Isabella Lorusso si laurea in Scienze Politiche a Bologna: ha vissuto e lavorato dividendosi tra Italia, Spagna, Perù, Russia e Regno Unito come insegnante di lingua italiana presso varie università e Istituti di Cultura. Pubblica due libri sulla guerra civile spagnola: Voci dal POUM (Ibiskos Risolo, 2010); Donne contro (CSA, 2013); nonché Senza pelle (Ibiskos Risolo, 2015); Potosì: storia di un viaggio nel sud del mondo (CSA, 2017), e il romanzo La maga (CSA, 2018).
Attualmente vive e lavora in Inghilterra.
È autrice del libro Donne d’Albania. Voci dissidenti contro il regime, pubblicato nel 2023 da Sensibili alle Foglie. Nella seguente intervista, che ci ha gentilmente concesso, Isabella racconta e si racconta. Buona lettura.
Come nasce il tuo desiderio di investigare tra le donne che si sono opposte al regime e dar loro voce attraverso Donne d’Albania?
Anni fa ero in vacanza a Tirana e visitai uno dei bunker situato nel centro della città. Iniziai a leggere la storia di alcune donne che erano state imprigionate, torturate, che erano impazzite o, per meglio dire, che il regime aveva “fatto impazzire”, che erano state “curate” con antidepressivi ed elettroshock, violentate, silenziate in ogni modo.
Ne rimasi sconvolta e chiesi a Edi Dingu, un mio amico albanese, se conoscesse qualche donna che fosse disposta a incontrarmi. A lui venne in mente di contattare Bajame Hoxha Celiku, che aveva vissuto 34 anni in un campo di lavoro e che, caduto il regime, aveva chiesto asilo politico a Brussel. Il caso volle che fosse a Tirana e che fosse disponibile per un’intervista. Quando la incontrai fu lei a rompere il ghiaccio. Mi parlò delle sue giornate perse a spaccare pietre, del suo desiderio di studiare, di imparare le lingue straniere, dell’assurda repressione che viveva in quel campo di lavoro, di tutti i suoi anni spesi a cercare di capire come fosse morto suo padre, dell’incontro con l’uomo che sarebbe poi diventato il padre dei suoi figli.
Mi ero sempre chiesta come potesse essere l’amore in un campo di prigionia, e Bajame mi aveva dato una risposta. Più lei parlava e più mi rendevo conto di non saper nulla della storia dell’Albania. Immaginavo che il regime comunista fosse stato autoritario, ma non avevo idea di come la gente avesse vissuto la sua vita quotidiana. Dopo quell’intervista mi si aprì un mondo e subito dopo mi recai al Museo delle Foglie, quello della sorveglianza segreta di Tirana.
Lì mi venne incontro Etleva Demollari, la direttrice. Parlava bene italiano perché aveva vissuto nel mio Paese. Le chiesi se potevo intervistarla e mi disse di sì. Ero nel luogo adibito al controllo della vita privata di ogni cittadino albanese, durante gli anni del regime. Non potevo più negare a me stessa che quel governo non fosse stato terribilmente antidemocratico. Dovevo continuare la mia ricerca, cercare altre donne. Pian piano vennero fuori altri nomi: Gjergj mi parlò di sua cugina Gjnoveva, un’amica mi parlò di un’altra amica e poi di un’altra ancora.
Alcune donne intervistate vivevano in Italia, altre le contattai via skype. Alla fine, dopo due anni di ricerca, pensai che il mio lavoro poteva definirsi concluso. Di donne ne potevo intervistare altre dieci o altre cento, il succo del discorso l’avevo in qualche modo elaborato.
Su quali parametri hai incentrato la scelta dei nomi di donne da intervistare?
