Sapevo che migliaia e migliaia di persone della mia gente avrebbero voluto ripararsi in quella piccola capanna. Solo per allontanarsi dagli sguardi di chi li teneva d’occhio, lontano da quelli che li uccidevano e li condannavano a fare la fame. Mio Dio, ormai loro stavano camminando accanto alla morte in quei campi che avevano costruito apposta per noi, per il nostro sangue. Cosa ne sapevano quegli sventurati di quanto la paura mi avesse indebolito e trasfigurato, sebbene non mi trovassi tra le mani del diavolo, sebbene non fossi nella loro situazione?
Per fortuna, Sara non si era fatta travolgere da questi pensieri pessimistici. Forse l’abbandono di quella montagna di notizie tristi che ascoltavamo tra le vie di Belgrado e la calma in quel vecchio paesino avevano fatto sì che si convincesse che un giorno saremmo usciti liberi da quella capanna in quell’ultimo villaggio del Regno, dove finivano anche i binari della ferrovia e da dove si vedevano verso sud le montagne ricoperte di neve. Lei stava dando coraggio anche a me, mi accarezzava la schiena e mi confortava dicendomi che ci sarebbe stato un buon esito per il nostro destino, anche se le parole funeste sulla sorte miserabile della nostra comunità attraversavano persino quel cortile circondato da mura, nonostante ci trovassimo nel centro della cittadina. Bajram, l’uomo che ci ospitava, raramente entrava nel nostro rifugio sebbene la capanna fosse la sua. Quell’uomo, che non poteva avere più di dieci anni rispetto a me, appariva molto più vecchio d’aspetto, tanto che mi sono fatto l’idea che tutti gli uomini di questo posto all’estremità del nostro Regno sembrassero molto più anziani di quanto non lo fossero in realtà. Lui ci ospitò dal giorno in cui io e Sara facemmo tutto quel viaggio faticoso per raggiungere quel posto dove si raccontava fossero state nascoste tante altre famiglie ebree. Erano trascorsi pochi giorni quando a Sara e a me venne la curiosità di sapere come mai Bajram non passava mai dal nostro cortile, verso la capanna che si trovava dietro casa sua, e che un tempo aveva sfruttato come abitazione suo zio che non aveva figli.
L’opinione
Elad e Sara, si chiamano così i protagonisti del romanzo Fuga da Belgrado di Ardian Haxhaj, pubblicato recentemente da Besa Muci Editore, nella traduzione di Iris Hajdari. I due giovani ebrei sono felicemente sposati, quando sopraggiunge la Seconda Guerra Mondiale e con essa le leggi razziali, che li costringono ad abbandonare la Serbia per non soccombere alle crudeltà dettate dai nazisti.
Si rifugiano, così, da Bajram e la sua famiglia, in un villaggio di albanesi musulmani; si offre alla coppia ospitalità in nome della besa e seguendo le regole del Kanun, il codice consuetudinario albanese, secondo il quale l’ospite è sacro e intoccabile. Già messi a dura prova dalle circostanze, a un certo punto Elad e Sara sono costretti a separarsi, a causa dell’arrivo dei tedeschi.
La giovane rimane da Bajram, mentre suo marito si trasferisce in un altro posto, ancora più nascosto e apparentemente più sicuro. Qui non rimane solo a lungo, trovando consolazione nella conturbante Habibe. I due si amano fino a quando la guerra non finisce: a quel punto, Elad si ricongiunge con Sara, per riprendere la vita di sempre.
Ardian Haxhaj è uno scrittore kosovaro, oltre che documentarista e sceneggiatore. La sua scrittura viene definita lineare, profondamente descrittiva e alla storia che anima questo Fuga da Belgrado ha riservato un finale inatteso, stupefacente, con l’obiettivo di offrire spunti di riflessione su realtà ancora sconosciute e sui criteri che hanno regolamentato la società montana albanese, forse, in larga parte enfatizzati.
Il racconto non termina con la riunificazione della coppia, bensì con un viaggio di ritorno, che si realizza dopo vent’anni. Un lunghissimo periodo, durante il quale la coppia non ha saputo quasi nulla della gente che li ha ospitati e dopo tanto tempo decidono di rivederli, per riconoscenza, confrontandosi però, con una realtà completamente diversa da quella sperata.
Lo scrittore trascina il lettore indietro nel tempo, in un’epoca nota a tutti noi per le brutture che l’hanno caratterizzata, facendo emergere, al contempo, lo spirito albanese, fatto di accoglienza e rispetto. La fede giurata, la parola data (fjala e dhanum), la protezione promessa a un ospite o a un amico, la sicurezza e il giuramento, costituiscono i capisaldi del testo.
La besa da rispettare anche con il nemico che ha ucciso. Non si tratta solo della parola data, bensì della necessità di onorare tale promessa a ogni costo e questo non riguarda solo i rapporti tra i familiari, ma anche quelli tra i membri della comunità. Essa è la dimostrazione morale dell’uomo che tiene fede agli impegni, attribuendole il valore di un comportamento inviolabile.
In Fuga da Belgrado l’onorabilità della parola data permette a due persone di evitare la deportazione e la morte certa, raccontando due mondi diversi che si abbracciano, non conoscendosi e in qualche modo, lo faranno violandosi. Uomini e donne differenti, che diventano fratelli in un’epoca sanguinaria, quando senza dispensare odio, feriscono e uccidono, privi di alcuna consapevolezza.