Anilda Ibrahimi, scrittrice albanese appassionata della storia, ma in particolare della sua Albania, è una scrittrice contemporanea nota, originaria da Valona e che vive da 23 anni in Italia.
In seguito alla premiazione del premio letterario nazionale per la donna scrittrice Rapallo Carige, abbiamo voluto realizzare una intervista con Anilda per i nostri lettori.
Il suo primo romanzo Rosso come una sposa pubblicato dalla casa editrice Einaudi nel 2008, in cui narra le storie di tre generazioni al femminile nell’Albania di ieri e quella di oggi, spalanca le strade che sono solo un inizio in salita per lei. Vince i Premi Edoardo Kihgren- Città di Milano e Corrado Alvaro, Città di Penne, Giuseppe Antonio Arena. Il libro viene tradotto in sette Paesi.

Il secondo Non c’è dolcezza, narra la storia di amicizia e di maternità negata, di sangue e dell’onore, della parola data, nei i quali il lettore riconosce un valore di universalità.

Segue nel 2009 con un altro romanzo L’amore e gli stracci del tempo, in cui racconta la guerra nei Balcani, quella squarciata dai nazionalismi: la guerra del Kosovo e la Serbia. Protagonisti due giovani, serbo e kosovara che si amano e cercano di vivere dentro nella guerra.

Arriviamo ad oggi con il suo ultimo libro Il tuo nome è una promessa, dove rievoca le vicende tormentate di una famiglia di ebrei in fuga dalla Berlino nazista all’Albania di re Zog. Al centro i destini di due sorelle divise dalla storia, vissute in un quadro mosso e frantumato che comprende la Tirana del secondo dopoguerra, il clima del regime comunista e la sua caduta, per ricomporsi infine ai giorni nostri.

