Andi iniziava a perdere la pazienza. Stava da quasi cinque minuti dinanzi allo specchio ed era ormai stanco nervoso. Cercava in tutte le maniere possibili, ma inutilmente, di fare il nodo alla bella cravatta che avrebbe respiù elegante la sua camicia bianca. Non avrebbe mai imparato a fare il nodo alla cravatta perché la indossava solo quando vi era costretto. Rassegnato, pensò che quella sera, durante la lunga cena di nozze, sarebbe stata una vera tortura essere vestito con camicia e cravatta. Non sopportava la cravatta. Anche nel suo ufficio di ispettore di polizia, andava sempre vestito piuttosto comodo e al posto delle camicie portava le polo. Possedeva polo di qualsiasi colore, a maniche lunghe e corte. I suoi colleghi spesso lo deridevano e non lo chiamavano poliziotto, ma poliziotto per la sua predilezione verso le polo. Non aveva scampo, si sposava sua cognata Bruna e non poteva andare vestito in modo informale. Ema, sua moglie, vedendolo impegnato a legare e slegare la cravatta, gli si avvicinò ridendo.
«Lascia fare a me. Tu non saresti capace di fare il nodo nemmeno se ci provassi fino a domattina». E cominciò a
fargli il nodo della cravatta. Non stringere forte, per favore!», la pregò Andi. Ema indossava un abito lungo fino alle caviglie. Aveva raccolto in una chioma spettacolare i lunghi capelli e Andi non riuscì a trattenersi. Le si avvicinò, la avvolse tra le sue forti braccia e le parlò all’orecchio. «Sei la donna più bella che abbia mai visto». Così dicendo le strinse dolcemente tra i denti il lobo dell’orecchio e lo trattenne delicatamente. Ema gli afferrò le mani, le strinse con le sue e le portò al petto. Si dondolavano entrambi l’uno tra le braccia dell’altra come ubriachi. Erano davvero ebbri del loro amore. «Ciò vuol dire che non hai guardato abbastanza perché, se tu aprissi di più gli occhi, vedresti donne molto più belle», lo stuzzicò Ema. Gli faceva sempre battute di questo tipo, e aspettava sorridendo la sua risposta.
«Ma io ho occhi solo per te, tesoro mio», rispose subito Andi. Fosse stato per lui, sarebbe rimasto così per ore, dondolandosi dolcemente con Ema stretta al suo petto. «Papà, papà, guarda quant’è bello il vestitino che mi ha comprato la mamma!». La vocina di Jona, la loro figlia di sei anni, li divise . Lei comparve davanti a loro e fece un giro su se stessa. Sembrava una bambolina vestita con un abito di fiori multicolori e innumerevoli pieghe. Andi la prese in braccio e le baciò entrambe le guance. «Il vestitino è molto bello e tu, mia bambolina, sei la più bella bambina del mondo. No, che dico? Una signori- nella!». Jona rise e Andi ammirò le piccole fossette che le si erano formate sulle guance mentre rideva. Quelle due fossette erano le cose più belle che Andi avesse mai visto. E la sua risata, che meraviglia che era! Ad Andi risuonava come musica; la musica più dolce, rilassante e innocente che si potesse sentire. Nel corso della sua carriera purtroppo gli era capitato di sentire e vedere storie di bambini stuprati, maltrattati, violentati, abbandonati, venduti come merce da mercato e la tristezza lo invase. Spesso, soprattutto dopo essere diventato papà, pensava che il suo lavoro, andando avanti, diventava sempre più pesante sia emotivamente che mentalmente. Pensando che a Jona potesse succedere qualcosa di brutto, era assalito da un terrore indescrivibile che gli mozzava il fiato e lo paralizzava. Aveva sempre davanti agli occhi i volti stravolti dei genitori, quando apprendevano la terribile notizia che i propri figli non sarebbero più tornati a casa. In quei momenti aveva sempre desiderato di non essere presente. La sola cosa che poteva fare per quei genitori sfortunati era augurarsi che i responsabili, quei miserabili che avevano martoriato i loro figli, venissero consegnati alla giustizia e puniti severamente. Negli ultimi anni, i casi di scomparsa senza alcuna traccia di bambini si erano moltiplicati. La loro cittadina era piccola e quasi tutti si conoscevano. Tutti avevano saputo della scomparsa, sei mesi prima, di un bambino di dodici anni. Il giorno in cui era scomparso, aveva chiesto il permesso di uscire da scuola perché non si sentiva bene. Era andato al di là del cancello e da allora nessuno aveva più avuto notizie di lui. Era come se l’avesse inghiottito la terra. Dalle indagini non si era scoperto nulla di concreto. I compagni di classe raccontarono che negli ultimi mesi era mancato spesso. Avevano interrogato persone sospette che normalmente bazzicavano intorno ai bambini, ma tutte avevano fornito un alibi per il giorno in cui il bambino era
