Agosto 1997
Quella domenica era una caldissima giornata di sole. Come macchie bianche su tela azzurra, nel cielo si vedevano solamente tre piccole nuvole. Milano era avvolta dallo smog e dall’umidità. Come il vapore dell’acqua di una pentola sui fornelli, dall’asfalto saliva aria rovente. Ovunque si sentiva puzza di gas di scarico e di gomma bruciata. Si aveva l’impressione di trovarsi in un’autofficina. Il sudore pareva colla e appiccicava la maglietta contro la pelle. A me, però, non importava del tempo. Ero elettrizzato. L’indomani avrei cominciato un nuovo lavoro. Un vero lavoro. Basta con le vendite porta a porta! Basta chiedere di comprare! Basta bussare alle porte della gente e rompere le scatole a tutte le ore della giornata! Ora sarebbe stato diverso. Avrei avuto anche un contratto. Magari avrei guadagnato la stima di Francesca e, chissà, forse mi avrebbe perdonato e saremmo tornati di nuovo insieme. Rientrai dalla passeggiata mattutina con Rochi, attraversai la piccola hall dell’hotel, l’alloggio privato, e aprii la porta smerigliata che si affacciava sul giardino. Staccai il guinzaglio dal collo del cane e gli diedi due pacche sulla schiena. «A più tardi, bello.» Lui scese i tre gradini che portavano al giardino e si sdraiò all’ombra. Era sfinito. D’altronde, eravamo andati a passeggiare fino al parco di Porta Venezia, che non si trovava dietro l’angolo. Salutai con la mano nella sua direzione e chiusi la porta. Riattraversai la cucina, il soggiorno e mi affacciai nella hall. Ovunque c’erano piante, fiori e meravigliosi bouquet. Amelia scendeva le scale a chiocciola e spiegava a una coppia di cinquantenni che le camere venivano pulite tutti i giorni e, se gli asciugamani o le lenzuola fossero stati sporchi, anche quelli sarebbero stati cambiati. Si sistemò dietro il banco di ricevimento, tra due piante, e chiese i documenti dei clienti. Per il pagamento della camera, disse, potevano saldare anche al check-out. Dietro di loro scendeva una ragazza. L’avevo già vista una volta di sfuggita. Amelia mi aveva detto che era una mia connazionale e da un mese dormiva all’hotel Ricordi. La guardai attraverso il grande specchio appeso sulla parete di fronte alla scala. Indossava un vestito azzurro senza maniche che le arrivava a metà coscia. Aveva all’incirca vent’anni, i capelli erano color carbone e i ricci a spirale. Forse era un po’ più bassa di me, magra come un chiodo, gambe dritte come manici di vanghe e pancia piatta come una piadina. Su una guancia aveva una cicatrice, grande quanto il mignolo. Stando alle parole di Amelia, la ragazza non aveva una vita facile. Era una che usciva alla sera tardi e tornava la mattina presto. In fondo alle scale, la ventenne girò la testa verso di me. Rimasi a bocca semiaperta come un rimbambito. Dallo stesso lato della cicatrice, l’occhio guardava in una direzione diversa rispetto all’altro. Era strabica. Disse buongiorno, diede la chiave della stanza ad Amelia e uscì. Io la seguii con lo sguardo.
L’opinione
Non più clandestino è il terzo libro che Eltjon Bida dedica alle sue vicende di immigrato, a emblema della storia di tanti. Recentemente pubblicato da PubMe, segue C’era una volta un clandestino e Che fine ha fatto quel clandestino?, entrambi editi dalla casa editrice pugliese. Si potrebbero considerare i componenti di una trilogia, in quanto il lettore può ben individuare il fil rouge che li accomuna, profilato dalle vicende oggettivamente vissute e dal tripudio di emozioni che emerge dalla narrazione, carica di sentimento e spogliata di qualsiasi cliché. L’autore consegna, tramite un’esposizione schietta, vivide sensazioni istintive, al contempo irrazionali e acritiche.
La fatica di chi è costretto a lasciare la propria terra, non per pura coercizione, ma per una scelta dettata dalla consapevolezza di meritare una vita migliore; la ricerca del proprio posto in una nuova collettività, che accoglie lasciando la porta aperta al dubbio e tutte le difficoltà di chi deve affrontare la condizione di clandestino, fino a farcela, grazie alla forza più intima, che agguanta la dignità umana donata dal lavoro, dall’amore e da una posizione regolare nella società.
Bida non si limita a raccontare i fatti primari della sua esperienza di vita; riesce anche a offrire spunti di riflessione su tematiche molto attuali, che si sviluppano intorno al fenomeno migratorio, ai suoi risvolti e alla conseguenze che riversa sul singolo e sull’intera sfera sociale. La maniera analitica con cui l’autore dà in pasto alla storia delicate argomentazioni, passa da un lucido resoconto della realtà narrata, privo di compromessi, che a volte si pone in maniera brutale e prettamente non conciliante.
Ognuno dei tre libri è autoconclusivo, proprio come questo Non più clandestino: una lettura consigliata a tutti e in particolare a chi sta affrontando un distacco affettivo e sente di aver perso ogni forma di speranza.