Thanas Medi nasce a Saranda nel 1958, per stabilirsi poi ad Atene, dove vive ancora oggi con la sua famiglia. Si occupa di letteratura e giornalismo. Ha pubblicato: Hija e mallkuar (L’ombra maledetta, 2011); Kohë e djegur (Tempo perduto, 2016); Valsi i një dasme fantazmë (Il valzer di un matrimonio fantasma, 2019), nominato Libro dell’anno dalla Lega degli scrittori albanesi ad Atene e tradotto di recente in francese e romeno; Çmendina e Athinës (2023). Fjala e fundit e Sokrat Bubës (L’ultima parola di Sokrat Buba, 2013) gli è valso il Gran Premio per la Letteratura del Ministero della Cultura albanese come miglior romanzo. In questa intervista si parla del libro d’esordio in Italia e del suo profilo di scrittore. Buona lettura.
Che posto occupa nella sua classifica di autore il romanzo in italiano appena pubblicato, L’ultima parola di Sokrat Buba?
Dei cinque romanzi finora pubblicati, L’ultima parola di Sokrat Buba è al secondo posto, ma in termini di miglior risultato, potrei metterlo al primo. Si tratta, però, di una classifica personale e in quanto tale, può avere preferenze soggettive e altre priorità.
Come nasce questo libro, cosa ha ispirato la sua stesura e quanto studio e preparazione ha richiesto la realizzazione di questa opera?
In effetti, questo romanzo ha richiesto una lunga gestazione; in un certo senso veniva “scritto” anche quando non avevo la penna tra le mani. Si è insinuato nella mia coscienza, insieme a frustrazioni interiori e domande inevitabili, come: “Chi sono io? Quali sono le mie radici?” Chi sono i Valacchi?”. Sono uno scrittore albanese, scrivo in albanese, ho una coscienza albanese, ma d’altra parte, essendo di origine valacca, lo spirito dell’etnia a cui appartengo mi accompagna da sempre.
Sapevo già che questa parte del mio animo, un giorno, avrebbe preteso di vedere la luce, di mettere nero su bianco quello che stava prendendo forma nella mia immaginazione. E così è andata: L’ultima parola di Sokrat Buba ha trovato la sua strada ed è stato pubblicato. Non mi interessava affermarmi come scrittore; il mio obiettivo era quello di dare voce a un’etnia abbandonata, dimenticata, calpestata, non sufficientemente riconosciuta, a forte rischio di estinzione. Tanto è stato scritto sui Valacchi, sono state realizzate ricerche scientifiche e storiche, ma la letteratura ne ha parlato troppo poco.
Quando ho iniziato a scrivere questo romanzo, ho preteso da me stesso la creazione di un’opera artistica e letteraria di spessore. Mi fa piacere che il volume abbia ottenuto il consenso della critica e dei lettori e che gli sia stato assegnato uno dei premi più prestigiosi per la letteratura in Albania. Credo che un autore debba dirsi realizzato, addirittura felice, quando più persone parlano del suo libro. Per rispondere alla sua domanda circa l’impegno, posso affermare che la conoscenza dettagliata dell’etnia mi ha aiutato molto e qui includerei la conoscenza dei costumi, delle tradizioni, del folklore, delle superstizioni, della lingua, della civiltà, della storia o dei geni, come uno dei più fedeli riflessi dell’autenticità di un popolo.
L’ultima parola di Sokrat Buba si è aggiudicato il Premio del Ministero della Cultura dell’Albania come miglior libro del 2013. Che impatto ha avuto questo riconoscimento sul suo percorso di scrittore?
Ho iniziato molto presto a occuparmi di letteratura. Le mie prime poesie sono state pubblicate quando ero ancora al liceo, prima sulla rivista Drita e poi su altre dell’epoca. Durante la dittatura, come spesso succedeva in quel periodo, non è stata accettata la pubblicazione di un volume di racconti e romanzi, in quanto contenenti errori ideologici.
Quando è caduto il regime, ho dovuto emigrare in Grecia e di conseguenza quel poco che avevo è scomparso del tutto. Ho conosciuto i disagi dell’immigrazione, le difficoltà di esercitare la professione per la quale mi ero laureato e la necessità di svolgere qualsiasi lavoro per vivere. La letteratura, la mia passione, quella per la quale sono portato, era diventata un lusso.
Tuttavia, a un certo punto il susseguirsi degli avvenimenti mi ha permesso di tornare a dedicarmi seriamente alla cultura letteraria: le storie che risiedevano in me, desideravano la luce. Sono sempre stato convinto che non importa quanto bene scrivi e quanti libri pubblichi; rischi di restare nell’ombra se la mano del destino non ti “aiuta” un po’, con un’occasione che ti permette di distinguerti dalla folla infinita di scrittori.
Pertanto definisco “fortuna” il premio assegnato dal nostro Ministero della Cultura al mio libro, poiché ha permesso di conoscere i Valacchi in un’ottica più ampia, tanto da ottenere il riconoscimento in qualità di scrittore. D’altra parte, il premio mi ha incoraggiato, aumentando la mia responsabilità verso la qualità e i veri valori letterari.
L’etnia dei Valacchi, come lei afferma, è a rischio di estinzione e su questo popolo sembra che ancora gravino pesanti pregiudizi. Può la letteratura salvare una nazione?
