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Home Memoria

Attenzione agli scherzi della memoria

Intervento al Festival delle migrazioni di Acquaformosa 2021

Griselda Doka Griselda Doka
31 Gennaio 2023
Migrazione Albanese

Griselda Doka è nata a Tërpan, Berat (Albania) nel 1984. È Dottore di Ricerca in Studi letterari, linguistici, filologici e traduttologici presso l’Università degli Studi della Calabria.

Attiva come operatrice culturale, organizza e partecipa a eventi sul territorio ed è membro di varie giurie letterarie. Oltre alla sua lingua madre, scrive anche in italiano.

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Ha pubblicato Soglie con Aletti Editore nel 2015, la silloge bilingue Solo brevi domande esiliate (Fara Editore 2015), e Dimentica chi sono (Fara Editore 2018). Ha vinto vari premi letterari, tra cui il Premio della Critica al Poetry Awards a Napoli 2016, Scrivere Altrove, Cuneo 2018, Premio Internazionale L. S. Senghor 2018, Faraexclesior 2018. Sue poesie sono state tradotte in albanese e in russo. Vive e lavora in Calabria come docente di lingue e mediatrice interculturale.

Nel 2021 è stata invitata a partecipare al Festival delle migrazioni di Acquaformosa e ha pensato di mettere nero su bianco il suo interessante intervento. Buona lettura

Quando ho ricevuto l’invito di partecipare al Festival delle migrazioni di Acquaformosa, dopo il primo pensiero di gratitudine e sorpresa, mi sono venuti i dubbi sul “taglio” da dare al mio intervento. Parlare di migrazione” Sì, ma di che genere? Migrazioni, meglio, ma quali, in che gerarchia? Prima o seconda generazione? In che modo posso preferirne l’una all’altra, come posso suddividere il processo dinamico e il carico simbolico di ognuna delle generazioni o gruppo etnico? Per non parlare poi che in fondo l’emigrazione stessa è una storia personale, intima e unica nella sua evoluzione; le dinamiche socioculturali ne fanno solo da cornice.

Allora, all’interno di questa cornice ho visto me stessa e la mia famiglia, qui. Preferisco leggere un brano di un tema di mia figlia, classico esempio di Seconda Generazione, in questo caso tra quelli perfettamente integrati e a proprio agio; eppure lei vede me e il mio lavoro cosi:

–Attraverso queste storie di allontanamenti e di addii ho potuto osservare, come uno spettatore al cinema, il film che era la vita di mia madre. Un brusio di voci concitate e calde e rassicuranti eppure così lontane fisicamente. Quelle chiamate che io spiavo da lontano rischiaravano sempre il viso di mia madre attaccato al telefono come se fosse il suo unico aggrappo alla vita. Ho capito però che, anche se il suo trasferimento era stato una decisione spontanea, è stato comunque sofferto. Ho conosciuto giovani ragazzi e ragazze come me che hanno già cambiato paesi e case, strutture e scuole, masticano lingue diverse e l’unica sete che hanno è quella di una casa vera dove poter dire “io sto qui è questa è casa mia”. È attraverso queste storie che capisco che l’allontanamento dalle proprie radici e dalla propria casa sia già una sconfitta in partenza. Questi ragazzi non hanno nemmeno il lusso della nostalgia, quella dei grandi romanzi e dei grandi poeti dell’esilio che rende tutto più bello e dolce. Non hanno nemmeno avuto tempo di costruire ricordi, amicizie e avere “il proprio luogo felice”. Allora non rimane che invidiare qualcosa che non si può più avere. Invidiare le storie di genitori e nonni, di altri allontanamenti di passato e sradicamenti, che però avevano avuto la possibilità di costruire “il luogo felice”.
Penso che questo sia un po’ “avere radici”, avere un legame con le proprie origini, qualche cosa che appartiene ad ogni persona e che viene strappata via….
……
I ricordi e la nostalgia rendono un umano degno di essere chiamato tale e la vita degna di essere chiamata tale, per quanto difficile sia. Ci sono dei luoghi impressi nella mia memoria più recondita, del mio luogo di origine, ma non penso mi mancherà mai davvero se dovessi andarmene. È come se le mie origini non siano degne di sentimenti struggenti. Non sento l’attaccamento che pur invidio tanto.., Mia madre dice che quando morirà vorrà essere sepolta nel suo luogo di origine. È un pensiero molto forte. È molto forte pensare che molte persone vorrebbero giacere per sempre nel loro luogo natìo, il loro punto di partenza. È un sentimento forte e il mio attaccamento è troppo debole per sopportare di pensare una cosa del genere….
… Io, invece, spero di avere il tempo, andando avanti e crescendo, di conoscere e scoprire, di valutare e accogliere, di perdonare ed amare abbastanza da poter un giorno avere la “malattia della nostalgia”.

