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Lettera al paradiso

Dedicato alle vittime di quel maledetto 28 marzo 1997

Leoreta Ndoci Leoreta Ndoci
28 Marzo 2014
Mare Ndoci

“… Anne non si toglie mai il suo ciondolo, nemmeno quando dorme. Lo bacia, lo accarezza, ci parla come fossi tu, perché è l’unico tuo ricordo tangibile su questa terra che appartiene a lei. Eppure la vostra conoscenza fu come un volo interrotto, un momentaneo chiudere le ali e precipitare. Allontanarti lentamente lasciando un dolce-amaro pensiero sfuocato, e fragile come una nuvola d’agosto. Anne canta disperatamente guardando il cielo nelle notti senza luna. Anne ti cerca, in quei momenti che sanno di protezione. Anne ruba il sorriso al sole primaverile, perché ha la tua forza. Dipinge i colori autunnali, catturando la magia dei boschi, le foglie fragilmente affascinanti. Le manchi, ci manchi! Spesso penso a quella notte di marzo nel mare dei sogni proibiti. Anne era piccola. Troppo. Sono passati tredici anni, ma ricordo ancora i tuoi luminosi occhi. In essi scorrevano fiumi di lacrime in quell’attimo…

Spero di non averti deluso, papà. Tutti i giorni, me lo auguro. Ho imparato a credere nella magia del sogno, sto iniziando a camminare sui sentieri della vita! E insegnerò anche ad Anne a credere nei sogni, come me, come te. Perché il dolore della tua assenza si è sparso negli anni, ci ha unite!… ”
Eni

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Giovedì pomeriggio sono andata in pasticceria. Dopo aver dato un’occhiata alle torte in vetrina decisi di ordinarne una speciale. Torta al cioccolato, il dolce preferito di mia figlia. La torta che chiesi di fare era decorata con una nave in mezzo al mare calmo, sotto una spruzzata di stelle bianche. “U béfsh 100 vjeç Anne” sarebbe stato glassato sopra di verde speranza, come il futuro di mia figlia, anzi le mie figlie. Anne compiva due anni, Eni ne aveva già dieci. Non immaginavo sarebbe stato l’ultimo compleanno che avremmo festeggiato insieme. Il compleanno di Anne schiude sempre una cicatrice, porta un cupo dolore ben nascosto davanti alle bambine. Il giorno che la piccola venne al mondo, la madre mi abbandonò. Ci furono complicazioni durante il parto e i medici non riuscirono a fare niente. Si salvò la piccola.

L’ultimo regalo prezioso dell’amore della mia vita. Lucia, l’incanto di un bacio rubato sotto la luna, e sorrisi tra lacrime che sanno di ricordi. Una disperata e involontaria preghiera, tutte le sere abbracciato alla solitudine. Pregavo per il suo ritorno! Mi aveva lasciato due grandi responsabilità, e temevo la vita senza di lei. Io e Lucia ci lanciavamo parole di sguardi, e tutto era chiaro. Ora non ho nessuno con cui scambiare due parole la sera prima di andare a dormire. Non ho nessuno al quale raccontare i miei dubbi, le mie paure. Devo essere forte, educare al meglio i due più grandi doni che mi ha fatto; le nostre figlie… Il compleanno di Anne fu meraviglioso. I suoi occhietti brillavano di felicità. C’erano tutti alla festa. Anche Flora, la sorella della mia defunta moglie. Lei abitava in una cittadina nel nord ovest dell’Italia da alcuni anni. Aveva fatto così tanti chilometri per venire alla festa. Flora viveva lontano ma tra di noi c’era un legame forte. Le mie figlie l’adoravano. E lei amava loro… In pochi mesi la città prese un altro sfondo. Grigio cupo. Non solo per le nuvole che apparivano nel cielo. Di grigio erano dipinti i volti delle persone, la vita.

Ogni giorno verso le 11, dal mio balcone buttavo lo sguardo verso la piazza centrale della città. Era sempre piena di gente. Persone di diverse età che si salutano amichevolmente con una pacca sulle spalle. Poi due o tre si fermavano alcuni minuti in silenzio fumando, gli altri giravano piano piano finché non diventavano masse di persone. Davanti al comune erano posizionati due poliziotti armati di kalashnikov, mentre la porta era bloccata da una serratura in ferro. Il sindaco, ignorando le preghiere inutili della moglie, a passo deciso si recava verso il suo gelido, grande ufficio. Ogni tanto buttava lo sguardo verso la gente. Buttava lo sguardo triste verso il suo popolo. Disoccupati.

