Da L’eterno ritorno, il racconto di Eduart nasce il romanzo Eduart, che verrà pubblicato da Besa Muci Editore tra qualche mese. Eduart è il secondo volume della trilogia, che si apre con il libro Cronaca di una vita in silenzio.
L’eterno ritorno
“Tu sei nata per il mio sogno!”, gli diceva il suo cuore. “I nostri destini sono due cerchi chiusi condannati alla bellezza dell’eterno ritorno!” Era un pensiero costante che gli sgorgava dall’interno. Era settembre, quello delle partenze e degli adii. Il settembre in cui coloro che ti amano maggiormente, salgono sui carri di legno scolpito e, dentro poltrone di feltro e di taffettà, trainati da agili cavalli svaniscono nell’orizzonte lontano. Gli uccelli fuggono, i colori sbiadiscono, i sorrisi, le tenere parole si disciolgono e l’aria si riempie del freddo autunnale. “Tu sei nata per folgorare la mia anima!”
Il poeta aveva superato da poco i 40 anni. Era seduto sulle sabbie deserte della riviera marchigiana. L’aria era fresca. Onde sottili, velate di schiuma, con la leggerezza soave di pensieri mattinieri, venivano verso la riva piana. Aveva un amaro sapore in gola. Provava la sensazione di un vuoto misto a nostalgia; trovava conforto solo nelle vastità dell’orizzonte del mattino. Indossava un mantello rosso. Nelle pupille si bruciavano fuochi di tristezza che l’avevano gettato nel mare del passato. “Ahi mare”, pensava, “anche se io sono ancora qui, io mai raggiungerò quel mare d’amore sognato!”
Corporatura magra, spalle flosce, aspetto da meditativo, naso aquilino, labbro inferiore accentuato, mani da scrivano in esilio, stava lì, avvolto in quel tacito momento eterno. “Ahi poeta” sentiva misteriosamente, dove vai così sperduto nel fiume d’immagini che non ritorneranno se non in sogno! Era il 1305. Il ribrezzo come un amaro timbro gli marchiava l’esistenza. Fissò con le pupille stanche gli spazi del mattino e si ricordò di lei, di Bice Portinari che un tempo lo aveva fatto sognare errando per le strade di Florentia assorto nella sfera dell’amore senza alcuna speranza. Era stata già promessa sposa. L’aveva sognata la notte precedente come defunta felice e a causa di quel sogno, destatosi in preda all’inquietudine, rigando le gote scarne di lacrime improvvise, aveva voluto consacrarla nel dramma della sua totale solitudine.
Pensando a lei era finito in riva al mare, nell’unico luogo in cui non solo meditava meglio, ma dove la meditazione trovava lo spazio giusto per correre libera. Là, con l’amarezza in cuore, ricomponeva dal nulla disordinati squarci di memoria che apparivano ancora più significanti. L’aveva sognata mentre usciva dalla storica porta della chiesetta di Santa Margherita dei Bardi. “Apparuit iam beatitudo vestra!” Gli era apparsa come era in quel momento eterno, quando lui, colpito dall’amore, con il cuore greve, nascosto dietro le persone allegre che assistevano al matrimonio di Bice, soffriva l’inferno anche se era vivo. L’aria pungeva le narici, l’amarezza gli avvelenava le viscere e lui aveva il petto sgombro come quello dell’uomo che va verso l’inevitabile rogo pallido come un cencio.
L’aveva sognata con i capelli lisci, color miele, con lo sguardo da adolescente gracile e mellifluo, che ferisce gli sventurati con una fuggitiva occhiata da vergine in tenera età. Gli aveva fatto un sorriso all’entrata della chiesetta, mentre lei poggiava soavemente la candida e gracile mano sul marmo della porta. L’aveva vista con quello sguardo carico di una dolcezza arcana, velata di emozioni pure e per un attimo in sogno era stata sua. “Tua nell’al di là!” gli aveva sussurrato quando l’aveva sfiorato delicatamente con lo sguardo; poi con mosse da regina adolescente aveva posato la scarpetta bianca e fine sulle pietre della stradina!” Nel sogno Alighieri era seduto su una pietra e negli spazi azzurri del cielo osservava le immagini che filavano penose.
Lei era morta nel ’91, che non aveva nemmeno ventiquattro anni. Il padre Folco era già stato sepolto all’interno della cappella della chiesetta, al lato sinistro del santuario, sotto una lapide di marmo pesante. Settecentodieci anni erano passati. La chiesetta era ancora lì con la lista dei canonici che si erano succeduti nei secoli. La porta di legno massiccio scuro a due ante era sommersa nel crepuscolo della sera. Una mistica musica si spargeva nell’aria vespertina. Eduart indossava l’impermeabile grigio con il colletto imbottito di spugna, gonfio, e con la cerniera lunga davanti, confezionato dodici anni prima. Si era inoltrato nel portico del vicolo, e calpestando il lastrico, dapprima si era fermato a leggere la storiografia della chiesa scolpita su una lastra, poi aveva oltrepassato l’uscio di pietra levigata, e suggestionato dai frammenti di musica vocale che si spargevano nell’aria, si era seduto accanto alla tomba di Bice. Lo sguardo era scivolato sui quadri dei santi, che si distinguevano a malapena a causa della polvere secolare; aveva osservato con attenzione le decorazioni di marmo e l’altorilievo che rappresentava l’apparizione di Gesù agli apostoli dopo la resurrezione.
Un leggero odore d’incenso si spargeva nell’aria. Era un sabato qualsiasi d’inverno. Le quattro erano passate ma l’amarezza di quei sabati di dieci anni prima riportava a Eduart l’epoca dell’amore nell’età dell’innocenza. Tornò indietro nel tempo. Accanto a lui, dentro la nicchia di marmo giacevano le ossa di quella creatura che secoli addietro aveva ispirato i versi del maggior poeta dell’ umanità. Accanto a lui, vestito con un velo, in attesa del giorno del giudizio, giaceva Bice, la gracile fanciulla dal nasino all in sù, dagli occhi dolcissimi che gettavano sguardi d’una innocenza conturbante.
