Ricordo una foto in bianco e nero di mio nonno in uniforme. Era un ufficiale dell’esercito quando era giovane. In quella foto aveva trentatré anni, l’età dell’eternità, con i capelli pettinati all’indietro, un sorriso carismatico e uno sguardo pieno di coraggio e fiducia. Non era solo un ufficiale, ma anche un buon cacciatore e cuoco. Scriveva poesie e filastrocche.
“Adesso capisco perché ti sei innamorata di lui, cosa c’è di meglio di un uomo in divisa che cucina e soprattutto romantico. Chissà quando recitava le poesie, di sicuro ti sarai sciolta completamente, penso…” dicevo a mia nonna. Improvvisamente lei smetteva di fare quello che stava facendo e mi lanciava uno sguardo da ma-di-che-cosa-stai-parlando-ma-sei-matta?
Io e il nonno avevamo un segreto: fumavamo di nascosto senza che la sua signora se ne accorgesse. In una famiglia matriarcale come la nostra, dove la donna faceva la legge, se la nonna ci avesse scoperti, sarebbe accaduto il finimondo. Quella era la bellezza del nostro segreto: infrangere le regole, nasconderci sul balcone, cancellare le nostre tracce e l’ansia “post-bevuta” di non aver lasciato segno…
A volte mi stava accanto mentre facevo i compiti. Un giorno mi sono imbattuta in una canzone in italiano, che sarebbe poi diventata un famoso successo di Netflix:
Stamattina mi sono alzato,
o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao!
Stamattina mi sono alzato
e ho trovato l’invasor.
O partigiano portami via,
o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao
o partigiano portami via
che mi sento di morir.
E se io muoio da partigiano,
o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao,
e se io muoio da partigiano
tu mi devi seppellir.
Seppellire lassù in montagna,
o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao,
seppellire lassù in montagna
sotto l’ombra di un bel fior.
E le genti che passeranno,
o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao,
e le genti che passeranno
mi diranno «che bel fior.»
Questo è il fiore del partigiano,
o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao,
questo è il fiore del partigiano
morto per la libertà
Quando iniziai a leggerla, lui divenne nostalgico, assalito dai ricordi. Fu così che iniziò a raccontarmi storie di partigiani, nuovi-turchi, italiani e tedeschi. Mi raccontò che durante la guerra avevano ospitato un italiano, infrangendo le leggi dell’epoca. Sfortunatamente non ho memoria di tutte queste storie, quindi non posso scriverle e tantomeno raccontarle. Forse perché ero troppo piccola per ricordare o non ero davvero concentrata su quello che diceva.
Ogni mattina mi portava dei panini che chiamava pane di coniglio, perché erano morbidissimi.
Si mettevano le patate nell’impasto e si lasciava friggere in padella; avevano la capacità di moltiplicarsi da soli all’infinito nell’olio. Non attendevamo certo che si raffreddassero per mangiarli. Tutto ciò fino a quando non sono cresciuta. La versione giovane di me, a quel tempo, doveva stare attenta al peso, rotolare gli occhi e soffiare il fumo dal naso, perché non ero più interessata ad ascoltare le vecchie storie del nonno. Quando, poverino, cominciava a raccontarmi qualcosa, il mostro adolescenziale dentro di me si lamentava con un “uffaa ancora con queste storie di guerra?”
Crescendo capii che quando mio padre emigrò in Italia, nonno Musa cercò di non farci mancare nulla, anche se non avrebbe mai potuto sostituire la figura paterna, pur mostrando la stessa premura. Ci portava a scuola, a fare le passeggiate nei campi (allora non c’erano parchi), ci insegnò a prenderci cura delle piante, a cucinare e a volte anche a lavorare con gli attrezzi.
Tutti i giorni comprava i giornali, non uno ma tanti, e ancora oggi il loro odore mi ricorda quelle mattine in cui uscivamo insieme per fare la spesa. Per prepararmi al percorso scolastico, mi insegnò a leggere e scrivere attraverso i giornali, facendomi leggere a voce alta.
Non aveva una metodologia di insegnamento sviluppata come oggigiorno, né alcun piano strategico per implementare la qualità del mio apprendimento. Ma con semplici metodi militari, con i comandi di un ex ufficiale, mi insegnò le lettere dell’alfabeto una per una e come si scrivevano.
Insieme guardavamo il telegiornale e ascoltavamo la Voce dell’America in lingua albanese. Forse, tutte queste pratiche raccolte nel mio subconscio, mi hanno spinto, in seguito, a scegliere la carriera di giornalista. Forse è stato mio nonno a piantare in me un po’ di passione per questa professione. Quell’ex ufficiale, l’ufficiale Musa Dosti, che ha portato per tutta la sua vita un nome musulmano, che ha dedicato la sua vita al Partito e ha creduto soltanto nei suoi ideali.
Quando poi siamo cresciuti e andavamo a trovarlo nei fine settimana, ci regalava sempre qualcosa di speciale che aveva messo da parte solo per noi: o uno dei migliori frutti dell’orto o uno dei piatti preferiti di mia sorella, che gli diceva spesso: “Nonno, quando ci farai quelle patate fritte come quando eravamo piccole, e quando ci comprerai di nuovo il pane di coniglio?”
Io non gli chiesi mai nulla, perché ero abituata ad accontentarmi di poco. Il poco che significava molto per me.