Così decidemmo di andare a Lisbona. Il cielo era di un azzurro incomparabile quando scendemmo quella mattina di giugno dall’aereo, e l’omino del taxi era troppo anziano per farci sentire al sicuro. Era talmente minuscolo alla guida del mezzo, che la sua testa era situata più giù dell’altezza stessa del volante. Quindi, per prendere le curve con le braccia allungate, doveva alzarsi quasi sempre ed esclusivamente in piedi. “Poveri noi!” pensavo con orrore. “Fare tre ore di aereo di primo mattino, compreso il fuso orario che ci aveva storditi non poco, per farci ora ammazzare da un vecchietto che di sicuro si rifiutava di andare in pensione.” L’autista portava degli occhiali da vista che sembravano i fondi di un barattolo di vetro. Ero pronto a scendere dalla macchina, solamente per sfuggire alla trappola del castigo. Era un grande chiacchierone e mentre parlava con il mento che quasi gli toccava il naso, ci convinse che era un grande maestro sul volante. Scendemmo tutt’e tre sopravvissuti dal tassista senza data di nascita e ci trovammo in cima a un’ignota collina, dove era situato il nostro albergo.
Eravamo finalmente nella Lisbona di Pessoa e Saramago, con un cielo turbolento in cui strappi di nuvole non volevano firmare l’armistizio con il vento, ma che la buona sorte spediva oltre l’Oceano. Alle dieci, con una volta azzurra come pasta di vetro lucente, eravamo già lungo il fiume. Avevo la sensazione che quella mattina fosse eterna. Le ore non passavano mai, – colpa del fuso orario – e le lancette del mio orologio miracolosamente, anche se si muovevano in avanti, sembravano incollate alle dieci di mattina. Le dieci quando siamo partiti dall’albergo, le dieci quando siamo scesi. Le dieci quando ci siamo incamminati alla scoperta dell’ignoto mondo appena sbarcati. Proprio come tre esploratori verso l’avventura estiva.
Il sole picchiava senza clemenza, l’aria era diafana e i cittadini di Lisbona apparivano talmente scuri nella loro carnagione che mi sembrava di essere sceso in Nord Africa. Seduti sulla riva di cemento, lì dove il fiume confluisce e diventa oceano, udivo la musica dal vivo di un cantante bohemien. Suoni da cowboy che uscivano da una chitarra dilettante, ma che mi davano l’irrimediabile sensazione di aver vissuto quel momento, quell’attimo, forse in un’altra vita, in un’altra circostanza. Una melodia che echeggiava in remoto dentro di me, come se fosse tornata indietro nel tempo all’improvviso, come se rivivessi un’infanzia lontana. La musica riuscì a toccarmi le corde, ma gloria del destino, mi risparmiò le lacrime. Invece, mentre il tempo passava, lento, quasi immobile, a poco a poco, quell’attimo fu scolpito nella mia memoria come un punto d’arrivo. Era uno stato d’animo, terso, placido, misto di malinconia e di piacevole rimembranza che non avevo mai conosciuto. Matt, mio figlio leggeva un fumetto. Mia moglie fumava una sigaretta e beveva un caffè bagnandosi dai raggi di un sole diverso. Invece io registravo con la camera, rubavo l’attimo fuggente, imprigionandolo astutamente nella pellicola. Prometteva bene.
Dopo sazi dalla pigrizia rilassante e girovagando lievi e felici, senza pensare a nulla, bevendo il sole e nuotando in un ignoto azzurro senza risparmio, ci sedemmo in uno dei ristoranti lì accanto per pranzare. La sensazione che il tempo non passasse, persisteva senza tregua. Mi pareva che erano ormai le due e mezza del pomeriggio, invece erano ancora le dieci e mezzo. O come si fa a mangiare a quest’ora?!”
“Io ho fame!” disse Elt.
Matt, invece, che era sempre stato estraneo alla parola fame, si distraeva leggendo perfino camminando!
“Te l’ho sempre detto, che non si legge camminando. Ti prendono per matto!”
Matt non badò al consiglio e come sempre, fece di testa sua. Davanti a noi, si affacciava l’immensità imperiale della Praça do Comérçio, la quale ci rapì lo sguardo e ci esaltò riempendoci gli occhi di bellezza. La giornata continuava a essere solare e sorridente.