Lì accanto, dormiva il sonno della morte la fanciulla che secoli prima, con irrequieti sogni e fantastici castelli in aria, aveva arricchito fuori d’ogni misura il nostalgico giovinetto Alighieri che gravido d’amore andava ai lungarni e solitario piangeva nere lacrime. Era stato lui, sì lui che all’imbrunire sulle colline di S. Miniato, fantasticava triste creando impossibili mondi in cui fulminato dalla luce della felicità viveva attimi d’amore con lei. Tornò dodici anni addietro. Rivide il mare d’estate di fine agosto, quando Eugenia con il costume da bagno con la grazia di una ninfa marina usciva dalle acque.
Camminava a mosse riservate, lavata d’acque tiepide, abbronzata dallo spietato sole mediterraneo, graziosa, con i seni molli compressi dal materiale sintetico, i fianchi morbidi, le ginocchia modellate, i polsi fatti a misura d’artista, le guance solari, i capelli gocciolanti biondi e le labbra fresche da diciottenne. Il cielo di quell’epoca era tinto di azzurro innocente. La sabbia scottava e c’era una musica di tristezza nell’aria da prostrarti nello sconforto dell’adolescente innamorato.
Allora i fogli dei quaderni acquistati non bastavano per spargere fiumi d’inchiostro nell’intento di versificare ciò che lui sentiva. Era l’epoca in cui Eduart astutamente, era riuscito, in un immemorabile mezzodì, quasi a unire il suo ombrellone con quello di lei, e, a due palmi da lei, con il cuore che spaccava il petto per il violento battito, si era arrischiato a parlarle.
Che organo divino suonava nell’aria alle dodici in punto! Con un filo di voce, tremulo e carico di timidezza era riuscito a dire: “Come è andata a Valbona?” Lei, senza rispondere si era alzata, aveva chiamato l’amica ed erano corse ridendo a fare un tuffo nel mare. Stavano sempre in gruppo. Eduart era rimasto lì, assorto, ridotto nella dimensione onirica di un sogno inafferrabile, con le mani tremanti, la gola arida, lo scompiglio nel cuore. “Vi siete divertite a Valbona?” aveva chiesto poi alla sorella di lei, Vilma, quando l’interessata se ne era andata.
Lei, aveva abbozzato un sorriso di compiacenza, lo aveva fulminata con uno sguardo, la luce candida negli occhi, aveva mosso la capigliatura ad onde, nera e con una voce melodiosa, da sedicenne aveva risposto: “Si ci siamo divertite!” Eduart avrebbe voluto morire in quell’istante. Il cuore gli balzava in gola, si trattene con fatica. Si sforzò a non mostrare gli occhi lucidi da una commozione profonda sulle guance ed aveva guardato verso il mare. Era solo un diciottenne caduto nella trappola dell’amore senza conforto, poi furtivamente si era ritirato sotto il suo ombrellone. Lì teneva La vita nuova di Dante, le poesie di Goethe, le poesie di Heine e certi sonetti d’amore di poeti francesi, la cui lettura lo confortava per l’avversità d’amore in cui era stato coinvolto.
“Ecco”, aveva pensato allora. “Anche io come Dante, non conoscerò mai il regno d’amore. Ricordò queste cose, mentre seduto su una panca immersa nel semibuio mistico della chiesa di Dante, Eduart sentiva accanto a sé le spoglie di Bice. Eugenia invece si era persa nell’ignoto pullulare delle innumerevoli persone che vivevano nel vecchio continente. Era andata via all’epoca dell’esodo del Marzo del 1991.
E sempre in preda a vivide fantasie adolescenziali ripensò con nostalgia ad Eugenia.
Forse anche l’Alighieri, secoli prima, da qualche parte della spiaggia di Ravenna, aveva pensato alla fanciulla dei suoi languori adolescenziali soffrendo da muto amante esiliato e errabondo, le stesse pene d’amore perduto. Dalla spiaggia veniva una brezza leggera, che con freschezza soffiava sul collo, sul volto sbarbato, sulle mani nude posate sulle ginocchia, dietro la nuca. Non c’era anima viva. Era lo stesso mare. Il mare che confinava con il mediterraneo eterno dei poeti. Dante in preda a visioni giovanili, con il libro di Virgilio in mano consumava le ardenti fiamme della sua nostalgia. Non rimpiangeva le lacrime, perché i patimenti inducono alla sofferenza e la sofferenza fa forti e tenaci, matura. Il suo lungo volto dalle mascelle grandi riempito dal naso aquilino era rivolto agli spazi d’acqua e d’aria.
Aveva stampato nelle pupille marroni l’afflizione dall’esilio, l’amarezza dell’essere cacciato dalla città che più amava al mondo, dalle stradine di pietra con le torri dei signori, le botteghe e il via vai della gente. Alighieri tornò a evocare quella mattina domenicale e il luogo in cui si glorificava il Signore e lì seduto sulle panche in linea retta distinse il candido, leggiadro profilo della sua amata donna dei sogni. Dante, offuscato dalla presenza di lei, rosso in volto, con il tremulo cuore da diciottenne si girò appena e notò la donna che lo separava dalla persona amata e lei lo scrutava con una indiscreta curiosità.
E da dietro sentiva dire: “Vedi come cotale donna distrugge la persona di costui?” Non si era girato. Un tremore nel corpo partì dalla sinistra invadendo tutto il suo corpo fino alla estremità destra. E successe qualcosa nel suo spirito adolescenziale. Quella mattina domenicale, mentre il prete predicava la resurrezione di Gesù, Dante ebbe il dono dell’ispirazione. Uscì ancora confuso; lei l’aveva notato e gli aveva concesso il saluto gentile.
Gloria dell’universo, che gioia momentanea! Dove poteva andare il povero Alighieri se non rifugiarsi nella sua camera, chiudere le ante di legno e inzuppare di lacrime le lenzuola ripetendo in eternità la scena del saluto quando lei gli aveva sorriso guardandolo con gli occhi fulgidi. La chiesa era la stessa. Di base quadrangolare, rivolta verso Gerusalemme come tutte le altre chiese. Fatta di pietra solida e con lo stesso altare del lontano passato nonostante la numerosa successione di sacerdoti che l’avevano governata.