“Ormai forse sono circa novecento, o mille” dice a bassa voce mentre tira giù le maniche per coprirsi le dita ghiacciate. Dopo di che, aggiunge: “il numero attuale degli occupati varia da duemila a duemila e duecento”. Ma la città ha 110.000 abitanti. Sospira. Scutari è calma, dice il sindaco, ma qui tutti sono armati. Nella via attaccata alla piazza è ferma una squadra di poliziotti, hanno il viso coperto da dei passamontagna, così non li si può riconoscere. << Papà, inizia la lezione in televisione. La seguiamo insieme?>> mi invita mia figlia << certo tesoro, papà finisce la sigaretta e arriva.>> rispondo. Sarei rimasto ancora un po’ ad osservare quel panorama così selvaggio e drammatico, però mia figlia aveva bisogno di me. Da più di due settimane le scuole erano chiuse, così la TVSH trasmetteva le lezioni. Bell’idea. Almeno i nostri figli non rimanevano troppo indietro con il programma scolastico. Ma quanto poteva durare il 1997? Aveva l’aspetto di un maledetto anno infinito! A vedere l’impegno di mia figlia Eni mentre seguiva la lezione in TV mi si stringeva il cuore in petto. Ogni giorno succedeva qualcosa che mi faceva venire una gran voglia di uscire da quella situazione. Amavo il mio paese, la mia città, ma la vita era diventata molto dura. Non vedevo nessun futuro per le mie figlie.

Nel nuovo porto aspettava la nave “La Speranza”. Questa nave era sempre appartenuta ai Lamaj, una famiglia potente ma fuori da traffici “strani”. Per questioni conflittuali di sicurezza fra loro, il nipote più piccolo del vecchio Lamaj, Rezarti, al quale era intestata la nave, decise di mandarla in Italia. In città giravano voci che membri della mafia locale, Agroni e il suo braccio destro, Latifi, da tutti conosciuto come “Il cieco”, avrebbero chiamato Rezart e chiesto di preparare la nave per spedire della gente in Italia. A quanto pare Rezart Lamaj fu avvertito che, se non portava a termine quel trasporto, gli facevano un buco in testa …

Rezart non aveva nessuna idea sui problemi tecnici della nave. Si era rotto lo zoccolo del timone della nave, ma Rezart non poteva saperlo. Lui studiava economia e non gli passava neanche per la mente che quella nave l’avrebbe portato incontro al sonno eterno.

Il 18 di marzo a Valona si sparse la voce che sarebbe partita una nave piena di persone per l’Italia. La notizia arrivò quasi subito anche nella mia città, Scutari. Mi interessai e feci tanti chilometri per andare a fare domanda e partire anche noi. Noi, io e le mie figlie. Saremmo andati da Flora per un po’ e poi, chissà, forse il destino avrebbe riservato qualcosa di bello anche a noi. La persona che aveva contatti a Valona si trovava a Tirana. Io presi la macchina e andai a trovarlo. Avvicinandomi alla capitale, avevo la sensazione di andare incontro alla morte. La strada era bloccata, durante tutto il tragitto incontrai pattuglie di persone armate. Spesso puntavano l’arma senza preoccuparsi del fatto che era carica. Qualcuno più in là sparava a raffica per aria. No comment!

Con me avevo i soldi che dovevo dare all’“amico” come anticipo così mi metteva nella lista della partenza. Li avevo ben nascosti tra i genitali. Sudavo freddo. La paura era diventata parte di me. Il paese era in quella situazione da più di un mese ormai. Vederlo in ginocchio non era un bel miraggio. Miracolosamente nessuno mi rapinò. Così quella nave divenne il mio unico pensiero. La mia unica speranza per una vita migliore, lontano da tutto questo. Incontrai questo “amico” a Tirana. Incontro breve. Gli diedi un milione di lire a persona. Per la piccola mi chiese di meno. Pagai in tutto due milioni e mezzo di lire. Al ritorno il panorama ero esattamente uguale a prima. Stavolta però mi fermarono. Un uomo robusto mi puntò la pistola in fronte e mi chiese di dargli la fede nuziale. Non riuscii a vederlo bene, come se la paura mi avesse accecato e di lui mi ricordo solo che non aveva una bella fisionomia, aveva un’espressione torva. Io non opposi resistenza. Baciai il simbolo d’amore che mi legava a Lucia e gliela diedi. Nei miei occhi si nascondeva qualche lacrima. Non so come feci ma non mi tradii, non piansi. L’uomo mi chiese se avevo dei soldi con me; gli dissi di no. Dopo aver controllato nel mio portafoglio per accertarsi che stessi dicendo la verità ordinò:

“Sali in macchina!”