Nella stessa vasta piazza, avevano allestito già il mega-schermo per il campionato europeo di calcio in cui per la prima volta partecipava anche l’Albania. Per noi c’era qualcosa in più che ci spingeva a esultare tifando la squadra del cuore. Nella squadra di De Biasi, giocava lo zio Andi. Zio Andi era una leggenda nella famiglia di mia moglie. Si era fatto tutto da solo con duro lavoro quotidiano. La grinta, il coraggio e la fiducia non gli erano mai mancati. Aveva sempre creduto in se stesso, ma anche la fortuna si era mostrata generosa con lui. Anche se aveva sudato duramente ogni dollaro guadagnato, lo zio Andi non si arrendeva mai. In Italia, giocando con il Parma aveva pure mostrato le sue incredibili qualità come giocatore nel campo. Veniva da una storia di stenti e sacrifici estremi. A un certo punto, ancora adolescente, gli avevano offerto di giocare in Germania, ma aveva rifiutato per ragioni di cuore. Ma in Grecia, giocando con Pas Giannina fc aveva tanti tifosi e ammiratori. Invece nella nazionale albanese giocava sempre in difesa o come centrocampista.
Sempre alle dieci e mezzo eterno, ci sedemmo a mangiare all’aria aperta. Davanti ad un ignoto menù portoghese in cui non si capiva nulla, bacalhau, cabrito, sardinha, ecc., così decidemmo per la grigliata di pesce. È un grande problema mangiare in un posto di cui non conosci le usanze e le abitudini alimentari. Quando si va all’estero si devono sempre conoscere due cose: la gastronomia del posto e capire quello che sanno preparare meglio. Tra gli ostacoli dell’ignoto, ordinammo il vino e il resto delle pietanze. Per Matt ordinammo l’eterno piatto di pasta al pesto. Mio figlio è cresciuto con la pasta al pesto. Se la fabbrica del pesto sapesse le tonnellate di pesto che lui ha ingoiato, gli darebbe di sicuro il premio del Mangiatore Eccellente. Anzi non sarebbe stata una cattiva idea proporlo per il Guinness dei Primati. Con le ossa stanche dalla camminata, mangiammo in santa pace, gustando i cibi, azzeccatissimi e il bianco portoghese con la calma rilassante di una famiglia in vacanza. Da lontano veniva ancora lieve e quasi percettibile il suono del chitarrista rudimentale. Ma i suoni sembravano provenire più dalla mia coscienza, da una dimensione spazio temporale sempre con un ritardo di ore ed ore, e non da uno spazio materiale.
L’odore dello iodio mi riportò alla mente il tempo dell’infanzia. Mia moglie era cresciuta su un terrazzo inondato dall’odore del mare e pure io il mare ce l’avevo a portata di mano.
Al ritorno ci avventurammo nelle strade ignote perdendoci volentieri nei meandri del nulla. Tutto uno spettacolo da gustare. Lisbona appariva bellissima ai nostri occhi. Piena di colori, suoni, movimenti, con le stradine antiche gremite di storia in cui scivolavano ansimanti certi vagoni gialli che venivano dritti dalle epoche morte del passato. Le architetture erano magnifiche in stile tardo romantico con cenni rinascimentali. A poco a poco, comprendemmo che la città era fatta come una conca con due lati che si affacciavano e che si chiudevano in cima alla collina con il Parco Edoardo VII.
Giorni dopo, mentre scoprivamo la città in cima ai Bus turistici, ci informammo che Marques de Pombal, presso il cui quartiere alloggiavamo, era stato l’eroe umano, il Cristo consolatore, durante la terribile giornata del terremoto del 1° novembre 1755. Quello che aveva causato 90 mila morti. Ogni giorno, c’era una novità da scoprire. Ogni giorno ci rinfrescavamo la vista con le delizie di una città metropolitana, gremita di storie, di incroci e di culture. La lingua era improponibile. Piena di labiali strascicanti: lisccccbooooaaa, in cui per pronunciare le vocali l’aria doveva passare con difficoltà attraverso il palato, come lo strascico mortale del Metrò. E quest’ultima era una lunga ferraglia agonizzante nelle tortuose e ripide strade di Lisbona.