Eduart era ancora seduto sulla panca di legno scuro. Alla destra della porta c’era il confessionale. Non si celebravano più messe se non in memoria di Bice Portinari, di Dante Alighieri e in altre occasioni speciali. I turisti, una volta trovato l’indirizzo sulle Guide Turistiche, si infilavano nella chiesetta e dopo aver fatto il segno della croce, si mettevano a osservare lo spazio in cui secoli prima, Dante entrava con il cuore addolorato, mansueto, camminando come su dei cristalli per ammirare la sua Bice, che in mezzo alle donzelle udiva la parola del Signore.
Anche Eduart suggestionato dalla musica ecclesiastica distribuita dalle quattro casse dello stereo installate ai lati dell’edificio, senza badare ai turisti aveva puntato le pupille sulle mani fini di un santo, che nel quadro ad olio con i palmi uniti, erano rivolte al cielo.
Una volta rivolgeva anche lui preghiere ad un Dio ignoto per Eugenia, che superba e fiera percorreva la lunga strada dai pioppi verdeggianti. Capitava di solito al sabato sera. Quando lei si incamminava per tornare a casa al fianco del padre, un uomo sulle cinquantina, pittore emarginato dal sistema, un uomo serio, di una vasta formazione intellettuale. La sofferenza aveva lasciato l’irrimediabile timbro nel suo volto. Baffi corti da Mann, capelli corti leggermente brizzolati, fronte quadrata, zigomi e mascelle quadrate, statura robusta ed alta, andatura mansueta.
Camminava sempre con le mani in tasca, l’impermeabile marrone, sciarpa scura e spalle leggermente curve. Appariva sempre di sera nella strada, illuminata, male e parzialmente, dai pali elettrici. Il cielo era tinto di un blu cosmico, con stelle e luna che si intrufolavano tra i rami dei pioppi d’ottobre mentre le foglie gialle cadevano in mulinelli dolci e il fruscio del vento portava echi lontani.
Era sempre un’emozione per Eduart, che nascosto dietro gli oleandri della strada, con gli occhi furtivi del ladro d’amore, li distingueva mentre tornavano a casa dopo il corso d’inglese. Affiancavano il padre le sorelle. Eugenia a destra e Vilma a sinistra. Eugenia indossava la mitica giacca blu scura, la sciarpa rossa fuoco ed Jeans larghi da adolescente. Vilma invece, il giubbotto sintetico color blu celeste e imbottito di spugna, che sotto i neon diventava di un viola onirico. Erano serate dell’ottantotto.
Eugenia portava sciolti sulle spalle i capelli lisci e di un giallo da grano maturo. Aveva le guance tonde e gli occhi neri esprimevano l’irrequieta dolcezza della tenera età; una dolcezza talmente accentuata da far innamorare tanti ragazzi in tutta la città. Eduart era uno di loro. Il povero Eduart la notava immerso nell’oscurità della strada autunnale e non sapeva che un giorno, grazie a quella bellezza avrebbero fluito in lui irrompenti cataratte di parole ispirate.
Il gioco dei suoi sentimenti era cominciato da quel lontano pomeriggio accanto al finestrone presa d’assalto dalla furia della luce verde. All’epoca Eugenia indossava la mitica giacca in pelle nera, e, piccolina, dolcissima, dalla carnagione bianca, faceva innamorare i ragazzi del quartiere al suo passaggio. Ogni contatto a distanza con la sua presenza per Eduart era stata una irresistibile ebbrezza, un irresistibile lacrimare d’innocenza, e così lui aveva voglia di rivederla e rivederla fino all’infinito.
L’Eugenia del sogno, l’irraggiungibile fanciulla dai lineamenti nordici. Fu così che Eduart, per essere pari a lei per cultura e preparazione, aveva deciso a quell’epoca di leggere tutte le poesie e le storie che parlavano d’amore. Nell’arco di pochi mesi, mentre la inseguiva ovunque con l’unico desiderio di conoscerla, si innamorò di tutti i luoghi che lei frequentava, della gente che lei conosceva, e vedeva di buon occhio i suoi famigliari e tutti i suoi amici. Un amore dalle misure spaventose.
Semplicemente conoscere un suo amico, per Eduart, significava piangere d’amore, perché lei da qualche parte esisteva, perché lei da qualche parte rideva, perché lei da qualche parte porgeva il saluto ad uno di quei fortunati ragazzi che la sorte li aveva posto accanto alla sua luminosa vita, e stranamente non erano felici come lui avrebbe potuto essere. Sembrava che una pazzia d’amore simile non si fosse mai vista in città.
Pensava a queste cose a dodici anni di distanza, lì, nella chiesa in cui le spoglie di Bice dormivano il lento sonno della morte ed invaso dalla commozione contemplava il quadro ad olio, in cui Dante addolorato e pietoso assisteva alla celebrazione del matrimonio di Bice. Eduart sentiva nel cuore un misto di nostalgia soave, tenerezza ai margini della tristezza che comunque non giungeva più alle lacrime di una volta. Rivide il mare di un’altra epoca. Il mare in cui l’Alighieri, a chilometri di distanza aveva rievocato di sicuro quella chiesetta, come lui adesso rievocava il mare di 12 anni fa, invaghito perdutamente di Eugenia.
Si erano visti per la prima volta all’età di 9 anni, in occasione della festa del 1 Maggio, la festa della primavera. Il reverendo Folco Portinari, il buon uomo misericordioso, che nella sua generosità aveva fondato l’ospedale di Santa Maria del Fiore per gli indulgenti, aveva organizzato una festa nell’atrio interno del suo giardino e lì, il padre Alighieri aveva condotto anche il figlio Dante. Lì, in mezzo al tumulto dei nobili ragazzi, scorse la divina fanciulla. Lì, per sua grazia era stato fulminato dalla dolcezza del suo volto illuminato dal candore interno della grazia più benedetta. A diciotto anni era in preda al panico.