Il suo modo di raccontare è semplice, asciutto, coinvolgente e appassionato. Lei narra come le nonne di una volta, con disinvoltura e piena di colori. I suoi libri sono dei mappamondi in cui ti tuffi con piacere e curiosità. A lei non le sfugge nulla mentre descrive. Trasmette la forza e la voglia di poter essere e imparare dal mondo. I suoi personaggi percepiscono la fatalità, si adeguano con la naturalezza, una caratteristica tipica albanese, e vivono la vita giorno dopo giorno. Si scoprono, si amano, si odiano e poi di nuovo si amano…
Senza allungarsi troppo, vi porto la mia conversazione con lei.
Intervista con Anilda Ibrahimi
Il suo ultimo romanzo ha vinto il premio letterario nazionale per la donna scrittrice “Rapallo Carige”. Una grande conquista, di cui hanno scritto importantissime testate giornalistiche. Quali sono le sue prime emozioni e le impressioni vissute?
Sono contenta come tutte le persone che credono nel loro lavoro. Per il resto, faccio parte della categoria di quelli che vivono benissimo dietro le quinte. Anzi, credo fermamente che lo scrittore debba essere una voce che ascolta la vita in silenzio, per poi narrarla.
Come avviene la scelta delle storie che ispirano i suoi romanzi?
Le storie che ho raccontato nei miei romanzi sono quelle che volevo raccontare da sempre, anche prima che diventassi scrittrice. Ho fatto delle scelte coerenti, senza cambiare mai strada per seguire logiche editoriali o argomenti che vanno di moda.
Sono storie che in un certo senso mi hanno sempre abitata. Temi che hanno attirato la mia attenzione, come la trasmissione al femminile, l’identità nel postmoderno, le storie dimenticate e rimosse dal totalitarismo, insomma quel novecento presente in tutti i miei romanzi. La mia ossessione, come la grande storia cambi e si prenda gioco dei piccoli destini.
Un libro si rivolge ad un pubblico e se sì, come avviene la scelta?
In generale non scelgo io il pubblico, è il pubblico che sceglie me. Mi preme di più il fatto che i miei testi uniscano diverse generazioni.
Qual è il suo impegno sociale rivolto al mondo?
Le nostre battaglie sociali avvengono nella quotidianità, giorno dopo giorno, in silenzio, in modo soave e non strillato. Se ciascuno di noi facesse la sua parte il mondo cambierebbe in fretta. Invece come scrittrice credo che il mio impegno costante stia nel dare voce alle storie dimenticate, dare un volto a coloro che se ne sono andati senza aver avuto nessuna risposta per i torti subiti dalla Storia, ricordare, perché solo così si può imparare dagli errori del passato.
Nei suoi libri si narra dell’Albania di ieri e dell’Albania di oggi. Scritto direttamente nella sua seconda lingua, quella italiana. Esiste un distacco emotivo che le permette di descriverla più facilmente?
Thomas Mann diceva che “La patria di uno scrittore è la lingua” e invece Herta Muller in dissenso con lui afferma che “La patria non è la lingua ma il linguaggio”. Il mio linguaggio è fatto di quel rapporto viscerale e passionale che ho con la lingua, il mio quotidiano, dove parlo ai miei affetti, dove vivo, combatto, mi esaspero a volte, dove mordo la vita.
Forse il caso credo unico, ha scelto di non dare il permesso alla traduzione dei suoi libri in lingua albanese. Come mai questa scelta?
“Lo scrittore debba essere una voce che ascolta la vita in silenzio, per poi narrarla” Anilda Ibrahimi
Questo è un discorso molto complicato che non può essere liquidato in questo contesto. In Albania tutt’ora non esiste una rete di distribuzione di libri, ci sono grandi città che non hanno nemmeno una libreria, e la cultura è diventata una cosa di nicchia riservata ai clan letterari di Tirana.
Non sono chiusa alla possibilità della pubblicazione ma prima aspetto di vedere cambiamenti. Credo però che il paese sia sulla strada giusta. In diverse fiere e saloni organizzati in Europa ho visto una presenza costante di giovani editori albanesi pieni di entusiasmo e passione, pronti a dare il loro contributo affinché il paese raggiunga gli standard europei.
Vale la pena nominare qui l’editrice Arlinda Dudaj , conosciuta ormai a livello internazionale per aver portato i migliori scrittori contemporanei in albanese. Ecco, pensando a lei posso dire che questa sia l’editoria albanese che vorrei. La strada è tutta in salita ma non è impossibile.
Le culture vengono recuperate, elaborate e poi trasmesse. Quale messaggio vorrebbe trasmettere?
Niente messaggi, elaborazione e trasmissione invece sì. Sono lontani i tempi nei quali la letteratura trasmetteva messaggi, io scrivo per narrare storie. Certo, al centro di tutto questo c’è una mia elaborazione, soprattutto della memoria, occuparmi del passato anziché del presente per me è necessario.
Il mio mondo si è disgregato e questo può accadere anche senza migrare, ma il fatto di cambiare luogo e lingua è stato decisivo nel mio percorso di scrittrice. Non posso affermare che se fossi rimasta nel mio paese nativo o se fossi andata altrove, avrei scritto le stesse storie.
La mia memoria ha migrato insieme a me, e insieme siamo rinate in una nuova lingua, così facendo non è rimasta una cosa statica ma è diventata un archivio di produzione, modellandosi anche in funzione dell’interazione con la nuova cultura.
Che cosa ne pensa della letteratura albanese post realismo socialista?
Non ne ho un’idea ben precisa perché seguo solo sporadicamente questa letteratura. Mi auguro che gli scrittori della nuova generazione, per dire i 30enni di oggi, troveranno la loro strada per raccontare il cambiamento, lontano da quella cattiva imitazione di un certo esistenzialismo superato da mezzo secolo, che da noi essendo arrivato con molto ritardo ha contaminato gli scrittori della mia generazione. Trovare una voce originale, ecco, una voce che accomuni la narrativa odierna e che serve più che mai al paese a 26 anni dalla caduta della dittatura.
Nel suo ultimo libro, lei riporta la storia di due sorelle ebree.. Ancora un’altra volta vengono raccontate storie di donne. Perché questa scelta di raccontare il mondo femminile?
Dalla notte dei tempi accadeva questo, gli uomini andavano in guerra o a caccia, insomma erano assenti. Chi rimaneva a casa a trasmettere la cultura ai figli erano le donne, avveniva tramite la lingua, le ninna nanne, le storie narrate attorno al fuoco. Vengo da una cultura prevalentemente orale e questa in parte l’ho vissuta.
Come tutta la mia generazione ero divisa a metà, dopo ore di lettura in compagnia di Anna Karenina o Madame Bovary ero costretta a passare lo stesso identico tempo in compagnia di nonne o zie che m’insegnavano a fare la pasta a filo per un ottimo byrek o a grattugiare a maestria le bucce d’arancia per un’ottima marmellata.
E in queste “riunioni al femminile” venivano raccontate le storie di famiglia, del paese, delle donne che erano finite male perché erano frivole e il mondo non perdona la frivolezza, di altre più furbe che erano riuscite a sopravvivere pur non essendo così oneste. Insomma, un’educazione sentimentale la loro che nemmeno il caro Flaubert sarebbe riuscito così bene nell’intento.
La comunità ebraica di ieri e quella di oggi in Albania, come convivono?
Quella di ieri credo di essere riuscita a raccontarla ne “Il tuo nome è una promessa”, invece oggi non saprei vivendo da 23 anni fuori dal paese. Per raccontare un fenomeno bisogna vivere il quotidiano e non una settimana feriale all’anno. Nonostante tutto è un dato di fatto la convivenza religiosa in Albania dovrebbe essere esempio per tutto il mondo.
Si chiede spesso qual è il suo scrittore preferito. Mi piacerebbe chiederle invece, qual è sua scrittrice preferita?
Ho tante scrittrici che amo, in questo momento posso nominarne tre: Marilynne Robinson, Yasmina Reza e Agota Kristof. Ah, sì, anche Alice Munro. Vedi che sono tante?
E passiamo all’ultima domanda: quali sono i suoi futuri progetti?
Ho iniziato da poco la stesura del nuovo libro, preferisco non parlare perché è ancora una scrittura incerta e fragile. Sto ancora cercando la voce del romanzo, ho invece nella mia testa il mondo delineato e perfetto dove si muoveranno i miei personaggi. È sempre un racconto al femminile e forse mi riguarda più degli altri.