Lì, comprendemmo che la città aveva dei meravigliosi terrazzi in entrambi i lati delle colline, da dove si poteva ammirare l’immensità dei tetti, il verde dominante e il delirio senza fine dell’oceano che guizzava dal sole di fine giugno. Era una immensità senza orizzonti, che solo la fantasia aveva il lusso di immaginare. Un lato guardava verso San Pedro de Alcantara, e l’altra veduta mozzafiato che ci rimase impressa, quella dell’altra sponda era la vista da Castello di San Giorgio. Da lì, era impossibile staccare gli occhi dalla gioia. L’immensità aveva il sapore dell’eternità, la luce era senza ombre e lo spettacolo degli edifici che si arrampicavano ai lati delle colline somigliava alla poesia L’immenso, di Leopardi. Era tutto spettacolare e senza uguali, Lisbona era veramente un amore. Dormimmo come morti dopo i trenta chilometri a piedi durante tutta la giornata. Il bello in vacanza è che cammini e cammini per ore, sorpreso dalle novità scoperte, entusiasta e rilassato, riempendosi di storia, bellezza, paesaggi, vedute mozzafiato a destra ed a manca, e solo dopo cena ti accorgi che la stanchezza ti ha vinto e tu sei ormai un corpo morto. Prossimo al crollo, ti dolgono tutte le ossa dei piedi e si va a dormire profondamente. Con un sonno senza termine, ignoto e costante. Senza avere il coraggio di rialzarsi prima di un ristoro epocale.
Dormimmo senza sogni cattivi all’Hotel Madrid, in cui appena svegli si percepiva perfino il rumore infernale dei ferri vecchi della metro che passava ogni mezz’ora.
Il giorno dopo, riposati, dopo aver mangiato a colazione l’equivalente di uno stomaco pieno, scendemmo la ripa fatto di un selciato scolpito all’antica e decidemmo di prendere nuovamente il bus turistico. Finimmo nella torre di Belem. Un gioiello di architettura rinascimentale in stile manuelino, tutta in pietra calcarea. La luce era talmente amorevole in cima alla torre con i visitatori tra gli spalti, che i loro riflessi in mare tingevano il lato della torre con una luce blu trasparente. Eravamo tutti e tre felici e ci scattammo un selfie che avrebbe impresso per sempre quelle ore di bellezza. Elt acquistò in un negozio di souvenir un capellino di paglia per ripararsi dal sole crudele, che, però, utilizzò esclusivamente Matt. Poi ci sedemmo sul fior dell’acqua lungo un pendio di cemento che finiva in mare, dove tra le rocce rosse certi granchi pigri si fingevano morti. Lì, nella pendenza di 90 gradi che finiva in mare dove avevamo allungato le gambe, un gruppo di ragazzi in mountain bike, ci passò accanto, facendo pericolose acrobazie sul pendio, rischiando di cadere in mare. Mai stati meglio. In questa gioia familiare, gonfi di immensità dell’oceano, di marmo, luce e rilassatezza, ci alzammo leccando un gelato ed attraversammo il cavalcavia prendendo il primo bus turistico.
Tra le altre cose, scoprendo i monumenti storici, stazione dopo stazione, finimmo con il bus fino al deserto del nulla, a due ore lontano, accanto all’oceano, in cui c’erano solamente arbusti, terra rossa, pietre preistoriche e vento regnante e desolazione. L’avventura divenne così primordiale e il mondo così privo di antenati, che pensavo di immergermi nel passato e perfino la strada era sassosa e incurante. Tornammo indietro verso la civiltà. Le onde blu dell’oceano si scontravano nelle massive rocce primordiali, come schiaffi di una natura fin troppo arrabbiata.