Credeva che vedendola avrebbe ricevuto conforto, ma era un piacere pieno di tremore e muti sospiri. C’era in lui però una potente forza che lo spingeva ad avvicinarsi verso di lei. “Heu miser, quia frequenter impeditus ero deinceps!” Si era accorta Beatrice dei sospiri del taciturno Dante che stava sempre muto, ermetico, con tutti i suoi spiriti attenti verso l’insolita fanciulla. In chiesa, di domenica, con la coda dell’occhio, furtivamente lei lo guardava: “Ahi, tu che ti consumi d’amore fedele. Ti condurrò alla salvezza. Benedetta la tua anima candida in eterno perché d’amore brucia e d’amore sospira!”
Errava mattiniero sulla spiaggia. Erano i primi tempi dell’esilio e lì era di passaggio, ospite del signore di Ravenna Guido Novello. Aveva indossato le costose scarpette di pelle. Addosso teneva le vesti da nobile del suo rango anche se caduto nella disgrazia dall’esilio. Era rimasto quel nobile fiorentino dall’anima saggia e la mente colta. Era avvolto nel manto porpora del pellegrino esiliato. Aveva amato quel manto fin da quando in sogno aveva visto Bice nuda, avvolta nel manto rosso mentre mangiava un cuore palpitante: il cuore di lui. Stava tra le braccia dell’ uomo dall’aspetto tetro: “Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi!”
Camminava lentamente, dedicandosi totalmente al piacere amaro del ricordo e con una furia improvvisa rivide ciò che anni prima, chiudendo gli occhi, con il cervello sconvolto dalla febbre bruciante delle lacrime, magro e pallido, mentre lui dalla disperazione chiamava la morte, Bice apparve tra le strade in bianchissime vesti luminose tra due donne: sua nutrice Monna Gemma e sua Madre, e gli porse il saluto. Heu! Deus. Osanna in excelsis. 9 anni d’amore febbrile. 9 giorni di ininterrotte lagrime.
Era l’ora nona quando si innalzò nei cieli. A 9 anni la conobbe. “Io andrò a vedere il principio della pace!” Che era quel presentimento? Dante continuava a camminare mansueto. All’epoca della morte di Folco, così forte era stata l’amarezza di Beatrice che non c’era stata donna capace di consolarla. Mai si era vista un dolore così profondo nell’anima di una tenera fanciulla come lei. Solo ragazze allevate per innalzarsi nei cieli della gloria, avevano saputo amare i genitori in cotale modo.
Anche Eduart aveva partecipato alla morte del buono Stef, che aveva 55 anni quando spirò. Un cancro allo stomaco lo troncò in una settimana. Erano i primi giorni dell’anno 1990. Eugenia e Vilma sparivano alle segrete ed assidue sorveglianze di Eduart. Sorveglianze che lui conduceva di nascosto dietro gli alberi della immensa strada con la speranza di scorgerle in cammino. “Vanno all’ospedale!” gli aveva confessato Beni, un assiduo corteggiatore di Vilma.” Hanno il padre che sta male!”
In una di quelle giornate Eduart sognò l’immensa strada dove loro sfilavano per andare a casa loro, con i pioppi che ingiallivano e lasciavano cadere le foglie.
Quando si destò comprese il messaggio del sogno premonitore. Lo verificò dall’annuncio mortuario attaccato all’entrata del palazzo con il balcone dai mattoni bianchi. Lui se ne era andato. Ahime che dolore degno di lacrime! Come si udivano le grida delle figlie amareggiate. Come quando Bice si consumò piangente accanto al corpo del suo padre defunto così anche Eugenia liberava a fiotti cocenti lacrime per la morte improvvisa del padre. Eduart assistete al rito funebre a distanza.
Sempre furtivamente, come un ladro nascondendosi dietro gli alberi del cimitero vide lei, vide lei, la Bice dei tempi contemporanei, con la pelle triste, gli occhi neri di una dolcezza languida, tenuta per le braccia dai suoi migliori amici. Era di una bellezza unica nel suo scompiglio dell’anima.
Furono i mesi in cui si sforzò con tutte le forze del corpo e della mente di lasciarla in pace. Ma come poteva fare in una città in cui tutte le strade conducevano alla sua casa. Ci riuscì a stento, con un grande sforzo nello spirito malato d’amore. La tristezza, il vuoto delle canzoni di quell’epoca, il biancore freddo e sterile delle notti drammaticamente vuote, la sua inconsolabile ferita si stavano chiudendo. I ritornelli di “Still loving” e “Is there anybady there” confortavano il suo cuore riempito di vuota natura, di continui viaggi solitari lungo la spiaggia di febbraio, cogliendo conchiglie di tristezza.
Nei mesi a venire seppe che lei si era messa con un ragazzo del gruppo che lei frequentava a quel tempo. Gruppo in cui Eduart non era riuscito mai a entrarci. Geloso? Come poteva? Anzi, viveva sull’ orlo di un vuoto piacevole, grigiastro, e la primavera del 90 lo trovò immerso in letture di poesie d’amore, sentiva per ore nastri registrati di musica rock, scriveva poesie. Voleva conforto, ma conforto non c’era, solo tristezza, vuoto e dolore. Però la vide un pomeriggio mentre passava con gli occhi lucidi per la strada. Eugenia, la dolce e capricciosa creatura dalle guance tonde, sopracciglia ad ali di rondine. Vide le sue labbra fuoco, lo sguardo acuto ed ebbe un trepido strano, tremore che partì dalle viscere.
La vide mentre comminava solenne nella strada dai pioppi infiniti. Era sola. Aveva raccolto i lisci capelli biondi in una treccia dietro la nuca. Aveva gli occhi intrisi di un dolore recente, e Eduart cercava di indovinare (pazzia d’amore) le tracce delle labbra dell’altro, del fortunato, che l’avevano baciata. Procedeva in avanti a stento, distrutta dal lutto, con il giubbotto blu chiaro imbottito di cotone molle, i Jeans larghi di sempre, stivali neri alla moda. I loro sguardi si incrociarono in un abbaglio momentaneo. Poi lui se ne andò a piangere nella sua camera buia come Dante aveva fatto secoli fa.
