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Le tre appartenenze, (albanese, italiana e statunitense) e la loro intrinseca convivenza

Intervista a Ron Kubati

Anna Lattanzi Anna Lattanzi
5 Luglio 2022
Ron Kubati

Ron Kubati

Nasce in quel di Tirana Ron Kubati, classe 1971 ed è con l’ondata migratoria dei primi anni Novanta che abbandona l’Albania per approdare in Italia e precisamente in Puglia. Qui si dedica agli studi e alla scrittura, lavorando come traduttore e collaborando, nel tempo, con le maggiori testate come La Gazzetta del Mezzogiorno e La Repubblica.

Dall’Albania, all’Italia e poi all’America: sono tre le “appartenenze” delle quali parla in questa intervista, durante la quale esprime con sobria obiettività il suo pensiero sugli aspetti letterari, culturali e politico-sociali dell’Albania, con l’occhio di chi, ormai da tanti anni, la osserva da lontano. Buona lettura.

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Che fine ha fatto Ron Kubati?

Vivo in America già da un bel po’ di tempo e ultimamente ho pubblicato scritti di carattere accademico; la mia assenza, come scrittore, in Italia, si palesa relativamente, in quanto sono passati non più di sei anni dalla pubblicazione del mio ultimo romanzo.

A dire il vero, risulta abbastanza difficile essere presente in diversi territori nell’arco dell’anno e quindi la mia assenza fisica ha comportato un apparente silenzio; in realtà, sono sempre attivo nei circuiti internazionali italo-americani, se vogliamo chiamarli così e quindi non ho fatto nessuna fine.

Di cosa ti occupi a Chicago?

A Chicago non vivo più da molti anni, ci ero stato per un secondo dottorato. Ora vivo a New York, dove insegno in un college.

Andiamo indietro nel tempo: tu arrivi in Italia nel 1991, durante il flusso migratorio che tutti noi ricordiamo. Nelle tue pubblicazioni italiane, parli tanto dell’Albania da svariate prospettive. Quando arrivi in Italia, che impatto hai con il nuovo Paese? Arrivi già affezionato alla scrittura?

Sì, arrivo in Italia già affezionato alla scrittura; inizialmente, pubblico in albanese sui vari periodici in Albania e un primo volume di poesie in lingua. Dopo di che, mi immergo totalmente nella vita e nel contesto italiano. A un certo punto, mentre scrivo poesie, mi accorgo che l’italiano assume quasi una valenza predominante, tanto da scrivere i versi alternando l’italiano all’albanese; comprendo, così, che è il caso di fare il salto di qualità e di iniziare a scrivere in italiano.

Questa è stata l’esperienza di Va e non torna, del mio primo romanzo; ritengo sia stato un percorso abbastanza naturale, che ha voluto sottolineare la mia doppia appartenenza all’Albania e all’Italia. Del resto, ho vissuto in Italia per circa diciassette anni.

La tua integrazione letteraria in Italia com’è stata?

Sicuramente, è stata molto sofferta. Siamo in tanti a scrivere e lo eravamo anche all’epoca, ma avere la possibilità di pubblicare è un’altra cosa. Per me, era il primo romanzo, ho provato a chiedere la pubblicazione a varie case editrici, tra cui alcuni grandi editori, ma nessuno si è mostrato quanto meno incuriosito verso il mio scritto.

Pertanto, il libro è finito nelle mani di quell’unica casa editrice interessata alla letteratura balcanica. Anche in questo caso, la realizzazione non è stata immediata; dal momento in cui l’editore ha letto il romanzo, a quando lo ha pubblicato, sono passati circa due anni. Insomma, questa pubblicazione si palesava come un esperimento forte e il bilico “tra lo faccio e non lo faccio” era molto labile.

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Come scrive un docente di letteratura dell’Università di Bologna, in un articolo sui letterati post-coloniali, (non parla di me, naturalmente, in quanto non posso essere definito di quella branca), “arrivare primi non è mai una cosa positiva”. Essere pionieri di qualcosa, non è mai cosa buona. Io ero tra i primi albanesi arrivati in Italia, ero tra i primi a cercare di scrivere qualcosa pubblicando in italiano, calpestando vie non ancora percorse, quando nessuno sapeva cosa si dovesse fare. Anche all’Università di Bari, dove ero iscritto, ero l’unico straniero e nessuno sapeva come doveva comportarsi con me. Anche l’amministrazione non sapeva cosa fare con i documenti. È stata dura.

