Darien Levani (Fratar 1982), scrittore italofono, è un avvocato che vive e lavora a Ferrara. Già autore di romanzi premiati in Albania, la sua terra di origine, in Italia si è aggiudicato i Premi «Nuto Revelli» e «Pietro Conti».
Nel 2017, con il romanzo Toringrad, pubblicato da Edizioni Spartaco, ha vinto il Premio «Glauco Felici» Tolfa Gialli e Noir . Nel 2019 è stato insignito, dal governo albanese, del titolo Ambasador i Kombit (Ambasciatore della Nazione) per i suoi meriti letterari. È tra i fondatori del giornale Albania News.
Ho incontrato Darien in occasione della sua partecipazione al Salone del libro di Torino 2023, dove ha presentato i suoi due libri Tavolo numero sette e Toringrad.
Quale messaggio vuoi trasmettere attraverso i tuoi libri, a prescindere dalla tematica che trattano?
Sostanzialmente cerco di fare una cosa, (spinto anche da motivi professionali), che può sembrare elementare, ma che in realtà è un concetto difficilissimo da individuare e poi da trasmettere: provo a scrivere un libro autentico, animato da una storia autentica. Se poi ci riesca o meno, non lo so e comunque questo è un altro discorso. Però c’è la volontà di trovare qualcosa che sia originale; insorge la necessità di scrivere un testo che permetta una lettura godibile, trasmettendo qualcosa, in quanto sono fortemente convinto che il libro abbia una funzione sociale.
Quindi hai fiducia nella sua funzione divulgativa e informativa?
Assolutamente sì. Io sono cresciuto, come una buona fetta di scrittori e di intere generazioni, a pane, acqua e letteratura socialista, dove la maggior parte degli scrittori era spazzatura, ma tra questi vi erano autori validi, di sinistra, che nei loro romanzi di successo riuscivano a dare sempre una visione della società e del mondo, come un luogo da cambiare, colmo di ingiustizie da denunciare. In realtà, ho fatto poi un mio percorso personale, ripudiando in parte questa letteratura, nella sua manifestazione propagandistica, ma qualcosa mi è rimasto.
Tu sei uno degli autori italofoni più apprezzati in Italia. Mi interessa sapere una tua opinione sull’italofonia albanese.
È una questione molto complessa, perché ha a che fare con l’immigrazione, con le scelte di vita, quelle letterarie e con le fatiche personali. Penso che la cosiddetta letteratura migrante sia stata da un lato, per diversi autori, quasi una prigione. Tu sei albanese, nigeriano o di altra nazionalità, hai quell’esperienza, quel dolore e scrivi su quella cosa, che sostanzialmente vendi e questo va anche bene, perché è importante per una società avere diverse voci, comprese quelle degli ultimi.
Esiste, secondo me, un problema, motivo per cui mi sono allontanato da questo tipo di letteratura, che è dato dal nascere, vivere e morire come autore dentro il recinto del cosiddetto “migrante”. È un dato di fatto che quando diversi autori albanesi hanno iniziato a scrivere di tematiche differenti, parlando di società nel suo complesso, hanno avuto un riscontro inferiore o addirittura non ne hanno avuto.
Dunque è una letteratura che a me piace, che leggo volentieri e che ha avuto una sua funzione in un determinato periodo, ma che oggi ritengo essere superata, perché si fa urgente il passaggio al prossimo step. Questa è una scelta che ho già fatto, perché mi annoio quando scrivo sempre sulle stesse cose: ho bisogno di nuove sfide, cosa che mi piacerebbe facessero anche tanti altri colleghi. Purtroppo non ne vedo molti, ma spero che prima o poi si risvegli la coscienza collettiva in merito a una trappola dalla quale scappare a gambe levate.
Hai scritto sia libri sull’integrazione, che sull’immigrazione e anche thriller: a quale genere letterario ti senti più vicino?
Sono diverse le motivazioni che ultimamente mi portano a concentrarmi sul noir, sul thriller o legal thriller: è un genere che amo leggere, ma non mi sento particolarmente collocato o collocabile in esso. Mi interessa perché rispetto ad altro ti da la possibilità, attraverso il crimine, che rappresenta pur sempre uno strappo nella società, di indagare e di scavare a fondo. Ogni malfatto che accade non avviene mai per caso: o si verifica all’interno di un percorso molto doloroso o al culmine di esso. Mi interessa, quindi, il crimine anche come chiave di lettura del mondo; detto questo, il prossimo libro può essere storico o di poesie, perché non mi sento di essere collocato nella letteratura gialla.