Questa non era però una favola, ma una storia vera. “Ahi se sapessi che almeno un solo pensiero lei rivolge a me con la stessa dedizione con cui io l’amo!” Gli parve che gli rispondesse: “Ti ricordi del mare immenso che sognasti quando mi parlasti per la prima volta quel sabato alle quattro in punto? Ero tua! Ahi se sapessi che almeno una volta hai pianto per me! Ti ricordi nel sogno della maglia rossa stracciata che mi tolsi e la diedi a te? Era il mio amore! Ahi se sentissi la tua bocca di sogno mentre tocca le mie labbra! C’è una barriera forte che ti respinge da me. Ora tu sogni la guarigione ma verrà il momento in cui ti desterai guarito e gli angeli ti permetteranno la scienza di Dio come è stato previsto per te!
Eduart verificò queste cose anni più tardi, verso i trent’anni quando sognò il Libro Universale. Dormiva nella camera di via Prato. Il libro si chiamava Enigma. Eduart lo aprì curiosissimo. Aveva la copertina rigida. Alla prima pagina vide l’uomo Vitruviano ornato di strisce dipinte ai lati, poste armoniosamente come nei migliori
quadri rinascimentali. Era scritto in un latino di Chiesa. I colori erano brillanti. Sopra la testa dell’uomo nudo c’era scritto a lettere gotiche l’Ecce Homo. Lo aprì con una insolita ansia curioso di leggere il contenuto. Riuscì a leggere la prima riga del libro massiccio.
“Prima di tutto, osservare attentamente!” Mentre tentava di sapere di più un sbattere di porta lo destò di soprassalto. Stava ancora seduto sulla panchina della chiesetta di Dante.
Lì dove circa 715 anni prima Bice si era fatta sposa con Simone dei Bardi. Eduart cercò di immaginare il povero Alighieri che osservava la cerimonia da qualche cantuccio semibuio tra la folla gaia, vispa, ebbra.
Sarebbe stato lui il poeta divino ispirato a causa dagli amari esili. Ahi vita che non sei altro che mare di lacrime e di sospiri. Alighieri continuava a passeggiare lungo la riva. Certi gabbiani ignoti si tuffavano a picchiata sul pelo dell’acqua ondulante. Non aveva più nel cuore l’amarezza del dramma intimo.
Sentiva invece una nostalgia sopportabile, che a volte mutava in immediato desiderio di esprimersi in versi ed a volte si faceva sottile come le nebbie rosee dell’alba e si consumava nell’anima come una bevanda piacevole. Era comunque un momento cruciale. Mentre gettava i passi sulla sabbia molle si ricordava dei suoi 9 amarissimi giorni quando cadde a letto malato. Evocava lei, la gracile Bice, la fanciulla che poteva essere solamente divina e
null’altro.
Udiva voci: “Tu pur morrai!” Così forte erano le sue creature d’aria che riuscì a vedere tra le lacrime del dolore la Bice morta rigida, mentre le donne la avvolgevano nel bianco e trasparente velo. Fu allora che apparve l’angelo in vesti bianche e gli disse: “Tu devi imparare l’arte di rivolgerti a lei in soavi e armoniose rime, con le tue parole la devi adornare di bellezza, così imparerai l’arte di verseggiare, Dante tu non sei tu, sei un altro, mutato dall’amore, perché forze divine ti hanno trattenuto lontano da lei, ma tra poco ti desterai e Dio ti insegnerà l’amore divino.
Ecco, per questo sei stato scelto. Per questo sei venuto al mondo! detto ciò l’uomo in bianche vesti sparì e Dante si destò d’un colpo, tornato tra i vivi, nella materia. Cominciò così a rivolgersi alla fanciulla in rime. Nove mesi più tardi morì anche Bice, probabilmente per l’eccesso del dolore per il suo buono e generoso padre defunto. All’età di 24 anni. La prima ora del nono giorno del mese nono secondo il calendario arabo. A lui, non rimase null’altro
che avviarsi verso la guarigione, l’oblio, la nuova vita. Partecipò alle campagne militari contro i Ghibellini che si erano impossessati di Arezzo. Lottava con fervore, operava in ogni dove per dimenticare la beata Bice e, spesso, era fulminato da teneri sentimenti di indulgenza e compassione.
Molte volte perdonò nemici e fece la carità. Erano gli anni della maturazione nelle humanae litterae. Ebbe nozioni sulla mistica dei numeri e riuscì a comprendere il significato dei ripetuti nove. Amò Virgilio. L’autore dell’Eneide. Adesso invece continuava a passeggiare lentamente, con passi mansueti. Il paesaggio era piatto e lontano si scorgevano colline coltivate d’uliveti, campi seminati di cereali. Il mare era color verde blu, piatto e liscio come l’olio. Non sarebbe più tornato nella Florentia del cuore. Sarebbe morto in esilio conoscendo l’amarezza della nostalgia insoddisfatta da Guelfo Bianco costretto alla fuga.
Alcuni principi lo avrebbero aiutato. Non avrebbe più messo piede nelle stradine lastricate dei Bardi, sotto l’arco di S. Piero. Non si sarebbe più affacciato alla chiesa di S. M. Novella, S. Croce e S. Miniato al monte. Sarebbe morto senza consacrare con le lacrime i luoghi in cui ancora errava lo spirito gaio di Bice. Non si sarebbe più seduto sulle panchine della chiesetta in cui i loro sguardi si erano incrociati, né gli avrebbe più concesso il saluto graziosamente sul lungarno accanto al Ponte Vecchio, sorridendogli gentilmente.
Sarebbe morto senza rivedere la sua cameretta con le persiane chiuse in cui piangeva ininterrottamente. Sarebbe stato sempre condannato a un vagabondaggio senza meta, per le strade straniere delle regioni italiche, ospite di chi sa quale sovrano generoso, cogliendo modi d’espressione e insegnando la scienza di Dio. Vagando, simile ad un agnello smarrito, che curando a stento le sue stesse amarezze sogna di tornare al gregge e non fa che girare intorno all’ovile, anche lui si sarebbe aggirato in chi sa quale notte lunare, d’estate o d’inverno attorno alle solide mura di Firenze bramando d’entrare dentro. Avrebbe osservato le porte chiuse di notte: Porta al Prato, P Romana, Porta Becaria, S, Miniato, avrebbe avuto nostalgia della sua vita passata: entrare almeno una altra volta travestito forse da mendicante.