scomparso. Per alcuni di loro gli alibi erano impossibili da verificare, dal momento che conducevano una vita solitaria e lavoravano alla stessa maniera. Uno di loro lavorava da solo facendo i turni come netturbino con un piccolo camion ed era normale vederlo in tutte le strade della città in qualsiasi ora del giorno o della notte. Non vi era alcun modo per controllare l’ordine di raccolta dei rifiuti e il tempo che perdeva normalmente in queste operazioni. Inoltre, durante l’orario del lavoro, poteva anche andarsene e fare qualcos’altro, nessuno poteva accorgersene. Un altro, raccoglieva frutta e ortaggi in molti villaggi intorno alla città e li distribuiva con un furgone tra i vari negozi e ristoranti della zona.

L’opinione
La pedofilia è l’argomento fulcro di questo I bambini non hanno mai colpe di Ismete Selmanaj Leba, un thriller in cui l’attualità più feroce si mescola alla povertà del potere legislativo d’Albania, che lascia (suo malgrado), spazio alle spietate regole del Kanun, il codice di comportamento albanese di origine medievale. Quella degli abusi sui minori rientra tra le tematiche spesso affrontate dagli scrittori dell’epoca moderna con svariate modalità, rimanendo pur sempre tra le argomentazioni più difficili e delicate da trattare e tra quelle che necessitano di un’ottima cognizione di causa.
La Selmanaj affronta la questione mettendo a nudo un mondo albanese crudo, dove la giustizia è indebolita dal marciume di una società che vede i bambini costantemente a rischio e probabili vittime di pedofili e di mercanti di organi. Andi è il capo della polizia e dopo il rinvenimento del cadavere di un uomo sul quale grava il sospetto di pedofilia, deve sciogliere un inquietante enigma: può essere che quella persona sia legata alla scomparsa di un bimbo avvenuta qualche tempo prima? Partendo da quanto accaduto, si apre un’indagine e da questa emergono fatti risalenti a diversi anni prima, che scuotono le coscienze.
Se per l’uomo albanese ferito nell’onore è un dovere inalienabile togliere la vita a chi ha ucciso un proprio congiunto, è altrettanto doverosamente irrinunciabile riservare un atteggiamento di rispetto nei riguardi della famiglia antagonista: l’atto di giustizia è riconosciuto tale anche da chi subisce la morte, purché l’esecutore agisca sempre e incondizionatamente nel rispetto delle regole fissate dal Kanun. L’introduzione al testo porta la firma del prof. Matteo Mandalà ed è atta a fornire gli strumenti necessari per comprendere i principali elementi caratterizzanti il Kanun.
L’autrice fa un viaggio nel mondo aberrante della pedofilia, proteggendo il lettore dagli aspetti più turpi della vicenda, fotografando un profilo della giustizia albanese coscientemente lacunoso e focalizzando la sua attenzione sull’uso del Kanun, che in alcune zone dell’Albania ha ripreso vigore nella sua parte più malata, coinvolgendo donne e bambini. È un libro coraggioso questo I bambini non hanno mai colpe, la cui lettura non lascia l’animo quieto, nonostante l’autrice riesca a contenere adeguatamente i lati più spinosi della tematica affrontata.
La trama è sviluppata bene e di conseguenza la lettura è avvincente. Rimane discutibile la penalizzante scelta della scrittrice di pubblicare il manoscritto senza una revisione da parte della casa editrice: un’accurata e regolare verifica, avrebbe potuto valorizzare ulteriormente la pubblicazione già di per sé interessante.