Sono sicura che molti di questi pensieri intrisi di carica emotiva di una ragazzina di 15 anni, siano simili a tanti altri pensieri di ragazzi nati e cresciuti qui, figli di genitori che per un motivo o per un altro hanno scelto di emigrare e di radicarsi in Italia.

La responsabilità dei primi, oltre a quella di provvedere e contribuire a un futuro migliore, a un certo punto, si scontra con la consapevolezza dei secondi, alle prese con una identità pluri e poi interculturale. Una consapevolezza che appartiene a un contesto completamente diverso rispetto alle prime generazioni, che hanno già maturato l’idea di “una terra natia, propria, d’origine”, un luogo dove ritornare in vacanza, agli affetti, alle occasioni speciali, oppure dove coltivare un sogno o rifugiarsi in vecchiaia.

Altrimenti, resta la terra di arrivo, dove si è già prevenuti sugli ostacoli, sulle difficoltà, sui pregiudizi e sul ricominciare da zero, dove si è abituati al bello e al cattivo tempo. Quante ne conosciamo di persone così? Quanti plurilaureati o professionisti stranieri si sono adoperati per fare qualsiasi lavoro umile o per ricominciare a studiare. La consapevolezza dei loro figli, pero, è di altra natura. Spesso, da subito, si scontrano con due mondi diversi: fuori e dentro casa, e più si cresce e più la famiglia e i parenti lontani di mamma e papà iniziano ad assumere sembianze mitizzate, a volte da stigmatizzare, altre da prendere come esempio, ma quasi mai si ha la consapevolezza reale di quei luoghi e di quel modus vivendi.

Pochi giorni fa è stato celebrato il trentennio dello sbarco della nave Vlora, evento simbolo del grande esodo albanese e come spesso accade, destinato ad essere mitizzato e strumentalizzato. Conosco parecchie persone che fecero quel viaggio e tanti altri che sbarcarono a Brindisi o Bari più o meno in quel periodo. Una marea di gente che veniva da un contesto per molti tratti “fantascientifico”, di un piccolo paese degno della scrittura Orwelliana. Sono sicura, che i figli dei miei zii e di altri miei connazionali che sbarcarono in quel periodo, non sappiano e non possano concepire chi erano gli allora giovani deperiti e capelloni fuggitivi dall’ultimo paese comunista d’Europa.

Erano giovani che avevano vissuto un periodo di grandi cambiamenti e privazioni, dove c’era la reale mancanza di cibo e l’assoluto controllo della vita privata. Basti pensare che nella maggior parte dell’anno si consumava pane al mais e il cibo era razionato: ad esempio, il consumo di carne si limitava a 0,5 kg a persona in occasione di feste comandate (2-3 volte l’anno). Anche i vestiti erano soggetti al razionamento.

Le abitazioni erano umili, rasentando la miseria; una casa tipica aveva all’interno pochi scaffali, un divano artigianale, un semplice tavolo di legno compensato e quattro sedie prodotte dai falegnami della cooperativa. La maggior parte delle famiglie possedeva una radio e solo chi aveva un lavoro “migliore” possedeva una TV che trasmetteva un unico canale. In tutte queste difficoltà, però, prosperavano i mezzi di propaganda. In tutti i villaggi c’era un circolo culturale e una biblioteca con le opere del regime comunista, dove veniva elogiato il sistema come il migliore al mondo e una volta al mese venivano proiettati film di propaganda per l’educazione e la crescita del Nuovo Uomo.

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Lavoravano in cooperativa tutti i membri maggiorenni della famiglia;  da quando si prendevano la licenza media fino alla pensione, nessuno poteva restare disoccupato, altrimenti sarebbero stati condannati. Lavoravano in forma di tirocinio anche gli studenti che finivano le scuole superiori e cercavano di proseguire gli studi universitari, nonché tutti i giovani cittadini che pretendevano un lavoro statale.