All’inizio dovevo crearmi una mia idea sull’argomento quindi intervistavo donne che, stando io a Tirana, incontravo tramite amici o conoscenti. Poi, pian piano, ho cercato qualche donna che potesse colmare alcune mie lacune. Donne che avevano sempre vissuto in Albania; altre che erano emigrate e poi rientrate e anche donne che avevano deciso di lasciare il loro paese e di vivere altrove. Mi ha molto interessato capire la difficoltà, per molte di loro, di adattarsi a vite e a culture diverse. L’Italia ha un rapporto privilegiato con l’Albania, ma abbiamo peccato e pecchiamo ancora, di razzismo. Nelle interviste, questo emerge. Nessuno è immune da comportamenti che dovrebbe controllare ed elaborare. Il lettore si sente partecipe di una storia che, in un modo o nell’altro, è anche sua. Ho quindi raccolto anche testimonianze che andavano in questo senso.
Parliamo dell’intervista che più ti ha colpita e coinvolta?
È difficile rispondere a questa domanda perché ogni intervista, a modo suo, ha toccato le corde profonde del mio essere. Dopo ogni intervista mi chiedevo «e io, che avrei fatto al posto di questa donna che ha perso la casa, che ha perso i figli, che ha perso tutto?». Difficile dare una risposta. Quando si vive una vita privilegiata, non è facile uscire dalla propria zona di confort. Per rispondere alla tua domanda potrei dire che l’intervista che più mi ha colpita, senza togliere nulla alle altre, è quella realizzata a Barje Artan.
Una donna che è stata messa in un campo di lavoro sin dall’età di sette anni, che ha spaccato pietre, che ha costruito strade, ma che, quando aveva un minuto libero, prendeva un taccuino e una penna e scriveva una poesia. Una donna che, per la sua ribellione al sistema, è stata messa in carcere, in celle d’isolamento quando aveva tredici, sedici, e poi diciannove anni. È stata torturata, umiliata, ha vissuto sulla sua pelle vari elettroshock.
Gli aguzzini non le hanno risparmiato questa brutale pratica neppure quando era incinta. Eppure lei, Barje, non si è mai arresa, non si è mai piegata. Ogni volta che leggevo la sua storia pensavo a quanto sarei stata vigliacca io, al suo posto. Barje fu deportata in luoghi inabitabili, fu separata dall’uomo che amava e…come se non bastasse, le rapirono suo figlio, che poi uccisero. Lei non poteva neanche chiederne la restituzione del corpo. Pena altro carcere, altra tortura, altre minacce di portale via l’altra figlia. “Come si fa a vivere così?” Mi chiedo. Barje ha continuato a leggere, a scrivere, a lottare. La sua storia mi ha davvero sconvolta.
Se poi devo raccontarti di un altro racconto che mi ha commosso, quella è stata l’amicizia, in un campo di lavoro, tra Bajame Hoxha Celeku e Cristina. Il regime, sotto ricompensa, aveva chiesto a Bajame di tradire la sua amica Cristina ma lei non lo fece, pagando, per questo, un prezzo altissimo. Ogni volta che leggevo la loro storia mi veniva da piangere. C’è poi la vicenda legata a Viosa Jakova, donna a cui dedico il libro. Aveva vent’anni e il regime la fece letteralmente impazzire di dolore. Le uccisero il padre, le portarono via il ragazzo che amava. Per “curarla” le praticarono vari elettroshock. Viosa vive ancora a Tirana. Adesso è una donna anziana di cui ho tanto sentito parlare. Vorrei andarla a trovare. Guardarla negli occhi, abbracciarla.
Poi ci sono le vicende descritte da Diana Doci , la traversata in mare, la paura della morte, la brutale accoglienza da parte dei poliziotti, al porto di Brindisi. La storia del nonno a cui il governo di Enver Hoxha aveva confiscato tutti i beni lasciando letteralmente sul lastrico la nonna, con i suoi sei figli. Una storia tragica ma anche piena di tanto coraggio. E poi i racconti di Daniela Belishova, di Kristina Jakova, donne molto legate a personaggi importanti della storia politica albanese.
Com’è il tuo rapporto con l’Albania, dopo questa esperienza?
Sono contenta del fatto che la mia ricerca abbia contribuito a sanare un vuoto culturale su alcuni aspetti della storia albanese e proprio per questo, mi sembra che sia solo l’inizio. Vorrei passare del tempo in Albania, imparare la lingua, capirne di più la cultura. Adesso, quando incontro un albanese per strada, mi sento più empatica. Ascolto quello che dice, mi metto in discussione più volentieri. Per noi, durante l’esodo, gli albanesi erano solo delle persone che avevano un estremo bisogno di aiuto. In un rapporto sano, invece, lo scambio è sempre reciproco.
