È motivo di autentica gioia presentare in lingua albanese – dopo un intensa e fruttuosa “ruminazione” in fase di traduzione da parte mia – il libro di Padre Ernesto Santucci, edito recentemente in italiano dalla casa editrice “Avagliano Editore” con il titolo coerentemente evocativo “Io sono un albanese”.
Di primo acchito, la prima sensazione che si avverte man mano che si procede nella lettura sotto la straordinaria capacità di offrire un fedele affresco dell’Albania, appena uscita dalle catacombe comuniste – è l’amore genuino e semplice di cui sono intrisi i progetti e le azioni di apostolato cristiano di questo padre gesuita che consumò ogni sforzo intellettuale e fisico per risollevare le sorti della comunità cattolica e di ogni albanese affidati alla sua cura pastorale.
Inoltre, queste belle pagine, suscitano – in chi ha vissuto quei momenti di rinnovato riscatto e di speranza cristiana – un forte moto di identificazione personale nella lotta, intessuta da tanta nostalgia, a cui padre Santucci ha dato voce e dignità nella sua testimonianza quotidiana.
Io sono albanese – Unë jam shqiptar
Padre Ernesto è in assoluto tra i primi missionari a sbarcare in Albania ai primi anni novanta, appena il paese si avvia alla democrazia dopo una lunga dittatura totalitaria e i motivi di questa scelta li racconta per filo e per segno nel corso di questo denso scritto a dimostrazione della sua acuta sensibilità nel racconto, forgiato già in edificanti esperienze pregresse in Italia, particolarmente nelle aree abbandonate e depresse di Napoli dove lavorò con persone emarginate e piombate nell’abisso della tossicodipendenza e nei traffici clandestini…
Con il crollo del regime comunista la Chiesa Cattolica uscì dalla prostrazione feroce e disumana della dittatura, protrattasi per quasi 50 anni – un vero e proprio genocidio diretto per mano di Enver Hoxha, il politico che al tempo teneva in scacco l’intero paese.
Ed ecco che immediatamente dopo si imponeva non solo la ricostruzione fisica delle chiese distrutte ma anche, e soprattutto, la delicata ricostruzione del tessuto della persona umana, oggetto di disumanizzanti sperimentazioni da parte dello stato totalitario albanese.
A padre Santucci toccò in sorte una delle zone maggiormente asservite mentalmente e operativamente alla elaborazione ideologica di quello che era il nuovo corso comunista dell’Albania del centro nord (area a maggioranza schiacciante musulmana dove tuttavia si trovava una piccola “enclave cattolica”, disseminata in modo disomogeneo nel territorio).
Essa – in virtù del forte influsso ricevuto dal contesto circostante, fortemente mussulmano e per essere stata seguita in modo piuttosto sporadico dalla cura pastorale (anche prima dell’avvento del regime comunista) – aveva sviluppato una fisionomia a sé stante, un po’ neopagana e un po’ ottomanizzata, e per certi aspetti differente dal nucleo del cattolicesimo storico albanese con capoluogo la città di Shkoder.
Aggiungo questa nota di carattere sociologico per dare conto delle ulteriori difficoltà con cui ha dovuto misurarsi Padre Santucci, trasformando questa sfida missionaria in una avvincente fonte di gratificazione personale e di attrazione di popolo albanese con l’intento di rigenerarlo a un vero e proprio processo di conversione ai valori autentici della fede e della cultura occidentali.
Gli albanesi sono stati abituati a leggere una parte consistente della loro storia, per colpa dei loro storici del “realismo socialista”, attraverso gli occhi del partito oppure – nelle migliori delle ipotesi – di quelli di alcuni illustri viaggiatori esterni, come Edit Durham, Lord Bayron… i quali, presi particolarmente dalla febbre esotica, descrivevano la realtà albanese con un pathos romantico ineguagliabile, in modo piuttosto orientato alla loro convenienza. Invece, il libro di Padre Santucci – anche nella prospettiva storica – fa un salto di qualità in termini di verità, di adesione alla realtà e di amore difficilmente eguagliabile.
Egli descrive e racconta le implicazioni storiche di un’epoca importante che fece passare l’Albania nella transizione verso la stabilità politica, fornendo dei canoni chiari ai suoi lettori nell’ordine della distinzione tra il realismo della storia e soggettivismo della letteratura passata per “storia” dal sistema comunista e le sue attuali reminiscenze.
Padre Santucci è un gesuita “vecchio stile”, alieno a elucubrazioni astruse circa la fede, concreto e rispettoso di forme fortemente popolari di devozione in Cristo, maturate a livello locale e tuttavia rispettoso riguardo alle altre fedi e convinzioni personali. In lui si nota la sua umile e fiera consapevolezza di avere una precisa identità di sacerdote missionario, venuto a portare in Albania il balsamo del Cristo Risorto per medicare le ferite delle persone e del gregge affidate.