I giovani non avevano prospettive, né libertà di scelta su dove poter abitare, perché la legge vietava il trasferimento in città o da un villaggio ad altro. Tutto era stato predestinato, i giovani dovevano lavorare e vivere per sempre nei villaggi, senza possedere di fatto nessuna proprietà, “liberi” di condividere l’ideologia fino alla fine dei loro giorni. Il villaggio e la cooperativa erano anche luoghi di confinamento e di rieducazione per coloro che la sicurezza allontanava dalla città. Tutto era controllato dal “Sigurimi” (il sistema della sicurezza) e dal Partito.

La vita della gioventù intera era relegata all’interno di queste logiche e di questo piccolo paese circondato letteralmente dal filo spinato.
Ecco…questi giovani, esempi vivi dell’esperimento dell’Uomo Nuovo, a un certo punto sfidano il destino e si affacciano sulle coste italiane. Sono certa che ognuno dei presenti qui ora abbia un’immagine ben impressa di quei fatti lì e ora a distanza di 30 anni, dopo un periodo “sufficiente” di inserimento e integrazione, quegli albanesi, nell’immaginario degli italiani medi, erano i poveracci perseguitati dal regime, tutta brava gente che piano piano si è integrata lavorando onestamente…(Sigh).

Ecco, che una semplice nave e un singolo evento bastano per creare un mito. Ma come sono andate realmente le cose? Innanzitutto, bisogna evidenziare che delle singole imbarcazioni cominciarono ad arrivare sulle coste adriatiche, da Brindisi in giù ancor prima della nave Vlora.

Il 7 marzo costituisce la prima data storica. Brindisi diventò un porto “costretto” a ospitare dalle 26 alle 30 mila persone (il numero varia dalle stime) a nottata. Lo stato fu preso assolutamente alla sprovvista. Nessuno sapeva cosa fare. A farsi carico di quella marea umana fu la l’intera popolazione brindisina aprendo case, palestre,
scuole e parrocchie. Tutto questo nel silenzio generale del governo nazionale. Da svariate fonti si legge che le istituzioni locali, come detto, imploravano lo stato di emergenza.

Nel frattempo, la migrazione cominciò a essere politicizzata. I partiti di destra la usarono per fini elettorali, l’Europa spingeva per rafforzare i confini. Il governo di destra incanalò questi sentimenti e vennero applicate una serie di leggi fortemente restrittive, che inquadravano il fenomeno migratorio soltanto da una prospettiva emergenziale, di sicurezza.

Lo stato italiano, intanto, si muoveva anche con la diplomazia albanese. Si dovevano bloccare le partenze a monte. Con queste dinamiche, si arrivò ad agosto, quando ricominciano gli sbarchi. Questa volta, però, il governo era più preparato; quando arrivò nei pressi di Brindisi, la Vlora fu dirottata a Bari. Dal molo, gli albanesi furono letteralmente deportati all’interno dello Stadio delle Vittoria, dove nelle torride giornate di agosto venivano lanciati loro dagli elicotteri il cibo e le poche bottigliette d’acqua.

I miei conoscenti mi hanno confermato che di fatto gli albanesi furono trattati come animali allo zoo. Le scene verificatesi all’interno dello stadio possono essere definite inumane. Il grosso degli albanesi fu rimpatriato in maniera forzata: rimasero solo i pochi che erano in condizioni di chiedere asilo.

Eppure, oggi quello sbarco ha il sapore dell’esempio della straordinaria accoglienza. Questa è la prima generazione dell’emigrazione albanese: uomini e donne tra i 50 e 60 anni, ancora in gran parte sui ponteggi perché non può andare in pensione visto che non c’è un accordo sulle pensioni con l’Italia, i più fortunati cittadini italiani, gli altri…(l’accordo sulle pensioni è stato raggiunto nel 2022, un anno più tardi rispetto all’intervento).

Ovviamente i figli di questa generazione sono spesso ragazzi e ragazze ormai integrati, molti di loro nemmeno parlano la lingua albanese, molti hanno solo avuto una fretta incredibile a identificarsi sempre di più e mimetizzarsi al meglio con il nuovo mondo esplorato dai loro genitori: il loro accento è dialettale, i loro cognomi si pronunciano all’italiana, l’Albania dei genitori sta diventando, soltanto ultimamente, una meta “figa”, dopo la “riscoperta” dell’imprenditoria italiana, del turismo sanitario a basso costo, delle Università dislocate accessibili per tanti ragazzi italiani che “non osano o non vogliono” tentare il test d’ingresso dei corsi di medicina in Italia.