Se non capiamo questo non possiamo andare da nessuna parte. Il mio rapporto con l’Albania, con gli anni è migliorato, perché ho messo in discussione la mia cultura, le mie radici e mi sono aperta a un mondo altro. Tra le mie migliori amiche, adesso, ci sono delle donne albanesi. E questo credo che non sia un caso.
Chi è Isabella Lorusso?
Da piccola fui terribilmente penalizzata per il mio genere di appartenenza e capii subito che avevo due opzioni: adeguarmi o ribellarmi. Scelsi la seconda strada e divenni una femminista. Una di quelle che lo è a pelle e non perché ha letto dei libri teorici sull’argomento. Tutti i diritti concessi al genere maschile a me, nella Puglia degli anni ’80 e ’90, erano totalmente negati: fare sport, tornare tardi a casa la sera, usare il motorino di famiglia, andare in spiaggia, iscrivermi a una facoltà che fosse fuori-regione.
In questo processo di emancipazione anti-patriarcale fui paradossalmente molto aiutata da mio padre, a cui devo davvero molto. Non fui mai considerata, ai suoi occhi, il “sesso inutile”, come direbbe la Fallaci, o il “secondo sesso”, come sosterrebbe la Beauvoir. Lui mi spinse ad andare verso il mondo e io, pagando un prezzo molto alto, ci andai. Poi il femminismo, quello teorico, l’ho studiato al liceo e all’università ma, i concetti chiave, li avevo chiari da sempre.
Ho avuto anche la fortuna di avere una fantastica insegnante delle scuole elementari, Germana Quartulli. Un’attivista comunista e femminista che, dandomi i giusti strumenti culturali, mi ha permesso di affrontare a testa alta le difficoltà della vita. Quella straordinaria donna parlava alla sua classe del colpo di Stato in Cile e in Argentina, del divorzio, dell’autodeterminazione delle donne, della lotta dei partigiani italiani. Poi ancora della rivoluzione russa, francese e cinese. A dieci anni, grazie a lei, avevo un bagaglio culturale impressionante. Quando a quarant’anni andai a vivere in America Latina, mi sembrava, in qualche modo, di esserci già stata. Era un déjà-vu che avevo mentalizzato quando non ero più alta del comodino di casa.
Hai poi studiato Scienze Politiche…
Sì mi iscrissi a Bologna e fu un’esperienza meravigliosa. Terminai i miei studi a Barcellona, intervistando uomini e donne che avevano partecipato alla guerra civile spagnola. Iniziai ad appassionarmi alla storia orale e, da allora, non ho mai smesso. Il libro di storia orale sulle donne anarchiche e comuniste spagnole è stato tradotto in quattro lingue ed è stato pubblicato con la prefazione del cineasta inglese Ken Loach. Adesso sto terminando un libro di storia orale del movimento delle donne in Dorset, regione inglese nella quale vivo.
Perché ti interessa così tanto questo tema?
Le donne sono state sempre un po’ dimenticate dalla Storia, quella con la “S” maiuscola. È nostro compito adesso, con le capacità e gli strumenti che abbiamo, di ridare loro ciò che si meritano. Per appassionarsi alla storia orale, poi, occorre essere molto empatici. Mettersi nei “panni degli altri”, cercare di capire e di ascoltare in una maniera non-giudicante. Non è cosa semplice ma è un processo molto affasciante. Non è lo storico che “tira le conclusioni” ma è lo stesso lettore che, immedesimandosi nel racconto, si fa una propria idea dell’accaduto. Quando una persona parla della sua vita tu, lettore, non puoi più dire che le cose sono andate diversamente. I toni si abbassano e il rapporto, da verticale, diviene orizzontale. L’unico possibile per un’autentica comunicazione empatica. Le donne, in questo, sono straordinarie. È per questo che mi appassiona tanto la storia orale delle donne.