Lo stesso pomeriggio c’era la partita del secolo. Giocava Francia -Albania. Con la birra in mano, ci coricammo sul tappeto sintetico messo appositamente accanto al mega schermo, nella piazza principale, e ci preparammo moralmente all’esito della partita. Il nostro entusiasmo per tifare la squadra rosso nera albanese aveva due ragioni. Le ragioni patriotiche e quelle del cuore. Era ovvio, giocava lo zio Andi, con maglia numero due. Quindi, ci immergemmo anche noi, nel fiume dei giovani di Lisbona i quali avevano invaso completamente la piazza principale. Il posticino in cui eravamo seduti, con il sole che ci bruciava il capo, era ottimo, e il fatto che non si sapeva come sarebbe andata a finire, era un forte espediente per aumentare la nostra grinta ed eccitazione. Tutti speravamo, toccavamo ferro, augurandoci di vincere.
Zio Andi, il quale aveva il compito arduo e difficile di coprire Pogba, lo fece così bene e con tanta grinta, che diverse volte quasi gli strappò la maglietta, solo ed esclusivamente per ostacolare la palla indirizzata al campione francese. La copertura fu così viscerale e sentita che Pogba iniziava a incazzarsi sempre di più, per i metodi bruschi dell’albanese. Modi, secondo Pogba, poco sportivi.
Importava solo vincere e passare. Pogba protestò ancora una volta, lagnandosi con l’arbitro con energia e stizza, ma zio Andi aveva molto chiaro il suo obbiettivo. Quel giorno, Pogba non lo doveva passare. Fece soffrire la Francia per quasi tre quarti del tempo della partita, ma poi gli avversari, a casa loro, sbavanti ed ansiosi, riuscirono ad avere il meglio. Segnarono ed alla fine, la sorte fu dalla parte loro. La serata era bella e tiepida, la birra ci aveva riscaldati parecchio, ma l’eliminazione ci rovinò l’umore per il resto della serata. La cosa che più mi sorprese era che in mezzo ai portoghesi che avevano riempito la piazza per guardare la partita, ogni volta che la nostra squadra attaccava, udivo strilli di gruppi di connazionali, qua e là, sparsi nella marea di gente. “Siamo ovunque come gli ebrei!” mi venne da pensare. Comunque era stato un successo per l’Albania giungere fino ai tre quarti di finale. Ora ci rimaneva da tifare la Svizzera, in cui giocavano diversi calciatori albanesi. Comunque la partita più interessante sarebbe stata quella tra Svizzera e Albania, in cui i fratelli Shaqiri, Xherdan e Erdin, giocavano uno contro l’altro. Credo che non sia mai successa una cosa simile in un europeo o mondiale.
La sera stessa, l’entusiasmo troncato dalla perdita, si concluse nel peggiore dei modi con un’improponibile zuppa di baccalà, che neanche lo stomaco di un cavallo di razza sarebbe stato in grado a digerire. Figurati il mio stomaco, che ogni mese aveva bisogno di pantoprazolo e antiacidi. Abbandonai il piatto appena mi accorsi del cibo da coccodrillo. Mia moglie invece, che aveva ordinato uno squisito filetto alle erbe che emanava un profumo musicale, mi fece venire l’acquolina in bocca. “Te si che sai scegliere!” riuscii a dire con rammarico. Ne rubai un po’ quando si assentò per fumare una sigaretta. Non lo so, ma mangiare dal piatto degli altri mi ha sempre gustato. La tentazione era talmente forte che anche se avevo preso lo stesso identico cibo, mangiare dall’altro piatto aveva il sapore della proibizione che gusta di più. Ugualmente mi succedeva anche con le sigarette. Quelle scroccate mi gustavano di più.
Tornammo in albergo e ci coricammo nuovamente stanchi morti sotto le coperte, molto altrove con la mente e ancora fluttuando nella nebbia dell’alcol dopo la cena.
L’ultimo giorno andammo a Cascais. Una bellissima località un po’ distante dalla capitale. Per tutto il giorno facemmo il bagno in un fazzoletto di sabbia tra le mega rocce rosse la memoria delle quali giungeva fin dalle origini della vita stessa. La sabbia era talmente fina e bianca che i bambini lo confondevano con lo zucchero e lo mettevano in bocca per assaporarlo. L’oceano blu, verde smeraldo con le onde fredde di giugno, era limpido e invitante e i branchi di pesci rossi sembravano nuotare sui loro stessi riflessi. I nostri corpi lattei si arrossavano di male in peggio da un sole senza clemenza e l’aria marina ci risanava l’anima con manciate di iodio segreto della riviera.