Perciò, fin da subito avverte la necessità di osare e smuovere le acque dell’immobilismo del pensiero, della volontà e della azione, tipiche di una società uscita dal lungo letargo di un regime politico disumano qual era quello albanese. Ai primi tempi, quando si stabilì nella capitale albanese, a Tirana, Padre Santucci si mise in ascolto e in dialogo con tutti: comunisti, anticomunisti, mussulmani, ortodossi e con persone di ogni estrazione sociale.
Le sue osservazioni – messe per iscritto in questo libro – sono una miniera preziosa su cui riflettere e spaziano dalla storia, alla sociologia e all’antropologia, luoghi secondo lui capaci di scandagliare le grandi contraddizioni dell’“uomo nuovo”, il maggior vanto dell’opera del Partito comunista albanese.
Successivamente si stabilisce nelle periferie e lì comincia – senza perder tempo – a ricostruire le vecchie chiese distrutte dalla furia comunista e costruirne altre ex novo; lo fa ricorrendo alla generosità dei suoi amici in Italia, conosciuti e sconosciuti, famosi e umili, tutti accomunati dal desiderio di aiutare il riscatto della Chiesa cattolica albanese e sostenere la riuscita della sua missione.
Lo scambio epistolare confluito nel libro di Padre Ernesto è il cuore pulsante di una testimonianza di una carità operosa, viva e incarnata, immagine di quella che è la nostra fede, fatta di abbandono fiducioso alle sorprese della Provvidenza, puntualmente confermate.
Oltre alla cura sulle ferite causate dalla devastante influenza prodotta dall’“uomo nuovo” comunista, padre Santucci prenderà coscienza della bellezza della fede custodita nel cuore di tanti fedeli, nonostante una densa coperta di ceneri di propaganda e di ricatto continuo e stringente da parte del regime comunista si sia depositata negli anni: e proprio da questa fede semplice e genuina Padre Santucci si lascerà umilmente contagiare, arricchire e confermare.
Leggendo le pagine del libro, non si può non cogliere il legame speciale di Padre Santucci con i suoi fedeli e ogni uomo di buona volontà; relazionandosi così intensamente con il proprio gregge – da autentico pastore – parteciperà alle vicende storiche del nostro popolo con grande empatia e comunione spirituale. Nel terribile anno del 1997, quando l’Albania piombò nella anarchia più assoluta, bisogna ricordare che Padre Santucci non abbandonò il suo popolo mentre tutti gli altri stranieri presenti nel paese lasciarono immediatamente l’Albania, anzi, ne condivise ogni momento difficile fino a rischiare seriamente la vita (voglio qui ricordare un episodio spiacevole raccontato nel presente libro occorsogli a Fushë-Krujë in cui alcuni banditi armati di Kalashnikov lo fecero scendere dalla proprio auto e gliela portarono via, mentre si recava a celebrare la terza Santa Messa domenicale).
Credo che il libro di padre Santucci possa essere di aiuto nella crescita umana e spirituale a molti, ma soprattutto ai sacerdoti e agli aspiranti sacerdoti, poiché sviluppa molti temi della nostra fede senza immolarli sull’altare di una malintesa cultura del dialogo di matrice relativista. Ricordo un passo del libro in cui egli sostiene – a ragion veduta – che bisogna fare “proselitismo costruttivo” e si augura che l’Albania faccia tesoro della sua storia cattolica per riabbracciare la fede dei propri avi, a beneficio del suo prossimo futuro europeo.
A illustrare questo passo che mi sta particolarmente a cuore, cito l’episodio e l’esempio della famiglia musulmana di Tirana che faceva usare ai religiosi il proprio telefono e come segno d’amicizia regalò al gesuita una copia del Corano in lingua albanese con la dedica: “A padre Santucci, che è venuto a portare la vera fede”. Ecco la fede che si impone per attrazione…
Infine, in questo libro troviamo parole toccanti e piene d’amore per la comunità martire cattolica albanese, i loro vescovi e sacerdoti, già elevati alla gloria degli altari, i superstiti martiri ancora non canonizzati, alcuni dei quali Padre Santucci ha conosciuto personalmente e con cui ha collaborato con fraterna amicizia per alcuni anni. Questo libro è un testamento d’amore verso la nostra patria e a padre Ernesto Santucci va la nostra imperitura riconoscenza per quanto ha fatto e seminato in Albania; non è esagerato considerarlo un martire vivente della rinascita della Chiesa Cattolica Albanese.
Buona lettura
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Leggi anche la recensione di Rovena Sakja del libro “Io sono un albanese”
