La differenza di genere è sempre trasversale rispetto a quella di classe e/o di classe. A volte le lotte si intrecciano e coincidono nelle loro traiettorie, altre volte viaggiano su piani paralleli senza nessun punto di contatto. La storia dell’Albania non è diversa da quella degli altri Paesi del mondo. Qui le donne hanno lottato prima, durante e dopo il regime comunista di Enver Hoxha. È stato mio interesse focalizzare l’attenzione su quel periodo storico perché ci si aspetta che un regime marxista levighi e annulli differenze di ordine sociale e di genere: cosa sarebbe, del resto, una rivoluzione senza le donne? E in effetti, come si evince da alcune delle interviste realizzate, molte donne hanno avuto, in quel periodo storico, possibilità di ordine culturale e sociale che erano state un tempo loro negate. Solo per citare alcuni esempi, Vjollca Mecaj proveniva da una famiglia di modeste condizioni sociale eppure, dopo la laurea in giurisprudenza, diviene giudice, lavora nel ministero della cultura ed è membro onorario della corte costituzionale. Aurela Anastasi si occupa di diritto comparato all’università, organizza conferenze e stila leggi che cambiano radicalmente la vita delle donne del suo Paese. Ma, tornate a casa dopo il lavoro nei campi, in miniera o nelle università, le donne si dovevano occupare della cura dei loro cari. I loro padri, mariti e fratelli, seppur militanti rivoluzionari del Partito comunista dei Lavoratori, non avevano certo cancellato con un colpo di spugna la loro oppressiva cultura patriarcale. Stessa cosa dicasi dopo la caduta del regime: alcune innovazioni favorirono le donne, altre le penalizzarono.
L’opinione
In Donne d’Albania. Voci dissidenti contro il regime, pubblicato ad aprile 2023 da Sensibili alle Foglie, Isabella Lorusso, da sempre attenta a tematiche sociali che si riflettono sulle vicissitudini umane e sulla loro evoluzione, raccoglie tredici interviste rivolte a donne che hanno vissuto l’Albania del regime, realizzate tra il 2020 e il 2021.
La Lorusso interroga figure disparate, quasi tutte appartenenti a famiglie che, per le folli decisioni del Partito, sono cadute in disgrazia e di conseguenza sono finite sulla lista nera dei perseguitati. Spesso, come si evince dalle parole delle intervistate e come la storia insegna, non essere più nelle grazie del dittatore significava prigionia o pena capitale.
È una narrazione fatta di dolore quella che anima ognuna di queste interviste, dettata dall’angoscia per essere state donne giudicate, alienate, imprigionate, per aver visto i propri cari perire sotto un’ingiustificata cattiveria, per aver aver assistito alle persecuzioni della propria famiglia nell’arco di decenni. Si fa sorda la sofferenza per aver subito il confino, per aver visto impazzire o internare un proprio caro e soprattutto, per non aver mai avuto giustizia, perché nessuno, finora, ha mai pagato.
Le conversazioni si leggono d’un fiato, sentendo le emozioni che passano attraverso la connaturata empatia della Lorusso e al contempo, la forza data dall’esperienza, dalla conoscenza e dall’urgenza di lasciare una testimonianza. Dal coro di voci emerge un quadro di privazioni, restrizioni, carcere duro e crudeltà. Diana Doci racconta, con lucidità, la storia dei suoi nonni: lui finito in carcere e lei lasciata sola, in piena povertà, una condizione che il regime “garantiva” ai più, oltre all’istruzione e al lavoro, con tutte le limitazioni imposte, che i nostalgici sembrano aver dimenticato.
Le case, i terreni, gli ori, i soldi. Lo Stato voleva tutto. Gli ori erano importanti perché con quelli si commerciava con altri Paesi. Con la Turchia soprattutto. Era una merce di scambio molto preziosa, facile da gestire. A mio nonno chiesero tutto con la forza. Lui si oppose perché quei beni servivano alla sua famiglia. Fu imprigionato e lo fecero morire in carcere sotto tortura. Tolsero a mia nonna la casa. Le tolsero gli ori, le tolsero tutto. La lasciarono da sola con sei figli in mezzo a una strada nella miseria più assoluta. La nonna i suoi figli li ha cresciuti bene, ma con grandi difficoltà. Come se non bastasse la obbligarono a spostarsi da un luogo all’altro. La gente, per loro, doveva perdere tutto. Persino le proprie radici.
Sin da subito si palesa un buon lavoro questo Donne d’Albania, siglato da un’autrice che di interviste ne ha fatte tante, ma che, all’epoca, sapeva molto poco di Albania. La passione, la curiosità, il suo entrare in maniera gentile e con passo felpato in ogni storia hanno dato vita a un volume interessante, dal profilo informativo e divulgativo, che ha come indiscusse protagoniste la voce e la combattività delle donne albanesi.