Un’ultima volta forse piangere sulle pietre gloriose del Duomo in cui la leggiadra mano bianca di Bice si era posata, poi avrebbe voluto morire appagato. Ma nulla di simile accadde finché ebbe fiato. Dio l’aveva scelto per stilare il canto divino. Non avrebbe mai accettato un invito vile da parte della Signoria di Firenze ed essendo lui un nobile non poteva sopportare le umiliazioni che gli odiosi Guelfi Neri gli avevano predisposto. Pensando così Eduart stava ancora seduto sulla panca in legno massiccio nel semibuio della chiesetta di Dante, allo sbocco della sua casa immaginata. La musica religiosa continuava a spargere nell’aria prodigiosi frammenti di suoni carichi di arcana forza suggestiva.
Lui girava la testa all’indietro e vedeva il tempo passato, il tempo passato, quello vissuto dalle generazioni degli uomini ormai defunti. Allungava il collo in avanti e riusciva a vedere il tempo futuro i giorni che sarebbero venuti. Si ricordò dell’epoca in cui l’amore suo era ancora ai germogli. La primavera dell’89 prometteva bene. Avevano scambiato un paio di parole di sfuggita in cammino, parole che erano riuscite di sicuro ad inquietare più o meno il sonno di Eugenia.
Chi era quel ragazzo silenzioso che ci inseguiva? Il suo languore nel viso, la paura, il terrore nel suo viso? E quelle parole dette così, come prima di morire? Si destò volenteroso quell’alba di inizio giugno. Gli uccelli cinguettavano gai sull’erba verde e fresca. Le tortore facevano all’amore tinte della luce nuova e mattiniera. Di notte era piovuto. Gli alberi avevano fatto sbocciare le verdi ed acquose foglie in uno sciamare di verdi linfatici carichi di luce. L’aria era satura di sorrisi illusori.
Eduart, con addosso i blu jeans, le scarpe bianche da tennis, la maglia rosso sangue si era appoggiato alle balaustre di ferro accanto alla scuola elementare. Stava lì, piantato in mezzo alla fila dei pioppi fruscianti. Erano le sette passate. Si era informato che sarebbe passata per andare al mare con gli amici. Il cuore gli batteva a tamburo. Non riusciva a controllare l’inquietudine.
Passarono ancora un paio di minuti. Sulla strada, una limpida pozzanghera d’acqua rispecchiava il frusciare profumato e fresco di quella che forse per lui era la prima alba dell’universo. Eduart avrebbe voluto parlarle ma non era convinto di potercela fare. Non sapeva se avrebbe trovato il coraggio di farlo. Appena lei passò accanto, lui impallidì tutto. Tutto trascorse velocemente, e lui come in un sogno fuggevole, in preda ad aberrazioni visive, tremò con il cuore in gola. I secondi cadevano nell’oblio, avrebbe voluto fermarla, sbarrarle la strada, avrebbe voluto dire tutto ciò che gli inquietava l’anima, un amore smisurato per lei, ma rimase impalato.
Perse forse l’occasione propizia. L’aveva vista in un bagliore momentaneo, mentre avvolta in una felice aureola di chiazze di luce bianche gialle, muoveva le membra lattee. Portava i capelli lisci biondi sulle spalle scoperte e una forza interna la faceva muovere veloce, camminando con i sandali primaverili.
Forse temeva lui. Un’altra occasione d’incontro gli si presentò agli ultimi di Giugno quando lei uscì di casa ma lui ancora non ci riuscì preso dall’affanno del cuore. Allora lei gli girò le spalle e si rifugiò in mezzo ad un gruppo di impenetrabili amici colti e chiusi. Finì così un capitolo d’amore che non era cominciato mai. Fu così, come per gioco, cercando di sapere in quale luogo si trovasse, che cosa pensasse, se veramente aveva intenti amorosi nei suoi confronti che Eduart sviluppò le sue facoltà divinatorie.
Era l’inizio del Luglio 1988 quando lei decise di rivolgergli per sempre la schiena al mare. In mezzo ai nuovi amici dove lei stava, sempre al centro dell’attenzione per la sua bellezza, lui non poteva attendere ancora che un muto, timido, e mai conosciuto da vicino, amante, si avvicinasse cercando l’amore di lei. Fu così che Eduart cominciò ad interpretare il significato dei suoi sogni fatti in cui appariva sempre lei. Una volta la sognò mentre lei stava sul balcone e gli gettava dei fiori rossi. Rideva nel sogno e gettava qua e là le mistiche rose, che a manciate cadevano su di lui. Allora ci fu la levitazione. Eduart sognò di innalzarsi.
Una forza che partiva dalle piante dei piedi, una forza elicoidale lo innalzava lentamente, a poco a poco, sospingendo sempre in sù. Così superò il primo piano, ritto con la faccia rivolta alla facciata del palazzo di lei. Superò il secondo piano, il terzo, il quarto, finché si fermò in linea retta con il balcone osannato nei suoi deliri d’amore immaginario. Era un balcone dai mattoni bianchi.
Oblungo e con il davanzale in cemento nero dai bordi sporgenti. Era lì che Eugenia posando i suoi candidi gomiti e avambracci contemplava le estremità delle colline spesso tinte dal rossore dei tramonti accesi. Rimase così fermo, sospeso in aria e cercava ansioso i tratti di lei. Era mezzogiorno in punto. Mentre lui si innalzava a poco a poco Eugenia si era già rifugiata dentro, forse per far capire, basta. Eduart notava nitidamente solo il vuoto balcone. I muri erano bianchi. Il telaio di legno della porta finestra era tinto di un blu celeste. La sedia di legno era di un colore bianco.
Le maioliche brillavano come lavate con la candeggina. Le antenne della tv erano ad un palmo dai suoi occhi, il cielo era di un azzurro rigido, quasi metafisico come nei quadri migliori di De Chirico. Il blu era stinto, il silenzio del mezzodì pareva quello di un pianeta disabitato, in cui la luce è come quella dell’eclissi parziale. Tutto nel sogno aveva i tratti, i colori e l’atmosfera surreale dei quadri di Dalì. Quando si destò capì che la sua patita e segreta storia d’amore era una partita persa fin dal principio.
