La figura di Alì Pascià, “Leone di Giannina“, vissuto tra il 1750 e il 1822 in Albania e simbolo vivente del dispotismo, affascinò molti letterati, tra cui Lord Byron e Alexandre Dumas; quest’ultimo, oltre a narrarne la caduta tramite il racconto della figlia, la principessa Haydée, nel Conte di Montecristo, gli dedicò anche un’altra opera, la sua versione dell'”Alì Pascià” di Jean Pierre Mallefille, che Dumas scrisse probabilmente col desiderio di appoggiare i moti rivoluzionari albanesi. Scritto direttamente in lingua italiana, l'”Alì Pascià” di Dumas costituisce un documento unico sull’uomo dalla ferocia illimitata e dalla sistematica slealtà che “fu insieme il Tiberio, il Caligola e il Nerone dell’Epiro”.

Chi erano I klefti?
I klefti “erano uomini di forza e di destrezza poco comuni, oltre al loro coraggio; spendevano quasi tutte le ore di riposo in esercizi guerreschi; molti fra essi potevano rompere un uovo sospeso a un filo a duecento passi; altri alla stessa distanza facevano passare una palla in un anello di un terzo appena più largo di essa”.
La storia degli indomabili klefti, nemici giurati della Turchia degli Ottomani, si mischia con quella di Alì Pascià “il terribile”, l’albanese detto “il Leone di Giannina”. Figura leggendaria e insieme terribile, incuteva terrore sui nemici e sui suoi stessi sudditi, facendo parlare di sé l’Europa a cavallo tra il ‘700 e l’’800 per le sue imprese militari e i suoi metodi spietati. Ma di sicuro quest’uomo, ora dimenticato, fu anche un abile politico e diplomatico, se riuscì a costituire una sorta di Stato autonomo nei Balcani sostenuto da russi e soprattutto dagli inglesi, prima di venire giustiziato dai turchi stessi.
Su di lui scrisse, sul giornale L’Indipendente, un lungo racconto il celebre romanziere Alexandre Dumas padre, l’autore de il Conte di Montecristo, ora pubblicato dalla casa editrice Elliott (pp. 94, euro 11,50). I klefti erano abitanti delle montagne, prodi guerrieri, difensori orgogliosi della loro terra dagli invasori, ma anche predoni temuti per le loro scorrerie; quando i Turchi si spinsero nella penisola balcanica, i Greci delle pianure si arresero subito, ma non gli abitanti delle montagne interne. “Tali uomini – dice Dumas -, doveva Alì Pascià, domar prima e chiamare poi all’indipendenza, e questi, ridotti di nuovo in servitù, tentano ora per la terza volta riconquistare la libertà”.
Siamo negli anni ’60 dell’Ottocento, in un momento storico particolare, quando cominciavano i moti rivoluzionari albanesi contro gli Ottomani, simbolo di dispotismo e oppressione dei popoli. Ma probabilmente il personaggio affascinava Dumas, tant’è vero che lo inserì anche ne Il Conte di Montecristo, dove descrisse in modo romanzato la sua fine per bocca della figlia, l’unica scampata al massacro della famiglia. Del resto, la vita di Alì era essa stessa un romanzo e per questo Dumas la raccontò così com’era: questo è uno dei casi in cui la fantasia supera ogni immaginazione e cattura il lettore completamente. La definizione che dà fin dall’inizio di Ali Pascià è tremenda: dice che racconterà i delitti di un “uomo che, rappresentante della potenza turca in Albania, fu insieme il Tiberio, il Caligola ed il Nerone dell’Epiro”. Era nato a Tepelena, vicino ad Argirocastro, e aveva imparato fin da piccolo a vivere tra complotti e omicidi per il potere, in cui si distinse la madre stessa, rimasta vedova e diventata regina: come primo atto, fece avvelenare due fratelli di Alì, risparmiando lui perché era il suo prediletto.
E fu per soddisfare la volontà della madre in punto di morte che Alì si macchiò dei delitti forse peggiori della sua lunga vita di signore della guerra: l’eliminazione completa delle due città rivali. E se per la prima non ci furono intoppi, fu la seconda quella in cui più rivelò la sua dote migliore, la doppiezza.
Il racconto di Dumas, anche se non aggiunge dati di fantasia, insiste su quanto di più nefando ci può essere nella natura umana, ma senza darci molte prove se non la leggenda. Questo quanto riferisce sulla eliminazione degli odiati Cardikiotti: la sorella di Alì vedendo che la punizione della città nemica tardava ad arrivare, corse nell’harem del fratello, che era diventato sovrano di Giannina, e lo trovò intento a firmare un accordo con quella città. Chainitza, la sorella, ne fu felice, perché capì che dietro a quel patto ci stava un tradimento, “giacché conosceva la fedeltà di suo fratello nei trattati conclusi col nemico; capì che avrebbe tosto la città a straziar viva (avrebbe compiuto atrocità, Ndr) e rientrò col sorriso sulla labbra, nel suo palazzo”.