A fine serata, con il sale ancora sulla pelle, ci vestimmo e decidemmo di fare un giro a piedi per la città. Il posto era una proprio una perla paradisiaca con tanto di palme, aria profumata, venticello che soffiava la beatitudine. Le ville erano faraoniche. Qua e là si scorgevano diverse Chiese. Invece oltre, al Faro, situato in mezzo alle rocce, tutto bianco e con le strisce azzurre orizzontali, aumentava il grado di stupore alla vista. Era valsa la pena doppiamente. Le camere da ripresa quasi protestavano per l’abuso che facevamo e ogni foto veniva meglio di una cartolina meravigliosa.
Camminavamo ancora felici, leccando l’ennesimo gelato, immergendoci nei mosaici del pavimento in sassi rotondi, e il lungomare sapeva di eternità vacanziera sistemata proprio a gusto. Come se fosse ideato da un Dio troppo fantasioso. Tutto era una meraviglia in crescita, come in una sinfonia che dai toni lenti e trattenuti, a poco a poco aumenta l’intensità delle emozioni in suoni. O forse noi eravamo solo i meravigliati da tanta furia di luce e amore e nient’altro. I pavimenti mosaicati con sassi neri e bianchi, andavano in ovali armoniose come note musicali da Mozart. Le statue, le villette fatate, la piazza di Tamariz, il Castello di Cascais, tutto, invitava all’amore, viveva nell’amore e per l’amore. La bellezza che si offriva al gusto senza pensare più a nulla, era così incredibile che si stentava a non credere che eravamo dentro un sogno. Un sogno irreale, che non esiste. Un sogno invaso da tanta bellezza, in cui io tiravo fuori invisibili lacrime di pura felicità.
Il cuore mi si gonfiava dal gaudio sentivo di saltare felice come un bimbo, sempre sorridente. E felici erano anche Matt, l’amico fedele del pesto alla genovese, Elt, che ovunque, per fare più piena la felicità aveva bisogno sempre di un caffè da portare via (da me). Tanta bellezza risana la famiglia. Avevamo tutto, e la felicità non poteva essere più piena e colma di regali.
Lungo il mare, un tizio alto, abbronzato, capelli rasta, ovvio fumatore di erbe allucinogene, con addosso solamente un asciugamano per coprire le vergogne, stava ritto in piedi, con fare minaccioso. Teneva in mano un badile pronto a colpire qualsiasi turista giapponese che si azzardasse a fotografare senza pagare il soldino al suo capolavoro in sabbia umida: una donna nuda che zampillava acqua dalle tette. Faceva sul serio, perché minacciava con tanto zelo e volto accigliato le spaventate turiste nipponiche, perciò ci tenemmo alla larga per non prendere accidentalmente una pala in testa.
“Ma, ma, ma questo è pazzo!!” diceva Matt tra stupito e divertito.
“Altroché!”
Facemmo tutta la costa della meravigliosa località apprendendo a poco a poco il mestiere di essere felici. E’ difficile e bellissimo questo mestiere. Si apprende a poco a poco con la conoscenza, trovando un equilibrio perfetto, con una discreta dose di buona stella anche. E’ una professione che ha a che vedere più con gli stati d’animo, con la soddisfazione, la gratitudine e l’appagamento dell’essere. Si può apprendere con il passare degli anni, imparando dagli sbagli e ricercando valori veri, come famiglia, amicizia, rettitudine. Ecco, questi momenti, erano una scuola intensiva su questo effimero mestiere. Momenti in cui ti senti più leggero della luce e senti dentro di te la trasparenza delle acque cristalline. Poi, magari ti scappa anche una lacrimuccia innocua, testimone dell’attimo eterno che rimarrà sempre dentro di te.
Si sa! La vita è fatta di tanta monotonia, e grigio quotidiano, salvo questi attimi che valgono oro. Non si voleva andar via da questo paradiso di giugno, in cui l’essere umano vuole trovarsi dappertutto, in ogni dove, con i suoi più cari parenti, familiari, in completo per condividere i momenti. Così, se uno lo dimenticava, il ricordo sarebbe sopravvissuto nella memoria dell’altro. Puro e denso. Come croci bianche nelle lontananze. Come l’eternità sulla terra. Sentivo la commozione dentro di me che sgorgava come un fiume paradisiaco e che solo grazie agli occhiali da sole riuscivo a nascondere la tenerezza.