Ed ecco che l’Albania selvaggia dei genitori, assume oggi dopo tanto tempo, un’altra forma, diventa un altro mito, una terra buona, dove ci si può divertire, comprare, curarsi e studiare a basso costo. E poi gli albanesi sono così “accoglienti”….(Altro pregiudizio fossilizzato, anche se con connotazione positiva). In realtà, nell’ultimo decennio l’Albania è diventata una terra di ritorno e di esplorazione.

Numerosi sono gli istituti bilingui con personale italiano, le aziende italiane, e la Cooperazione Italiana allo Sviluppo ha fatto passi da gigante. In fondo, non c’è molto sforzo da fare da parte degli italiani che decidono di stabilirsi lì per brevi o lunghi periodi: si parla già comunemente l’italiano, si è già intrisi culturalmente: ogni famiglia ha un’esperienza diretta con l’Italia.

Gran parte degli ostacoli, dei limiti, dei pregiudizi sono stati spazzolati via, da un processo naturale, seppur difficile… Resta, dunque, incomprensibile il non riconoscimento della cittadinanza italiana ai figli nati e cresciuti in questa terra: le questioni sui famosi “ius soli” o “ius culturale”, mela della discordia del parlamento italiano, non trovano alcun riscontro nella realtà dei fatti.

A mio parere, ciò che ci dovrebbe preoccupare delle seconde generazioni è il loro mondo emotivo, la loro straordinaria ricchezza culturale, il loro continuo rinnegare e accettare mondi nuovi per diventare poi una generazione consapevole “altra”, “diversa”, “meticcia” appunto, ma non nel senso esotico del nome, semplicemente una generazione rappresentante di una nuova cittadinanza, mi auguro capace di interpretare e risolvere meglio di noi i conflitti della società. Ho parlato in modo superficiale della comunità albanese, ma ovviamente è solo un esempio.

Ci sono altre comunità con percorsi migratori più o meno simili e ciò che vediamo oggi ci dovrà porre a considerare le seguenti affermazioni:

-La normativa europea e italiana non è ancora pronta a inglobare e gestire in modo efficiente i processi migratori. (I permessi di soggiorni ancora si suddividono in “Motivi”, aggiungendo e togliendo qualcuno a seconda dei governi in carica).
-Di fatti, i confini geopolitici si spostano continuamente, urgono le migrazioni climatiche e la cosa riguarda tutti in ogni angolo del mondo.
-Le vicende che succedono lontano da noi ci devono riguardare tutti.
-Le comunità sono diverse culturalmente, perciò culturalmente determinate verso l’integrazione o meglio, la convivenza. (Mi piace di più il termine convivenza).
-Avremmo a che fare sempre con “prime generazioni” e non saremmo mai “abbastanza” bravi a gestire l’incontro con l’altro: le difficoltà, lo scontro culturale, i pregiudizi sono fattori che investono sia la gente delle terre di partenza, sia la gente delle terre in arrivo. (es. per i neri noi siamo i bianchi poco affidabili e sfruttatori, per noi loro sono “africani”, ingovernabili e incomprensibili; pregiudizi a gogò).
-Ciò che oggi è terra di partenza, domani può diventare terra di arrivo.

Attenzione, quindi, agli scherzi della memoria, perché, in questa era digitale così veloce, interessa solo ciò che é recente. Pensate, degli albanesi oggi ne stiamo parlando con nostalgia, le notizie sulla Libia non assumono più le prime pagine e non fanno poi così effetto e così anche per la Siria o lo Yemen. Oggi si parla dell’Afghanistan.

All’improvviso ci siamo svegliati e ci siamo trovati davanti a questa popolazione gestita da leggi tribali, come se la vedessimo la prima volta; ma la guerra esiste almeno da 20 anni! Le Donne in Afghanistan ci sono sempre state e anche i talebani hanno le mamme. Purtroppo il momento vale poco tempo, ma sicuramente le facce che incontreremo nelle prossime strutture di accoglienza, oltre a quelle provenienti dalle prigioni libiche, saranno queste provenienti dall’Afghanistan, Pakistan, Yemen, Bangladesh, e ancora, Africa occidentale, Africa centrale, America del Sud e chissà quante altre…
Non è il momento di distrarsi, l’oggi diventa presto domani.

Argomenti: Griselda DokaGli sbarchi degli albanesi
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