Balo non ne parla molto delle sofferenze, cerca di dimenticarle. Di cosa devo raccontarti, mi dice, delle lacrime di mia madre, che piangeva ogni giorno?
Ha ragione, il poveretto. Durante gli anni della dittatura, ad eccezione di quelli dell’infanzia, visse più anni in esilio forzato che fuori.
Siamo su messenger, parliamo e ci vediamo attraverso le fotocamere dei cellulari. É così che la conversazione è piacevole ed ha più gusto, sostiene.
Lui abita a Tirana, io in Italia.
È tarda sera.
– Aspetta che riempia un bicchiere di grappa – mi dice. – Dobbiamo combattere il virus, no?
Visto che grappa non ne ho, mi dà il permesso di accompagnarlo con della birra.
Parliamo del più e del meno, dei nostri amici. I ricordi scorrono veloci. L’atmosfera é amichevole e la grappa fa il suo effetto: gli trasmette voglia di parlare.
– Sai cos’è il “qilizmo”? – chiede.
– I tappeti di Kavaja, che spaccavano i mercati stranieri? – lo prendo in giro, facendo finta di non capire.
– No, no! Lascia che te lo dica: il “qilizmo” é uno dei modi di arare la terra, farne una sorta di tappeto con il terreno che viene lavorato a una profondità di 40 cm. Ho iniziato a fare quel lavoro, quando siamo stati internati a Labova, un paesino del Gjirokastra, il 16 ottobre ’75, lo ricordo come oggi … Veniva il contadino, capo della squadra dove ero costretto a lavorare cone agricoltore, e misurava la profondità del tappeto. Se fosse profondo 38 cm, non lo prendeva in consegna, il lavoro … e non ci pagava.
Per Balo, la parola contadino non significa è un epiteto geografico o razzista: essa è sinonimo del male, la personificazione di una spia, di un uomo malvagio che non conosce bontà.
– Ci siamo lamentati con quelli del Direzione degli Affari Interni, gli abbiamo detto chiaro e tondo che, se non lo sostituivano con un’altro, gli avremmo aperto il cranio con un piccone, tanto ci stava rendendo difficile la vita, quel bastardo. Ne hanno portato un altro e, per nostra fortuna, non siamo diventati dei criminali.
Dopo due anni, abbiamo raccolto quei poche cose che avevamo e ci hanno trasferito a Sheqëz, un altro paese remoto, in provincia di Berat…
Quando siamo stati internati la prima volta, frequentavo il ginnasio Sami Frashëri a Tirana, e giocavo calcio con la primavera della Dinamo. Per ragioni politiche, era scritto nella ordinanza del allontanamento. Sono stato espulso dall’Organizzazione della Gioventù oltre che dall’ addestramento militare, perché ascoltavo musica straniera. Mentre, per mio fratello, hanno trovato come scusa un libro di Freud, che aveva prestato a un amico. Sai, leggere Freud era proibito, in quei anni. Nel frattempo due zii, alti ufficiali della nomenclatura, erano stati appena arrestati. Uno, che si era laureato a Varsavia, veniva accusato per essere al soldo dei servizi segreti polacchi e l’altro per aver imprecato contro il compagno Enver, quando era in servizio a Odessa, in Ucraina, circa 15 anni fa. ”
– Mamma mia! – faccio io.- L’avrà spiato qualche suo amico, no? Che tristezza!
– Si. I giudici portarono un testimone, a sostenere l’accusa, in tribunale. Ma quando lo zio ha dimostrato loro che non aveva mai messo piede a Odessa, hanno trovato un’altra accusa e lo hanno condannato a dieci anni di carcere duro. Cosa vuoi fare!? Forse così era il nostro destino. Ma la colpa, è solo loro, dei miei zii e di mio padre, – dice ironicamente.- Erano ragazzini durante la guerra e sono scappati dalle mani di mia nonna. Si sono uniti ai partigiani. Anche con i tedeschi, se si fossero uniti stati, non avrebbero subito queste condanne! Tutti pazzi per diventare partigiani… cinque fratelli!- continua Balo, rivolgendomi in dialetto di Tirana.
– Cin cin, Balo. Ecco perché sei così buono, te, perché hai sofferto molto. Alla faccia di noi, che ci lamentiamo senza aver vissuto calvari come il tuo.