Quanto ti sei sentito straniero?

All’inizio era impossibile non sentirsi tale, anche solo a causa delle pratiche burocratiche da sbrigare, un percorso molto complicato. L’esigenza successiva è stata quella di negare questa realtà a me stesso, sentendomi necessariamente integrato nella vita quotidiana, perché, infondo, sei circondato da amici e colleghi italiani, da buona affettività e non vuoi essere quello diverso, non vuoi più sentirti così.

Parliamo di una negazione puramente psicologica, perché alla fine, quella dimensione era lì e non si poteva far scomparire nel nulla.
Gradualmente, mi sono talmente immerso nel contesto, tanto da cercare di ridimensionare questo aspetto. La vita di un giovane è talmente intensa, che diventa più un problema dello sguardo degli altri che suo, che vive nell’incoscienza del ventenne, parlando una lingua imperfetta. La stessa incoscienza, che butta il cuore oltre gli ostacoli e va.

L’Albania di cui tu parli nei tuoi libri, la ami o non la ami?

Io parlo di appartenenze: ho vissuto in Albania fino al 1991, poi sono arrivato in Italia, dove ho vissuto per diciassette anni e poi sono approdato in America. Con ciò, posso dire di avere tre appartenenze, alle quali non ho mai inteso attribuire un aggettivo, in quanto diverse tra loro, complesse e con svariate sfumature.

Sono nato in Albania, che mi è appartenuta fino al 1991 e pertanto mi risulta molto difficile parlare di una dittatura estrema e quindi utilizzare aggettivi. È un’esperienza di vita complessa, perché stiamo parlando di un totalitarismo sanguinario, carico di discriminazioni e violenza, di crimini e ritengo difficile esprimersi in merito a quegli anni.

L’Albania, però, è tanto altro: è famiglia, è cugini, è parenti, significa canzoni, letteratura, quindi appartiene a un concetto di ben più ampio respiro. L’importante è distinguere l’esperienza politica dal contesto albanese, che delinea l’immenso profilo del Paese. Rimane molto difficile separare questi aspetti, perché fanno parte della vita di una persona, che non va mai negata. Io combatto l’orrore dell’esperienza politica, ma ho un rapporto molto forte con il contesto albanese.

Dopo quanto tempo sei tornato in Albania?

Non sono mai tornato in Albania, nel senso che non ho mai più vissuto in Albania. Sono tornato in visita, questo è sicuramente più esatto. Brevi e sporadiche visite, la prima dopo tredici anni. Poi dopo due o tre anni e da quando mi sono trasferito in America, le “incursioni” sono diventate un po’ più rare.

Che impatto hai avuto durante la prima visita?

È stato di sorpresa e stupore per i cambiamenti che ho riscontrato: ho lasciato una Tirana di trecentomila abitanti e ne ho ritrovata uno da un milione. Da una parte ho visto quartieri caratterizzati da grande povertà e dall’altra alcuni di grandissima ricchezza ispirati alle metropoli americane ed europee, con palazzi alti ed enormi vetrate.

Due estremi che non erano presenti nell’Albania che conoscevo: una visione della vita, lontana da quella che mi ricordavo. Anche demograficamente c’erano stati cambiamenti molto profondi:  gli abitanti di Tirana e di Durazzo, in maggioranza i giovani di quelle due città che erano la parte più sviluppata del Paese, avevano lasciato l’Albania e l’immigrazione interna albanese, aveva ripopolato la zona, apportando cambiamenti molto forti. Quella è stata una visita in cui ho cercato di capire cosa fosse successo in quei dieci-dodici anni, quindi, caratterizzata da grande stupore.

Cosa ne pensi della situazione letteraria e culturale dell’Albania?