Tornammo in una Lisbona notturna che pullulava nel delirio delle luci e non riuscivo a comprendere se il tramonto non finiva più, oppure ero io che lo desideravo ardentemente. Gli ultimi fuochi del sole sopra l’oceano durarono forse fino all’alba?
Il giorno dopo, salimmo il pendio per andare al Castello di San Giorgio. Un’altra terrazza panoramica dall’altro lato della città, in cui le pietre rozze, solide e ben piantate erano come libri aperti di storia che testimoniavano il passato che non muore mai.
Gente allegra i portoghesi anche se non si comprendevano per niente e imparammo a gustare le sardine di Lisbona, con una strizzata di limone e olio d’oliva mediterraneo. In cima al castello, divenni nervoso e non capivo. “Hai fame perciò sei nervoso!” sentenziò Elt con una punta di ironia. Giravo come la tigre in gabbia, perché stavano tardando il pranzo al ristorante. “Ma che cavolo! Quelli lì sono seduti dopo di noi, e già stanno mangiando!” Uscii fuori a fumare. Quando tornai vidi che Matt e Elt stavano già mangiando e per mettere alla prova ancora la mia pazienza solamente il mio piatto non giungeva.
“La tua pazienza è messa a dura prova, babbo!” ironizzò Matt sorridendo con malizia.
“E io mangio dal tuo piatto!” mi vendicai con pieno diritto. Finalmente arrivò anche il desiderato cibo. Mangiammo con gusto. Io la frittura di pesce, l’irrinunciabile Paella e Matt il suo eterno piatto con cui era cresciuto.
Mi dava ai nervi il fatto che mio figlio fosse schizzinoso. Allora è vero che se hai tutto, tendi a rinunciare, se non hai quasi nulla, gusti anche il pane con solo dell’olio sopra. Quando ero piccolo, nell’Albania di Hoxha, per comprare sei uova e un litro di latte, mi dovevo alzare alle 5 ed era “cibo tesoro”, adesso, i bambini crescevano con ogni ben di Dio, ma erano selettivi e gli facevano pure schifo gli alimenti. “Che cos’è, pesce? Che schifo! Povero pesce!” aggiungeva schifato Matt. ” È stato ucciso e cucinato!” aggiungeva. “Che cos’è: bistecca?! Che schifo!” Poi, in altre occasioni rincarava pure la dose: “Povero vitello. Ammazzato senza alcuna colpa per essere divorato spietatamente da spietate bocche umane!” Allora, forse i bambini schizzinosi di oggi, saranno i vegetariani del domani! Forse saranno loro a salvare il pianeta dallo sfruttamento sistematico.
Tornammo da Lisbona in capo ad una settimana, carichi di sole, bellezza, gioia ed allegria. Con lo spirito sciacquato nella purga medicinale della vacanza, e come sempre, ogni ritorno a casa, era una gioia nuova. Diversa. Speciale. Mi sono sempre piaciuti i ritorni dalle vacanze in cui ti godi la tua casa. Il primo pomeriggio appena rientrato fu colmo di cose belle. Di ricordi condivisi, di scherzi, di emozioni belle, di strade, musei, zoo, cibi gustati. L’anima finalmente si era rinfrescata nel profumo del diverso, del nuovo, del bello. Ed ora. La casa, la tua dolce casa sembra più bella, più confortevole, e più accogliente. Così te la prendi il pomeriggio con calma, riguardando insieme le foto, commentando il viaggio, raccontando gli episodi e scherzando di buon gusto di un autista anziano, alto un metro e qualcosa e con la testa che non superava il cerchio del volante. Un tizio proprio bizzarro che parlava in continuazione con i suoi fantasmi, e quando prendeva la curva con il taxi doveva alzarsi dal sedile, per vedere la strada. E dietro Elt. che si sganasciava dalle risate per il nostro personalissimo autista ultraottantenne con gli occhiali spessi a spirale, simili ai cerchi infernali. Meno male siamo ancora vivi a Firenze.