“Io e mio fratello abbiamo sofferto per i nostri genitori, loro hanno sofferto per noi. Insieme, abbiamo sofferto per il nostro destino e le ingiustizie che abbiamo dovuto sopportare.
A Berat stavamo un po ‘meglio, gli abitanti del villaggio ci volevano bene, anche se eravamo “nemici”. Ho lavorato in una cooperativa, per 30 lek al giorno. Eravamo giovani e lavorando duro, riuscivamo a raggiungere i 1500 lek al mese. Erano sufficienti per il cibo e sigarette ed anche per qualche libro ”.
– Leggevate dei libri?
– Cosa dovevamo fare dopo il lavoro!? Non abbiamo frequentato molto la gente del posto o altri internati. La paura di essere spiati, gli intrighi o le provocazioni non ci hanno permesso di fare amicizia con le famiglie del posto. Avevamo solo pochi amici fidati, internati come noi.
– Quanti anni siete rimasti a Berat?
– Dovevamo restare cinque, perché così prevedeva l’ordinanza dell’espulsione, ma ci hanno aggiunto altri cinque anni. Nel frattempo, lo zio che era stato un” nemico”, ha finito di scontare la sua penna in prigione ed è stato rilasciato, mentre noi no. Siamo stati “dimenticati” a Sheqëz… Cin cin Ben! Ci hanno rubato la nostra giovinezza …
– Cin cin, Balo.
– Dopo 11 anni, nell’86, dopo milke tentativi e molte difficoltà, la nonna a Tirana è riuscita a realizzare il nostro rilascio. Ci mandarono la lettera di fine esilio. C’era scritto solo una condizione: non potevamo più viverci a Tirana. E noi abbiamo scelto Scutari, la città di mio padre.
– E siete andati lì?
– Per colpa mia, no. Sono stato un’ egoista Quando è arrivato l’ordine di rilascio, invece di fare i bagagli ed andare subito a Scutari, ho lasciato i genitori e mio fratello a Sheqëz e sono andato per dieci giorni a Tirana. Mi mancavano mia nonna, i miei zii, le zie, i parenti tutti. Avevo nostalgia per la città.
– E dove è la tua colpa?
– Pochi giorni dopo, mio padre è stato chiamato nella Direzione degli Affari Interni. Gli hanno consegnato una nuova lettera in cui si dichiarava che il nostro internamento era stato prolungato per altri cinque anni. Il motivo: papà non aveva ringraziato il Partito per il decreto liberatorio, quindi, venimmo condannati di nuovo … Papà quasi morì di disperazione. Era un giornalista e conosceva bene le leggi, ma nessuno lo ascoltò. Così ha deciso il partito, gli dissero. Ci siamo demoralizzati, quando è tornato a casa, perché abbiamo capito che per noi, non c’ erano più speranze. Mia madre piangeva giorno e notte … Ehhh!
Cosa posso dire a Balo, l’uomo che si limita a sorridere e non pronuncia una parola di maledizione tranne la parola contadino. La sua confessione è incredibilmente sincera, schietta, commovente. Parla in modo semplice, senza grandi parole, con una voce piena e virile, che solo una volta sembrò un po ‘svanire, nel momento in cui parlava delle lacrime di sua madre. La sua é una confessione vera, di quelle che si fanno a tavola, tra amici di bevute. É la confessione di una notte di marzo, con un bicchiere di grappa davanti. È una confessione, non c’è alcun filo di odio in ciò che dice, nessun senso di vendetta. È la confessione di una persona che pensa a come fare meglio per la sua famiglia, a non cercare vendetta su chi gli ha fatto un torto. Dev’essere stata la sofferenza a renderlo tale, credo, la sofferenza o l’educazione familiare e culturale. O entrambe le cose…
– Era una violenza fisica la deportazione,- continua.- Ma, soprattutto, era violenza psicologica, violenza quotidiana. Per essere forti ci opprimevano di più, ci trattavano ancora peggio … Ecco, così, aumentando gli anni di internamento, secondo il loro piacere.
– Probabilmente siamo stati più fortunati, perché gli deportati di Lushnja stavano peggio di noi … hanno sofferto molto di più… un vero dramma.”
– Cin cin, Balo,- dico, borbottando qualche parola di consolazione. Poi cambio argomento e chiedo di un amico.
– Aspetta, perché non ho finito. Hai visto Guxi nella foto che ti ho appena mandato?