Le cose, negli ultimi anni, sia per la scrittura che per la lettura sono cambiate: in tanti scrivono e in pochi leggono. Mi interessa una tua riflessione sulla letteratura odierna, non necessariamente albanese.
Su questo punto ho una visione decisamente più positiva: ritengo che sia una cosa buona il fatto che ci siano più scrittori. Che ben vengano le persone che, bene o male, prendono una penna, elaborano i loro pensieri e li mettono nero su bianco; la considero solo una cosa positiva. Comprendo che si debba considerare il valore degli scritti, ma è un discorso secondario. Sono del parere che debba essere apprezzata la funzione di esercizio terapeutico che ha la scrittura e non so se veramente ci siano meno lettori, perché io vedo che gli scrittori continuano a scrivere libri e molti sono ottimi autori.
Ovviamente parliamo di una fase di transizione; siamo usciti da un mondo dalla forte ideologia degli anni Novanta per addentrarci in un’epoca in cui tutto quello che c’era è assente. Oggi trovare uno scrittore importante, che lasci il segno nella società, è abbastanza difficile, perché il mondo è cambiato.
Ora dico una cosa che potrà apparire brutale: anche se il prodotto libro un giorno non esistesse più, forse non sarebbe questa grande tragedia. Noi leggiamo i libri per le storie che le animano, che possono essere raccontate in mille modi, dal vecchietto che raccoglie gente intorno al fuoco a Netflix, e tutto quello che c’è di mezzo, racconti, fiabe, storie, leggende, va benissimo perché non va confuso il mezzo con il messaggio. Amo i libri, spero abbiano vita lunga, ma spero che l’atto di narrare ce l’abbia ancora più lunga.
Da quanto tempo sei in Italia?
Da 23 anni
Come guardi all’Albania dall’Italia, sia come uomo che come scrittore?
Quando torno in Albania dopo un paio di mesi in cui ci sono stato, dico: “Qui è cambiato tutto“. Quando ci torno dopo anni, dico: “Qui non è cambiato niente”. L’Albania, purtroppo per la prima volta nella sua storia, ha intrapreso un percorso in cui è davvero sola, perché non ha grandi partner, non ha linee guida, non ha niente, se non poche persone che cercano di capire quale sia il loro compito nel mondo.
In tutta questa situazione, il Paese ha perso il treno degli anni Novanta, che gli avrebbe permesso di stabilire una democrazia, un’industria ecc. e quindi arranca. Detto questo, il problema principale che vedo in Albania è l’istruzione, nel senso che non riusciamo più a spiegare ai nostri giovani, così come ai nostri adulti, quale sia il nostro ruolo, cos’è l’Europa, cos’è la Comunità Europea, cosa siano i visti, cos’è la democrazia, cosa bisogna fare. Si tratta di cose elementari, ma noi abbiamo un’indole aggressiva, vogliamo arrivare subito al dunque e ci accorgiamo, strada facendo, che ci mancano le basi, ci manca l’alfabeto.
Nella tua formazione letteraria è esistito uno scrittore che ha contato particolarmente?
Sono stati tantissimi. Per me letteratura significa inglobare tutto quello che si riesce ad assorbire, per poi passare nei libri quello che più ti sembra valido. Quindi tendo ad assorbire il pensiero di un valido scrittore, allo stesso modo di come ho assimilato lo slogan che ho visto sui muri dell’Albania socialista quando ero piccolo, che mi ha profondamente segnato.
Posso fare mio quello che mi trasmette uno scacchista albanese, che con la sua apertura di scacchi mi fa capire che persona è, oppure un musicista. Tutto questo mi ha influenzato. Se devo considerare un autore albanese in particolare, posso parlare di colui che ritengo il massimo esponente sia della letteratura che dell’umanità albanese ed è Mitrush Kuteli un autore, una persona straordinaria, che mi ha insegnato cosa significa essere scrittore albanese in Albania.
Penso che l’opera più bella mai scritta in lingua albanese, che dovrebbe essere letta da tutti in Albania, è il testamento che Kuteli lascia alla sua famiglia. Questo significa essere albanesi e avere una statura morale umana ineguagliabile.