Io misi in moto in fretta e furia. Ero salvo. Un frammento di secondo mi sfiorò il pensiero che poteva anche uccidermi. Sembrava uno dal grilletto facile. Forse l’aveva intenerito la foto della mia famiglia che vide nel portafoglio. Forse anche lui aveva un cuore…

A Valona si organizzava la partenza. La persona che si occupò della raccolta dei soldi, del personale della nave, creazione delle liste dei passeggeri era “ il cieco”. Invece Agron e gli altri vigilavano i comportamenti e minacciavano le persone che non erano più sicure di partire. Il 27 marzo, verso le undici di sera ci vennero a prendere. Il giorno dopo all’alba arrivammo a Valona. Non mi ricordo se erano le sette o le otto, ricordo solo che faceva freddo. Molto freddo.

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Le mie figlie dormirono durante tutto il tragitto. Meglio così. Dopo il tramonto, forse verso le 18.00 siamo partiti. La nave è piena zeppa di persona, oltre la capienza. Speravo che salendoci su avrei salvato me stesso e la mia famiglia da quella vita di miseria in mezzo a pallottole che volavano da tutte le parti. Eni dormiva sotto il letto dal giorno che quella guerra assurda ebbe inizio. La paura era diventata parte della quotidianità, aveva alloggiato nei nostri cuori.

Guardavo tutta quella gente come le api sopra quel corpo di ferro, e avevo poche speranze di toccare ancora una volta terra. Eravamo così appiccicati che era difficile resistere. Le donne e i bambini cercammo di sistemarle dentro la nave, assicurando loro una protezione maggiore. Finché la nave non partì, erano presenti Agron, “ il cieco” e un gruppo di persone armate. “ il cieco” si comportava come fosse lui il padrone, non solo della nave ma anche di quella massa di persone che cercava un destino migliore, una vita più dignitosa. Agron sembrava uno di quei Boss mafiosi che spesso erano presenti nei film. Attorno a lui c’erano i suoi uomini. Armati e pronti a farti fuori per niente.

Quando la nave si allontanò dalla riva e iniziò il suo viaggio pensavamo di aver lasciato l’eterna condanna.

In quel momento non vidi più nemmeno Rezart Lamaj, forse se ne andò con Agron e gli altri. Con le lacrime agli occhi cercavo di vedere per -forse- l’ultima volte la città di Valona. Ormai diventata un inferno, come il resto dell’Albania. In quel momento ebbi il presentimento che non sarei più tornato nella mia terra! Circa due ore dopo la partenza scoprimmo che la nave aveva un difetto e non potevamo continuare il viaggio. Fu un momento di panico. Non si riusciva a comandare più la nave. Ormai il nostro destino e le nostre speranze iniziavano a spargersi tra le onde del mare…!

“Nessun futuro per le mie figlie”, frase che non si allontanava neanche un attimo dalla mia mente. Avevo portato Eni e Anne, le mie figlie, nella via verso la morte. Le stringevo forte. Anne stava appena imparando a sorridere e io la portai verso la paura, tra le onde dei sogni proibiti di quella notte di marzo. Il mare era al massimo della sua furia. Voleva inghiottirci. Tutti. Ci guardava, ci fulminava, il suo sguardo uccideva. In quel momento ho visto persone volare verso di lui, ho visto persone buttare in acqua compagni di questa terribile avventura.

Ho visto gente aggrapparsi ai proprio sogni fino all’ultimo. Nessuna speranza per noi. Erano troppi i desideri caricati su una piccola nave per di più anche difettosa. Poi si accese una luce in lontananza, pensammo di essere salvi. Si sentirono versi di felicità a bordo della nave. Durò un attimo. Fu una speranza omicida. La nave ci venne addosso. L’impatto fu come uno squalo quando inghiottisce un pesciolino. Morte inevitabile. Tra i cento sfortunati c’ero anch’io. Eni miracolosamente si salvò. Non aveva lasciato Anne neanche per un istante. L’aveva salvata stringendola forte a sé. Il sogno venne a costare troppo, ma Eni si salvò. Si salvò anche Anne. Le mie potevano avere una vita migliore. Potevano ancora sognare…

Nel viale alberato di una piccola città di montagna, nel sud-ovest dell’ Italia una ragazza passeggia sotto la neve. Sorride e piange. Oggi è il giorno della sua laurea. E’ felice e triste nello stesso tempo. Eni ha un bel futuro adesso, un futuro che le ha portato via suo papà. Eni oggi ha realizzato anche il sogno di suo padre tramontato in mare riuscendo a dare un senso a quella tragica morte. Il cielo di Eni è incompleto, nascosto dalla bellezza del mondo. Ora ha soltanto bisogno di riposo nell’amore più profondo dei ricordi. Eni ha imparato a fare il genitore. Lei protegge Anne sotto le piogge improvvise d’estate, sotto il gelido dell’inverno cuneese. Insegnandole a camminare ogni giorno su infiniti sentieri della vita. Insegnandole a credere nella forza e nella magia del sogno, per riuscire a dare un senso alla perdita di un padre! …

Argomenti: Leoreta Ndoci
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