– Non lo conosco, ‘sto Guxi, sono più giovane di te.
“Ma cosa dici!? Guxi, Guxi Bekteshi che giocava a basket con Partizan di Tirana. Che tifoso sei tu che non conosci Guxi!? C’era anche lui, con la sua famiglia, perché suo padre, ex vice ministro di difesa era imprigionato. È stato Guxi a tenerci in vita con le battute, in quei anni difficili. Zappavamo la terra insieme, a Sheqëz. Abbiamo scattato quella foto solo pochi giorni dopo che ci hanno aggiunti cinque anni, alla nostra deportazione, nell’86. Senza Guxi volevi andare via te, mi prendeva in giro lui, dove volevi andare … volevi la libertà? Tre appelli al giorno, chi li farà, solo Guxi?

Ha in mano la nipote, la figlia della sorella, mentre io tengo la zappa, senza manico. Quando pioveva, toglievamo gli attrezzi dal manico e li portavamo dal fabbro del paese, per affilarli. Il giorno successivo, abbiamo finito il lavoro prima, fino a quando la zappa si consumava di nuovo. Questa era la vita da deportato …
Nella foto manca Ronçe…
– Ronçe?
– Il figlio di Hasan, che era viceministro del Commercio. Quando fu rilasciato dalla prigione, Ronçe era libero, ma non avevano più una casa a Tirana, quindi si unì alla sua famiglia in esilio e lavorò nell’agricoltura. Ronçe e Guxi era unici, gli abitanti del villaggio li volevano bene: Ronce aveva insegnato loro il gioco d’azzardo, tanto che non vedevano l’ora di fare una linea e lanciare dieci lek in aria, come si facceva in quei anni. Li aveva anche insegnato il totocalcio.
– Totocalcio!? Hahaha.
“Sì, davvero. Ronçe andava e veniva a Tirana, perché era libero. Era il nostro postino: portava la notizia, raccontava la notizia, chi era morto o imprigionato, notizie di parenti e amici. Ci ha insegnato di tutto… All’inizio giocavamo solo quattro persone, poi i paesani ci vedevano tutto il giorno con i fogli in mano a scrivere i risultati e si incuriosivano, anche a loro piaceva il totocalcio e non se ne andavano più. La Rai italiana veniva captata anche in quella zona e in qualche modo, i contadini del posto, conoscevano le squadre. Per il resto, ci pensava Ronce.
La storia di Balo non ha fine, scorre come il fiume stesso. Sembra che chi soffre dal suo racconto sia io e non lui. Tanto meravigliosamente racconta, tanto dolcemente confessa.
Dalle conversazioni con altri amici che hanno avuto la sua sfortuna, sono giunto alla conclusione che la loro cura mentale, spirituale e fisica, se così si può chiamare, è il tentativo di ricordare e mostrare solo le cose positive, le quali, le hanno usate come medicine o integratori per mantenere la dignità e non piegare mai la schiena al peso della sofferenza. Perché, grazie alla volontà e alla fede nella giustizia divina, hanno sempre tenuto alta la testa …
La nostra conversazione finisce tardi. Mi promette che trasmetterà i miei saluti a sua madre, la ballerina di un tempo, colei che interpretò Mamica, la sorella di Skanderbeg, nel film con lo stesso nome…
* * *
L’avvocato Ilir Alibali (questo é il vero nome di Balo) e la sua famiglia hanno finito di scontare gli anni della deportazione, solo nel 1988.
Questa mattina ho trovato nella posta di Facebook una foto di lui con i suoi genitori. É stata fatta durante l’esilio a Sheqëz.
Sono rimasto colpito dalla loro nobiltà: il fascino di sua madre, la sua bellezza, il velo, il loro sorrisi. I capelli bianchi del padre, proprio come il colletto della camicia, l’ottimismo dei loro volti. E poi, la mano di Balo in tasca, con il pollice in fuori. Volti dolci e pieni di bontà.
Ho guardato i rami degli alberi, la vecchia finestra e le pareti della vecchia casa, con intonaco a pezzi.
E, ancora, sono tornato ammirare il loro sorriso.
Insieme, uno accanto all’altro, come un pacifico ramoscello d’ulivo.
Ho il nome Ilir, (Libero, in italiano), ma libero non sono mai stato, cantava sempre Balo, in esilio …