circondate da alberi. L’aria profumava di resina e iodio di mare. Lo stormo di uccelli cinguettava forte in coro perché si avvicinava il crepuscolo e fra un po’ avrebbero taciuto. Nel frattempo, nel parcheggio di hotel Splendid entrò l’auto nera della premier e una delle guardie del corpo, testa rasata e vestito di nero, entrò alla reception e ha chiesto di lei. Lei gli andò prontamente incontro e lo seguì. L’altra guardia pareva essere il sosia del primo, mentre l’autista, che l’ha salutata senza guardarla negli occhi, accese la macchina e uscì senza farsi sentire dal parcheggio dell’hotel.

L’opinione
Il Segretario Generale del Consiglio dei Ministri è deceduto e si sospetta che sia morto per mano assassina. Il Palazzo del Governo di Tirana balza al centro della vicenda, in quanto il corpo inerme viene ritrovato al suo interno. I primi rilevamenti inducono a pensare che si tratti di morte naturale, ma la Primo Ministro, di cui l’uomo era il braccio destro, ha ragione di credere che sia stato compiuto un omicidio.
Incaricata delle indagini, sin da subito segretate, è Beti Duka, amica della premier, alla quale viene affidato un ruolo di copertura: la donna sarà consigliera per la Cultura in un progetto dell’UNESCO, che la porterà in giro per i Paesi balcanici con un gruppo di collaboratori, tutti potenziali sospettati.
Beti non è da sola nella conduzione dell’inchiesta: ad aiutarla c’è suo fratello Genti, un ottimo investigatore privato e prezioso supporto in una situazione che si palesa sin da subito intricata e pericolosa.
L’idea iniziale era quella di scrivere un saggio storico-politico, ma ho temuto che potesse annoiare i lettori. Così, ho deciso di inserire una parte di fiction. (Diana Çuli)
Si è rivelata buona l’idea di Diana Çuli, che in questo Assassinio nel Palazzo del governo, pubblicato da Castelvecchi nel 2020, per la traduzione di Elda Katorri e Serena Vischi, miscela sapientemente narrativa, Storia politica e incantevoli descrizioni paesaggistiche. Il racconto è ambientato primariamente in Albania, pur diramandosi in diverse località dei Balcani, coinvolte in un piano di lavoro dell’UNESCO, che intende sostenere le loro belle peculiarità.
Beti Duka, esperta in beni culturali, è a capo di un’agenzia investigativa e insieme a suo fratello Genti conduce l’indagine per conto della sua amica premier e simultaneamente a questa, ne porta avanti un’altra personale e molto dolorosa. È da quando è bambina che non ha più notizie dei suoi genitori, presumibilmente scomparsi per volere di Enver Hoxha, l’uomo che ha stretto l’Albania nella morsa della dittatura per ben 45 anni: suo padre, infatti, era un funzionario dei servizi segreti albanesi.
La Çuli, con la limpidezza che contraddistingue la sua penna, fa un disegno sottile e ben marcato degli avvenimenti storico-politici più significativi che hanno caratterizzato l’Albania, intrecciandoli alle vicende dei personaggi, a emblema dell’influenza che essi hanno sull’evoluzione individuale e su quella dell’intero popolo. In virtù di tale convinzione, l’autrice utilizza sempre la P maiuscola per Palazzo, identificandolo non solo con il luogo fisico, ma con l’alienante sistema politico.
Organismi politici, eventi storici, personaggi che hanno fatto la parte più turpe della Storia d’Albania, colpi di scena e affascinanti descrizioni ambientali sono i perni principali intorno ai quali si snoda la trama di Assassinio nel palazzo del governo, frammento avvincente di un buon libro dal profilo divulgativo. Al centro del racconto, ancora una volta, una figura femminile, scelta tanto cara alla scrittrice, che ricordiamo anche come attivista a favore della difesa dei diritti delle donne.