Così, ancora sotto il forte dominio spirituale di lei, volente o nolente trascinò per lunghi 27 mesi la sua vita da invaghito senza altra scelta. Mesi più tardi, quando con il malloppo delle poesie in borsa si preparò per andare all’estero, non resistete alla tentazione di dire addio anche ai luoghi in cui aveva visto lei. Eugenia era partita ai primi di marzo del 91, di sorpresa, di notte con il suo cugino ed altri amici. La stessa notte, mentre lei montava sulla nave in partenza, Eduart sognava di giocare a carte con lei e le carte premuniscono l’inganno.
Si era alzato quella mattina e solo ore più tardi comprese che non c’era più nulla da fare. L’incubo di vivere sotto l’ombra di un’altra vita era finito. Lei era fuggita una volta per sempre. Sulla strada dai pioppi infiniti era caduta l’ombra della morte ed un grigiore squallido velava il paesaggio. La natura sembrava rattristata talmente che si era scolorita di colpo e gli spari dei soldati in aria che provenivano dal porto, a colpi secchi non facevano altro che ferire il tempio dell’anima. Tutto fuggiva: aria sana, colori, volatili, gente, angeli nell’aria, atmosfere vissute, ricordi. I cuori si spaccavano, gli alberi si dimezzavano, gli affetti della gente si dilaniavano dagli adii improvvisi, tutto si velava di lutto e morte.
Dopo la fuga collettiva non rimase altro che l’anima agonizzante di tutti i cittadini di Durazzo ed in mezzo a loro Eduart, che solitario cercava di consolare se stesso. Ma che conforto! L’unica persona capace di riempire la sua nostalgia era la mamma di lei, una scarna dalla pelle biancastra; donna alla moda, assai misteriosa e sempre vestita di nero. Un’attrice dai capelli neri tinti e gli eterni occhiali scuri che per togliere la nostalgia della sua figlia fuggita al estero, non faceva altro che sorridere a lui. Si incrociavano di passaggio, ed Eduart non faceva altro che guardarla con l’avidità del amante mancato, e lei rispondeva con lo stesso sorriso di comprensione.
Dopo l’incrociarsi in cammino, lui si metteva sempre a piangere amaramente come Dante aveva fatto settecento anni fa al passaggio della sua Bice. Erano i primi di giugno del 1991. I primi di giugno del 1291, morì Bice, la candida Bice che offuscava la mente di Dante. Questi parlava poco, non era mai uomo di lunghi discorsi e mollemente gettava il passo sulle morbide sabbie lì, dove le onde trasparenti, salate e cristalline, in veli iridescenti per via del sole in tramonto destavano nella sua anima placidi echi di nostalgia. Teneva ancora Virgiglio stretto in braccio.
L’odore dello iodio proveniente dalle profondità del mare guariva non solo la pelle e i polmoni, ma era una prodigiosa medicina anche per le ferite dell’anima. Era così che ogni volta alleggeriva la propria memoria facendo scomparire le sequenze più dolorose e colme di luce nera e disperata dalla sua mente. All’improvviso un angelo si posò accanto al suo lato destro. Ebbe un trepido, un sussulto, la pelle gli si fece d’oca e ricordò l’epoca in cui si trovava da solo, da solo nella sua cameretta. Quella delle lagrime cocenti. Disegnava a carboncino un angelo sopra certe tavolette. Lei era morta da poco. All’improvviso volse gli occhi e vide lontano da sé, uomini ai quali conveniva fare onore.
Tenevano dei rotoli in cui c’era scritto: “Ego dominus tuus! E più in là su un altro rottolo luminoso: Vide cor tuum!”Tra altre parole incomprensibile gli rimase in mente una frase: “Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra!” E prima di scomparire nella nebulosa fantasmagoria rossastra della camera udì tante voci che
si scompigliavano e si riunivano in una armonia divina: Osanna in excelsis! Gli si tornavano in mente le scene della materializzazione delle presenze, e con il cervello sconvolto dalle febbri del dramma di allora si mise a riflettere sull’avvenimento. Era iniziato da allora la passione poetica, aveva appreso la scienza della metrica, dell’armonia del verso, della eleganza espressiva, della sapienza greca ed araba. Era riuscito a divenire un maestro degno di
rispetto.
Era tutta cosa passata. Se si sentiva protetto era perché lo spirito di Bice scendeva spesso su di lui, lo seguiva, lo proteggeva. La sognava spesso. La sognava mentre le allungava la mano bianca e luminosa, gli sorrideva in maniera angelica e gli diceva: “Tu sarai da me condotto alla salute eterna!” e scompariva nelle nebbie
mattutine. Ora la immortalava nei canti della Commedia. Era il 1304. Prima di stabilirsi a Ravenna aveva fatto lunghe soste, ospite illustre, nelle corti italiche. Poi si era stabilito a Ravenna dove sarebbe morto di febbri malariche in età relativamente giovane.
Eduart stava ancora pensando a queste cose su Dante quando, respirando l’aria di chiesa dell’edificio, vide la lapide in cui c’era scritto: In memoria dei 710 anni della morte di Bice Portinari, la donna che ispirò il poeta divino della cristianità.
Allora Eduart ricordò il sogno che sua madre aveva fatto nei primi giorni del suo arrivo in via B. Pinti a Firenze. Si era nell’autunno del 1997. Eduart studiava alla Florentia Universitas . Quella sera stava guardando la tv a voce bassa per non disturbare la mamma che dormiva, quando lei si destò di soprassalto con un urlo di stupore:
“Ahi, madre mia!” disse, “che cosa ho visto!”
Lui si era alzato, aveva acceso la luce, le si era seduto vicino, l’aveva presa per la mano e le aveva detto: Dimmi che hai sognato!” Lei sorridente, con il volto illuminato gli aveva detto: “E’ stato come un bagliore improvviso. Un tocco veloce!” “Dimmi che hai visto nel sogno!” Allora gli confessò. “Mi sembrava di trovarmi nella chiesetta che si trova in fondo alla Via di Mezzo. Era tramonto. Io ero fuori e per un attimo ho visto un bagliore all’entrata della chiesa, sopra il telaio della porta ho visto illuminare le quattro lettere fatte d’oro massiccio del tuo nome ARTI. E’ stato un attimo!” disse lei coinvolta emotivamente, ma era così bello Eduart, così bello, così bello il tramonto!” Rimase archiviato come sogno premonitore.