Questo è un aspetto ben più complesso, anche per una mia mancanza. La letteratura albanese è poco pubblicata in altre lingue, anche se si sta cercando di rimediare. Una delle conseguenze della scarsa diffusione è la continua conoscenza di autori già famosi, come Kongoli o Ismail Kadarè, già importanti prima del 1991 e che hanno continuato a esserlo anche dopo: il punto è che la produzione letteraria che si conosce fuori dall’Albania è dominata dai temi del comunismo o dell’immigrazione e il problema nasce dal fatto che io, per esempio, non conosco una letteratura capace di spiegarmi cosa sia accaduto negli anni post comunisti, capace di parlare dei cambiamenti profondi avvenuti in quegli anni, talmente profondi da essere un terreno fertile per i letterati.

Ripeto, può essere che tutto sia per una mia mancanza, ma ritengo che questa parte non sia stata adeguatamente trattata e trasmessa al di fuori dell’Albania. Forse, ciò non è dovuto solo alla produzione letteraria albanese, ma anche al filtro di interesse dell’Europa verso il contesto e sicuramente la dittatura risulta una tematica di grande attrattiva.

A onor del vero, sono state trattati altri argomenti interessanti, come quelle dell’emancipazione femminile, (basti pensare a Elvira Dones e al suo lavoro), ma sono squarci. Mi piacerebbe leggere libri che mi spiegassero i cambiamenti avvenuti in questa Tirana.

Ritengo, allo stesso tempo, che l’editoria italiana, sia ancora fortemente interessata alle tematiche dell’immigrazione e del totalitarismo. Vedi il caso di Lea Ypi, il cui successo, a mio avviso, presenta una grossa lacuna, data dalla mancanza di un punto di vista proveniente dall’interno dell’Albania, perché a scrivere sono sempre gli scrittori della diaspora, che non hanno una grande esperienza della realtà albanese.

Del resto, scrivere in albanese oggi in Albania e raggiungere l’editoria internazionale al di fuori del Paese, risulta alquanto difficoltoso. Questo potrebbe rappresentare uno dei problemi maggiori e potrebbe anche essere un messaggio da inviare agli autori albanesi, che pur trattando di tematiche attuali, non considerano il percorso che poi va affrontato per raggiungere un pubblico più ampio.

Vedo, per esempio, che il Ministero della Cultura albanese si è reso un po’ più attivo, aiutando gli autori albanesi ad approdare in altri Paesi con i fondi per le traduzioni. Si stanno attivando come possono. Il punto è che tutto questo passa solo per canali ufficiali e governativi: dovrebbe passare, anche, per canali culturali e quindi più naturali. Questi sono gli aspetti sui quali bisogna lavorare.

Ti pongo due ultime domande, come si conviene ad Albania letteraria. Stai scrivendo un nuovo libro? In che lingua? Due parole su “dove sta andando l’Albania”, secondo te.

Io scrivo sempre, ma il percorso tra la stesura di un testo e la sua pubblicazione è decisamente accidentato. Fino al giorno della pubblicazione, qualcosa può saltare, quindi è sempre meglio parlare di cose fatte. La questione delle lingue rimane abbastanza spiegabile: io vivo negli Stati Uniti, ma lavoro molto con l’Italia, quindi uso e userei entrambe le lingue.

Come ho detto, ho vissuto poco in Albania, visitando la nazione sporadicamente, pertanto mi risulta difficile fare previsioni. Valutando da esterno, senza parlare della vita di chi vive quotidianamente il Paese, perché non ne ho l’esperienza e con l’occhio di chi vede le cose sistemiche del Paese, il lavoro della infrastrutture, gli aspetti demografici e la grande politica, posso affermare, che secondo me, da questo punto di vista, l’Albania sta cercando di completare il suo percorso di integrazione europea e di evitare tutti i pericoli che provengono oggi da una guerra che in qualche modo insidia anche i Balcani occidentali. Ritengo che l’Albania cerchi di completare il percorso europeo, economicamente e politicamente, facendo ciò che è nelle sue possibilità.

Gli aspetti più complessi rimangono quelli demografici; l’età media si è innalzata, una parte attiva della popolazione vive al di fuori dell’Albania e a quanto pare, le aziende albanesi stanno cercando mano d’opera straniera. Se questo trend si confermasse vincente, l’Albania potrebbe diventare un Paese di immigrazione e non più di emigrazione: niente di nuovo per una nazione che si accinge a far parte dell’Unione Europea, che in questo modo avrebbe le caratteristiche di una nazione europea media.

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