Gli eventi di questo romanzo si svolgono durante il periodo della dittatura comunista, che come ogni potere totalitario agisce di nascosto. Quando manca la vera libertà, quando vige la guerra tra le classi, la paura, la sorveglianza e la punizione brutale, anche per una parola pronunciata contro l’ideologia imposta dall’alto, esiste la tutela di una felicità di facciata.
Tanti di noi hanno appreso dei terribili crimini della dittatura dopo la sua caduta. Ignorare l’esistenza di un popolo o di un gruppo etnico costituisce un atto violento a sé, che non può essere celato in nessun modo. In Albania, in nome dell’internazionalismo proletario e dell’unificazione della nazione, si è fatto silenzio sui Valacchi e ciò ha avuto un peso negativo notevole. Da sempre sono stati etichettati come minoranza culturale; nelle note feste folcloristiche che si svolgevano ogni quattro anni, era permesso loro di esibirsi sui palcoscenici dei villaggi, ma non su quelli nazionali. Non si imparava la lingua in nessuna scuola: era solo di uso interno alla famiglia. Questo valeva anche per la storia, le tradizioni e i costumi.
Il “potere popolare” ha riservato ai Valacchi una silenziosa persecuzione collettiva, malgrado fossero una minoranza tra le più grandi con un’antica storia di convivenza con gli albanesi. Il tutto dettato dall’ignoranza, dalla scarsa conoscenza e dai preconcetti. Così la dolce morte li ha soffocati lentamente, con amore, non rispettandoli come etnia. La letteratura potrebbe non essere in grado di salvare una nazione, ma sicuramente può liberarla dall’oblio.
Lei è nato in Albania, è emigrato e vive ad Atene da quasi tre decenni. Scrive di comunità poco conosciute, di civiltà che sono riuscite a sopravvivere nonostante le circostanze sfavorevoli. Come si colloca rispetto a questi universi così vicini geograficamente e spiritualmente, ma ancora troppo delimitati?
Ogni scrittore è allo stesso tempo cittadino di un Paese o di un tempo certo, parte del suo stesso popolo e costituisce una voce nell’universo culturale a cui appartiene.
Personalmente posso dire di vivere tra due culture, quella albanese e quella aromuna. La prima è fatta da ciò che mi è stato offerto dalla scuola o dalla vita pubblica, la seconda, è quella delle mie origini, ciò che generalmente era confinato dentro le mura di casa. Tuttavia, esse, indipendentemente dalla provenienza, tendono a nutrirsi e ad arricchirsi a vicenda. Ti arricchisci anche come persona e come scrittore. Lo definisco un privilegio il fatto di essere cresciuto con lo spirito della famiglia, fondato sull’amore per l’altro e sul rispetto del diverso.
Spesso la politica impone cambiamenti, oscurando una determinata civiltà che trova non adattabile al potere. I tempi, a un certo punto, cambiarono e con l’arrivo della democrazia in Albania, negli anni Novanta, come scrittore, non mi restava altro che dare alla luce ciò che non era stato possibile fare prima, cioè porre la lente d’ingrandimento sulla cultura e la civiltà di Arum. Questo è lo spirito con cui ho iniziato la stesura del romanzo di cui parliamo.
Com’è il suo rapporto di scrittore con la lingua?
La lingua è tutto per un autore, è lo strumento con cui costruisce il proprio universo culturale, spirituale, letterario e artistico. E quando diciamo lingua, intendiamo la parola di cui chi scrive deve essere… “malato”. Nel senso che non deve accontentarsi, deve lavorare sodo per trovare il vocabolo giusto e la corretta collocazione. Se non si riesce, esso “salta” durante la narrazione, con il rischio che questa diventi legnosa. Oltre a essere il più appropriato, l’idioma deve avere la sua originalità, in maniera tale da donare colore e atmosfera ai righi. Se lo stile è la tua individualità, il linguaggio ne è la voce e l’eco.
Cosa si aspetta dalle traduzioni in generale e cosa da quest’ultima in italiano?
Pubblicare in una lingua straniera è il sogno e il desiderio naturale di ogni scrittore. Ognuno ha l’ambizione di oltrepassare i confini del proprio Paese, per avere un bacino di lettori più ampio, che a sua volta abbia un’ottica di vita, di educazione e una visione del mondo diversi da quelli con cui condivide le radici.
Gli scrittori albanesi pagano lo scotto di appartenere a un piccolo posto, dalla parlata poco conosciuta, anche se sono più numerosi di un tempo quelli che imparano l’albanese e che, addirittura, lo portano nella loro lingua.
Le mie opere sono state tradotte in rumeno, armeno, greco, francese, italiano ed è in corso la trasposizione in inglese.
Le aspettative sono state superate con la Romania: tre dei miei romanzi sono stati pubblicati in romeno in breve tempo ed è in fase di preparazione il quarto. Questo grazie a Oana Glasu, che sta facendo tanto per i miei libri e per la quale ho una gratitudine speciale. A tradurlo in italiano, dal romeno, Monica Turlea che ringrazio allo stesso modo.
Cosa mi aspetto dalla pubblicazione in Italia? Quello che ogni scrittore vorrebbe: che il numero più alto di italiani leggesse il libro. Un autore diventa accettabile per il lettore straniero, se il suo lavoro si distingue per la qualità e le tematiche trattate.