Qui Alì superò se stesso: una volta stipulata la pace, dichiarò un’amnistia per tutti e invitò tutti gli abitanti a radunarsi in un luogo fuori dalla della città per annunciare la buona notizia. Per convincerli a seguirlo in un caravanserraglio lì vicino che poteva accoglierli tutti, promise impieghi, pensioni e onorificenze, quindi batté le mani come per dare un ordine convenuto e fece chiudere le porte dell’enorme recinto, dando il via alla decimazione.

Quanto alle donne, che erano state separate, il compito venne lasciato alla sorella che non fu da meno. La volontà della madre era stata così appagata. Un’altra volta si distinse per la sua astuta perfidia. Fu quando decise di prendere la città dei Suliotti, una popolazione di pastori cristiani che si era ribellata ai turchi. Anche con loro gli emissari usarono lo stesso stratagemma dei Cardikiotti: un’amnistia per tutti gli abitanti che erano allo stremo per la sete. Con tanto di patto scritto, che il libro riporta integralmente, il Leone di Giannina si impegnava a salvare la vita ai Suliotti una volta arresi, a liberare gli ostaggi con la promessa che “i Suliotti che vorranno restare in Albania e restarvisi, avranno in tutta proprietà, terre e villaggi, onore e sicurezza e protezione presso al nostra famiglia”. La conclusione era: “M’incenerisca Iddio della sua folgore, se vengo meno. Risoluto, stabilito, ratificato e firmato da me e dai miei fratelli d’armi musulmani sunniti”.
A questo punto anche i valorosi Suliotti si fidarono, e fu un terribile errore: una delle colonne di cristiani in marcia che abbandonavano la città fu attaccata e sterminata.
Ma il Leone aveva anche altri doti, se arrivò ad estendere il suo regno quasi autonomo dall’Albania all’Epiro alla Grecia, facendone una piccola potenza regionale, grazie alla rete di alleanze che intesseva e poi infedelmente ribaltava. Doti da vero stratega. Soprattutto se l’intese con gli inglesi, nemici giurati della Sublime Porta e non meno ambigui di lui, ma anche con gli stessi russi. Riuscì a trarre profitto della situazione confusa che si era creata in quegli anni con le trame tra Caterina II di Russia “la Grande” e Giuseppe II Asburgo per spartirsi i Balcani ai danni dei Turchi, e poi della crisi della Sublime Porta dopo la guerra russo-turca con le relative ingerenze francesi e inglesi.
Non ci fu parte in campo con cui Alì non tramasse patti di convenienza, compresi i ribelli greci a cui promesse il suo appoggio. Finché un giorno il Sultano cominciò a guardare con sospetto questo infido piccolo sovrano che si stava espandendo al di fuori del suo controllo all’interno dei suoi domini, e aspettò il momento giusto per neutralizzarlo. Ma anche quando Giannina venne messa sotto assedio da due armate e dalla flotta ottomana, il Leone non rinunciò a usare le sue armi della doppiezza. Prima convinse i sopravvissuti dei poveri Suliotti, da lui sterminati, che ora combattevano sotto le bandiere del turco, a disertare promettendo di restituire loro le terre sottratte. Poi tentò di ottenere la benevolenza direttamente del sultano stesso, rivelandogli i piani segreti dei Greci in rivolta contro di lui per l’indipendenza.
Ma quest’ultima mossa si rivelò un boomerang fino addirittura alla beffa finale, quando fu lui stesso – incredibilmente – a lasciarsi raggirare da un inganno. Fu ucciso con i suoi figli, e la sua testa mozzata portata su un piatto d’argento al Sultano come un trofeo.
Il libro, che purtroppo ha la notevole pecca di non avere un’introduzione né commento e note per spiegare la terminologia storica usata da Dumas sulla dominazione ottomana nei Balcani, né un glossario indispensabile per spiegare molte parole dell’italiano ottocentesco e spesso scorretto usate da Dumas (L’Indipendente era un giornale voluto da Giuseppe Garibaldi), riporta però alla nostra attenzione l’incredibile vita di un personaggio che la storia ha condannato per i suoi comportamenti sanguinari e la sua brama di potere, comune del resto ai suoi contemporanei, ma al quale è stato riconosciuto il merito di essere stato uno degli artefici del risveglio nazionale albanese. Tanto che pochi anni fa, il governo del Paese delle Aquile ha aperto una trattativa con la Turchia per ottenere la restituzione delle spoglie, in parte rimaste a Istanbul, del “Leone di Giannina”.
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Giovanni Verga è giornalista professionista, ha seguito le crisi in Palestina, Afghanistan e Siria. E’ autore di due libri reportage: Vivere in Palestina tra tablet, muri Bibbia e Corano (Infinito Edizioni), tradotto anche in inglese, e In viaggio con la Jihad. Afghanistan-Siria, un reportage di frontiera (Alpine Studio editore)
Elliot Edizioni è nata a Roma nel maggio 2007. Il nome deriva dalla rivista “Elliot narrazioni”, nata nel 1999 e guidata da una forte curiosità verso il mondo letterario e artistico internazionale.