Eduart stava ancora seduto nella chiesa dell’intramontabile Dante. Dopo un’ora dalla sua entrata nella chiesetta, uscì fuori. Il buio era fresco. Nella stradina in cui secoli prima in mezzo al tumulto della gente, Dante aveva scorto Bice di nascosto, ora non c’era nessun pallido fantasma. L’anno poteva essere il 50 dopo Cristo, il 2000 dopo Cristo, il 2600 dopo Cristo, non importava, nulla cambiava per le strade di quelle solide pietre della città rinascimentale predestinata forse a resistere intatta fino all’ora della resa dei conti. Sembrava che Dio avesse fatto scendere luce su di essa è Dio l’avrebbe conservata.
Uscì fuori gravido di pensieri. Era un poeta. Un artista. Anche lui aveva avuto una storia di formazione, aristotelica come quella di Alighieri. Anche lui sentiva sussurrare dentro il cuore la tenera voce che secoli addietro sussurrava anche a Dante: “Io sono nata per il tuo sogno. I nostri destini sono due piccoli drammi personali che ti
hanno introdotto all’amore vero. All’amore di Dio. Prima tu dormivi, ma ora che ti sei svegliato vedi la luce divina!”
Andava avanti con il passo triste del solitario. Era tempo di Natale. Chi sa come si faceva ai tempi di Dante la festa della cristianità. Camminava gravido, lontano in spazio ed in tempo, evocando con dei bagliori disordinati quello che gli era capitato in un’altra epoca. Era guarito da anni, a parte qualche sogno che lo lasciava esterrefatto per un paio di minuti, dopo il risveglio non sentiva più nulla. Come era successo due anni fa: “Insomma così
tanto mi hai amato accidenti a te?!” Eduart stava lì. C’erano tutt’e due le sorelle. “Si, ho amato. Ma non ho saputo amare!” aveva risposto lui. “Non c’è ragione nell’amore, come non c’è ragione nell’odio!” aveva detto Vilma e aveva sorriso con tanta freschezza da indurlo a sentirsi al suo agio.” Ma insomma!” Sembravano dire le
ragazze” Ti ringraziamo, ma ora basta!”
Erano a poca distanza da Eduart e erano vestite come anni prima. Quello era successo mesi addietro. Adesso invece mentre girava attorno alla fantasiosa casa di Dante, si girò e vide il busto in bronzo di Dante. Il naso tanto famoso, la cuffietta che si usava ai quei tempi e si ricordò di due versi suoi: “Che luce della sua umiltate / posò li cieli con tanta virtude.”
Andò dritto e badò di non lasciare posto al ricordo più del dovuto, perché rischiava di vivere sempre nel passato e di perdersi nella cenere della vita bruciata ardentemente. La lingua di Dante nonostante sia difficile da intendere per gli italiani d’oggi, era fluida ed armoniosa. “Mai dimorò un grande spirito latino tra gli uomini delle lettere!” sentenziò Eduart in stile arcaico e si ricordò del racconto di Boccaccio sulla vita di Dante.
Alighieri morì a Ravenna il 13 settembre del 1321. Alla sua morte si resero conto che alla Commedia mancavano tredici interi canti. Non lasciarono cantuccio della casa in cui Dante aveva vissuto senza controllare, né carte senza frugare ma non trovarono i tredici canti.
Verso l’inizio di Aprile, forse nel periodo pasquale, otto mesi più tardi all’ora mattutina, prima che spuntasse l’alba, Pier Giardino, un suo fedele discepolo, che aveva seguito i corsi di Dante per lunghi anni e che dormiva nella propria casa a Ravenna vide in sogno il maestro con addosso candide vesti azzurre, il volto sorridente, ed aveva nel viso una insolita luce. “Come stai?” aveva chiesto a lui Dante. “L’avete compiuto il vostro dovere terreno?”
“Io l’ho compiuto il mio!” rispose. Poi aggiunse: “Anche io sto bene, ma non godo totalmente di questa vita.” Il discepolo rimasto sbalordito dalla visione onirica non aveva saputo che dire. Poi Dante lo prese per mano, lo condusse per le strade di Ravenna e lo portò nella casa in cui dimorava otto mesi prima quando era ancora in vita. Salì nella camera in cui era morto, mostrò la stuoia appesa su una parete e disse: “E’ qui quello che voi a lungo avete cercato!” poi scomparve.
Quando Pier Giardino si destò nel buio, corse alla casa del figliolo di Dante, Iacopo e gli raccontò il sogno. Lì insieme, giunta l’alba andarono chiamarono il proprietario che li condusse alla ex camera del poeta. “Ecco! disse il discepolo, dovrebbero essere là!” Videro la stuoia stesa verticalmente al muro che da anni non era stata mossa e della quale nessuno si era accorto, la alzarono e spuntò fuori una piccola finestrella. La aprirono e sorpresi, nel piccolo spazio mal ridotto dalla umidità e dalla muffa, prossimi alla corruzione trovarono in manoscritto i tredici canti mancanti della “Commedia” e altre carte di cui non avevano alcuna conoscenza.
“Incredibile” aveva mormorato Eduart al ricordo di quello che aveva letto tempo prima e si era avviato verso la piazza Signoria, dove in un’altra epoca avevano arso vivo Savonarola, l’ecclesiastico ribelle.
Il cielo era seminato di stelle. L’aria era assai umida e le statue di piazza Signoria parevano macchioline bianche nell’oscurità delle otto, pensò, come Dante lungo il mare, evocava queste strade, anche io lungo queste strade evoco il mare di quell’epoca, quando mi invaghii di quella fanciulla dai neri occhi a mandorla! L’amore non è altro che la storia dall’eterno ritorno. Pensando così oltrepassò la piazza e si avviò verso il Ponte Vecchio. Erano i primi del 2000, ma questa storia è sempre accaduta, accade ancora e accadrà di nuovo fino alla fine prestabilita nel Sacro Libro.