Eva Meksi parte da Durazzo a bordo della nave Vlora, in compagnia di circa ventimila connazionali in fuga dalla fame e dalle rovine di un regime disgregato. È una giovane donna di 24 anni, che decide di imbarcarsi con suo marito, guidata dall’incrollabile speranza di una vita migliore. Approda l’8 agosto del 1991 al porto di Bari, inconsapevole che quella giornata sarebbe entrata negli annali della storia. Eva, ancora oggi, vive e lavora a Bari ed è vice presidente dell’Associazione no profit Le Aquile di seta.
Eva non è una scrittrice, ma il racconto della sua fuga è pregno di emozioni, sentimento, voglia di riscatto, tristezza, nostalgia, urgenza di farcela, determinazione e soprattutto, di una grandissima sinergia con la vita. È memoria pura e non edulcorata.
Per avere informazioni su dove mangiare abbiamo fermato un uomo che ci ha invitati a casa per una pizza con la sua famiglia. Era la prima volta che ne mangiavo una. Ci hanno fatto fare la doccia e ci hanno dato vestiti puliti facendomi sentire accolta, coccolata senza diffidenza. Ci hanno cambiato i 50 dollari regalandoci anche 100 mila lire.

I bottoni colorati
Quella mattina avevo deciso di mettere la mia gonna preferita, lunga, di un colore verde bellissimo, impreziosita sul davanti da alcuni bottoni colorati, uno diverso dall’altro. Oggi di gonne così ce ne sono tante, ma negli anni Novanta, in Albania era una cosa del tutto eccezionale. Avevo la fortuna di indossare vestiti belli e diversi da quelli che si trovavano nei negozi, più o meno uguali e dai colori tristi. Amavo la mia gonna con i bottoni colorati e ci tenevo tanto.
Quando l’ho indossata, non sapevo che mi avrebbe accompagnata nel viaggio più difficile e sporco della mia vita. Non mi interessava quanto potesse sporcarsi o strapparsi, ormai era diventata abito e coperta, ed era così da due giorni perché quarantotto ore prima ero scappata dall’Albania salendo sulla Vlora, utilizzando una corda, una semplice corda. Avevo lasciato il porto affollato, indossando quella gonna, che ormai di colorato aveva solo i bottoni.

Una volta sbarcati sulle coste pugliesi, ci portarono al pronto soccorso, dove riuscii a farmi una doccia e mi consegnarono dei vestiti nuovi. Era la prima volta nella mia vita che indossavo vestiti non miei: del resto, non avevo una sorella con la quale scambiarmeli. Comunque, ero felice perché odoravano di pulito.
Avevo lasciato in ospedale tutto il resto, tranne la gonna con i bottoni colorati. L’avevo avvolta così sporca com’era e l’avevo portata con me insieme ai panini e alle bottigliette d’acqua per fare ritorno allo stadio, dove ci avevano temporaneamente sistemati.
Dopo una notte insonne e una giornata infernale, ci si preparava per l’ennesima fuga; avevamo deciso di scappare di nuovo, questa volta dallo stadio.
Non potevo portare niente con me, soltanto i documenti, i pochi soldi che possedevo e niente altro. Niente, nemmeno quella piccola sacca dove tenevo la mia gonna e l’ultimo panino. Si doveva buttare tutto lì in un angolo, nei meandri dello stadio e lì avrei dovuto lasciare la mia gonna con i bottoni colorati.
Ero dispiaciuta per questo, si vedeva e mi sentivo dire “Che importa, siamo in Italia, sai quante gonne potrai comprare”. Ma quella era la mia gonna preferita: abbandonarla equivaleva a strapparmi un pezzo di vita, della mia esistenza e della mia personalità. Che sciocca ragazzina: con tutto ciò che avevo passato rimanevo attaccata a una gonna. L’impulso che sentivo era più forte di me: in un attimo ho strappato tutti i bottoni, proprio tutti, anche quelli piccoli, mettendomeli in tasca prima di buttare via la gonna. Così mi hanno seguito nella mia fuga.
I bottoni colorati li ho sempre con me. Mi ero promessa di applicarli a qualche vestito più in là, ma sono rimasti nella scatolina.