L’eco del pargolo e L’inquilino nel cuore sono due poesie di Gentiana Minga tratte dalla sezione L’eco del pargolo del libro Tempi che sono…
Il volume, articolato in quattro sezioni ( Ad Anthony, Il camino degli autoctoni/ Der Gang der Autochthonen, L’eco del pargolo, “ Tempi che sono…/Zeiten wie…) contiene, oltre ai testi in italiano, la traduzione in albanese e in tedesco, con la trasposizione a opera di Werner Menapace, traduttore e autore sudtirolese, e di Ilir Ferra, autore e traduttore albanese.
L’eco del pargolo
Digli a chi ricorda tutt’oggi i miei lembi dei pantaloni
di terilene e rappezzati,
la testa rasata estiva, gli occhi impudenti,
salire le scale screpolate,
oppure a lato del campo sportivo
comprare i semi dalla mamma di Çimi
che su sgabello seduta di sbieco
sorrideva sdentata, le guance ombrate dal berretto
l’imperatrice dei borghi marini
digli che cammino ancora distorta,
con la forza del mio cammino,
patetico, ebbro, a pause vitali.
A chi mi crede con mani smilze e giallastre,
pelle sottile e il naso arrossato,
digli che sto trangugiando il traffico dei cicli vitali
sacri quanto la goccia dentro la fontana
l’uccello dentro lo stormo,
per sfiorare di nuovo l’eden, il mio eden della membrana.
Una contrazione questa. Pare un galoppare balordo,
ma è scolo benigno.
Digli pure, lo stesso non mi fido
di me e del prossimo.
Che ci adeguiamo a metà, con un pizzico di rancore verdognolo
da camaleonte placido. Nero da camaleonte morto.
Repentino quanto il lasso di tempo
dalla lingua alla preda che imbocca. Cadenzato.
Trottare da burattino impacciato, con la testa in avanti
sul viale con i pioppi floridi,
era da perdenti.
Tuttavia, digli che mi illudo che io sia
l’alternativa della Pasqua.
Se sono nata in primavera può darsi che sia morta in primavera,
come i tanti, si presume, a cerchio chiuso.
Digli a chi mi rievoca con capelli fini e sciupati,
e il corpo malsano
che dovetti combattere nel ventre
per uscirne intera
con gli occhi spalancati di chi ha visto tutto,
quel tutto che può catturare l’occhio pargolo,
o dell’aquila che ha dominato i prati,
e fu scelta per nascere polline.
L’inquilino nel cuore
L’ora che ti alzi dalla stanza angusta
quando nude e calde esalano le voci nostre.
D’un colpo deste e d’un colpo appetitose. Appuntite
dalla voglia di farci male. Appena un po’.
Come il morso del cane fedele.
Bianco in veste biancastra
evadi con la spalla sinistra dolente.
Un tempo seguivi i miei passi
quando andavo fuori di te.
Che m’incamminavo lungo il viale pieno di limacce
e rischiavo di scivolare
vicino ai due frati
che s’incontrano a fianco del gelso,
largo quanto una caverna.
Mi inviavi dei segnali
prima che cominciassero i piovaschi.
Sai che detesto portare con me l’ombrello.
Mi carica addosso l’ansia del bravo Guglielmo
il destino della mela. L’equilibrio perfetto e la freccia.
Temo colui che mi chiederà di mirare te
con il suo binocolo dentro di me.
Colpirei, inabile, l’inquilino nel cuore,
che scende dalla torre di sangue,
lasciandola incustodita,
per giacere con me.