Milioni d’italiani ricordano l’emozione con la quale, la sera dell’8 settembre 1943, ascoltarono il comunicato di Badoglio che annunciava l’armistizio. Ma più che in altri, quelle settantacinque parole sono rimaste impresse in coloro che quel giorno di fine estate si trovavano sotto le armi, in Balcania.
A una prima esplosione di gioia, in cui si disperdeva il pallore dei militi, sulle cui giubbe già da un mese le stellette avevano sostituito i fasci littori, seguì un silenzio preoccupato. Per gente lontana da casa, a contatto con reparti tedeschi in pieno assetto di guerra, il comunicato di Badoglio non era rassicurante. In esso si ordinava di cessare «ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane… in ogni luogo» e di reagire, però, «ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
Si capiva che quest’ultima disposizione riguardava i tedeschi, ma c’erano tuttavia i partigiani, coi quali non si sapeva come regolarsi. Di punto in bianco la situazione si rovesciava, le prospettive cambiavano. E poi, che cosa si doveva considerare precisamente come attacco? Bisognava aspettare un’azione di fuoco o si poteva prevenirla stroncandone la preparazione? Tutto sommato, i reggimenti di stanza fra Lubiana ed Atene avrebbero preferito che Badoglio ordinasse un vero e proprio rovesciamento di fronte. Si sperò per qualche giorno che gli ordini dei comandi d’armata e di corpo d’armata venissero a chiarire le cose. Ma i radiogrammi che seguirono l’annuncio dell’armistizio erano più febbrili che precisi. In essi si parlava di restare ai propri posti qualunque cosa accadesse, di non fraternizzare con nessuno, di non molestare i tedeschi, di non aiutare gli alleati, di non accostarsi ai partigiani (ch’erano ancora chiamati «ribelli»), di mantenere una disciplina esemplare, di stare tranquilli. Bisognava insomma, dopo trentasette mesi di guerra, assumere un atteggiamento quasi turistico.
Nel settembre del 1943, l’isola di Cefalonia (la più grande delle Ionie) era presidiata dal grosso della divisione «Acqui», alcuni reparti della quale erano dislocati a Santa Maura e Corfù. Compresi alcuni reparti di mitraglieri di corpo d’armata, una flottiglia MAS e un’altra di dragamine, il totale delle nostre truppe era di undicimila soldati cinquecentoventicinque ufficiali. La divisione era comandata dal generale Antonio Gandin, la fanteria divisionale dal generale Luigi Edoardo Gherzi, il 33° reggimento artiglieria dal colonnello Mario Romagnoli. Ai primi d’agosto, alcuni reparti tedeschi (il 996° reggimento granatieri, comandato dal tenente colonnello Hans Barge, e un gruppo di artiglieria agli ordini del tenente Franz Fauth) erano sbarcati nell’isola per rafforzare il nostro presidio.

L’opinione
Gian Carlo Fusco, in questo Guerra d’Albania, (Sellerio, 2006), descrive, in maniera minuziosa e toccante, un corposo stralcio della guerra d’Albania e di Grecia. Una sorta di saggio/reportage, in memoria della Divisione Acqui e dedicato agli undicimila di Cefalonia trucidati dai tedeschi nel settembre del 1943: l’evento è tristemente noto come l’eccidio di Cefalonia. Una delle tante Divisioni formata da un nutrito gruppo di militari abbandonati da tutti, tranne che dalla propria onorabilità, totalmente impreparati e superbi al contempo. Fusco narra di un conflitto poco attenzionato dai libri e dagli storici, che meriterebbe maggiori approfondimenti. Sin dalle prime pagine, il lettore si sente catapultato al fronte con quei militari, dei quali si esalta magistralmente l’umanità, ferita e impaurita, tanto quanto fiera. Fusco parla di eroismo e tragicità, in un racconto dall’ambientazione evocativa, tanto da far sembrare le impervie cime dei monti greco-albanesi, quasi tangibili. La narrazione veste i panni della cronaca; con una scrittura semplice nella sua eleganza, condita da ironia e uno stile asciutto e lineare, si narra di battaglia, di coraggio, di strage umana e di tutta la leggerezza di chi ha mandato al fronte uomini senza un equipaggiamento adeguato, facendo leva sulla necessità e sulla fedeltà ai valori autentici e condannandoli a un disumano supplizio. Morte ha chiamato morte.