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Intervista a Erion Gjatolli. “Tradurre significa entrare nella testa di chi scrive”

Anna Lattanzi Anna Lattanzi
21 Dicembre 2022
Erion Gjatolli Traduttore Albanese

Erion Gjatolli

Erion Gjatolli nasce a Tirana nel 1983 e qui nel 2004, si laurea in Lingua italiana. Nel 2012 consegue un Master in Studi Culturali Globali presso l’Università Jean Moulin Lyon III di Lione. Dal 2005 si occupa di analisi politica e dei media per diverse organizzazioni a Tirana.

E’ stato docente di lingua italiana presso la Facoltà di Lingue dell’Università di Tirana e l’Istituto Italiano di Cultura e attualmente collabora con diversi editori in Albania, per i quali ha tradotto in lingua albanese alcune opere di Alberto Moravia, Daniele Del Giudice, Paulo Coelho, Corrado Augias, Giulia Besa e Nicola Lagioia.

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Ho incontrato Erion sia in occasione della Fiera del libro di Tirana, che durante il Convegno “L’albanese in Diaspora”, organizzato dal Centro Editoriale per la Diaspora in Albania. Buona lettura.

Chi è Erion Gjatolli? Mi interessa sapere il tuo percorso di studi e le motivazioni che ti hanno portato verso l’interpretariato. 

Oggi mi occupo di analisi politica e dei media a Tirana, ma ai tempi dell’università non avevo ancora capito cosa volessi fare da grande. Decisi quindi di studiare lingue, perché mi sembrava di essere portato. Durante la preparazione della tesi di laurea, azzardai una traduzione di alcuni passaggi di Quel pasticciaccio brutto di via Merulana, il romanzo di Carlo Emilio Gadda e il risultato mi tenne lontano dalle sudate carte per molti anni.

Nonostante questo, l’idea di conciliare la passione per la lettura con lo studio delle lingue mi ha sempre affascinato. Inoltre, come disse David Foster Wallace, la letteratura è un grande antidoto contro la solitudine. La traduzione, essendo un processo molto più intimo, lo è ancora di più, motivo per cui entrambe diventano compagne d’eccezione.

Gli incontri sono fondamentali nel nostro cammino di vita. Nella tua esistenza, c’è stato qualcuno in particolare che ti ha trasmesso la passione per quello che fai oggi?

Devo molto a tutte le persone che ho incontrato nella mia vita, anche se riconosco come mia prima e grande maestra la professoressa Orietta Di Bucci Felicetti, già lettrice di italiano presso l’Università di Tirana.

Mi rendo conto che dire “maestra” può suonare strano: quando sentiamo la parola “maestro” pensiamo, per esempio, a un grande professionista del cinema, mentre siamo abituati ad associare il termine “maestra” all’insegnante di scuola. Purtroppo, siamo abituati a declinare al maschile il prestigio e al femminile la detrazione.

Per me, la professoressa Di Bucci è stata una maestra di vita, oltre l’insegnamento stesso. Posso affermare che grazie a lei ho imparato a stare al mondo e sono certo che se non avessi avuto quella esperienza formativa, dentro e fuori l’aula, non sarei diventato quello che sono.

Quali sono i principali autori che hai tradotto fino a oggi?

Ho avuto il privilegio di debuttare con la traduzione de La Noia di Alberto Moravia, alla quale ho dedicato un numero spropositato di riletture e revisioni, una necessità dettata dall’ansia, direi, più che dalla dedizione e dalla cura del dettaglio.

In seguito, mi sono confrontato con l’opera di Daniele Del Giudice, con la fortuna di avere tra le mani l’ultimo romanzo privo delle acrobazie linguistiche, per cui l’autore sarà sempre ricordato.

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In riferimento agli impegni più recenti, penso al faticoso lavoro fatto sul libro La ferocia di Nicola Lagioa, uno scrittore lento, per sua stessa definizione, ma con una cura estrema della lingua, dalla scelta delle parole all’attenzione posta nei confronti della punteggiatura. Un lavoro di scrittura quasi “artigianale”, in cui è la lingua a essere protagonista e che ha richiesto molta dedizione e pazienza.

Infine, Febbre di Jonathan Bazzi mi ha dato la possibilità, sia in eventi pubblici che in ambienti scolastici, di parlare e affrontare tematiche ritenute “scomode”, come la sessualità, la malattia, la fragilità e l’invisibilità sociale.

Secondo te, quali sono i canoni da rispettare per operare una buona traduzione?

Per me, tradurre significa innanzitutto comprendere, farsi spazio nella testa e nelle intenzioni dello scrittore, capire la scelta del lessico, dello stile, della costruzione delle frasi.

Ritengo fondamentale riuscire a trasmettere i giusti concetti contenuti nel testo e ricostruire, attraverso l’ordine delle parole, il sentimento e la condizione umana. Per quello che mi riguarda, tradurre significa, per esempio, capire le motivazioni per le quali un autore come Lagioia torni continuamente sul testo per riscriverlo o perché Bazzi, che nasce come filosofo, scelga di adottare uno stile molto colloquiale.

Consiglio la lettura dei libri di Alessandro Leogrande, uno scrittore che cito appena posso. Nel suo ultimo strepitoso romanzo, La frontiera, invita i suoi lettori a viaggiare, conoscere e informarsi per mettersi nei panni degli altri.

“La terra e il cielo di prima non ci sono più laddove un nuovo cielo e una nuova terra si stagliano davanti ai loro discorsi […]La frontiera corre sempre nel mezzo. Di qua c’è il mondo di prima. Di là c’è quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai.”

Riporto questo passaggio perché, come ho già accennato, quando traduco cerco di conoscere e di entrare nella testa di chi scrive. Sono convinto che la traduzione risieda proprio lì, nel confine tra il testo originale e la sua trasposizione nell’altra lingua. In quello spazio ci giochiamo il risultato del nostro lavoro, senza avere la certezza che arriverà dall’altra parte in tutta la sua interezza.

Due domande di rito: è vero che tradurre significa tradire? Cosa lasci di tuo nella trasposizione di un testo?

Credo sia stato Ian McEwan a chiedere di porre particolare attenzione alle riletture. Qualcosa che ci ha fatto ridere tempo fa, per esempio, oggi potrebbe causarci un’emozione molto diversa. Un concetto valido anche per l’opera di trasposizione, oserei dire, in maniera ancora più rilevante.

Il tempo che riesco a dedicare alle traduzioni è limitato, avendo un impiego a tempo pieno; per questo motivo mi capita di rileggere dopo diversi mesi il lavoro svolto e spesso mi ritrovo a mettere in discussione le scelte fatte precedentemente. Questo accade perché, con il passare del tempo, cambia anche il modo in cui si legge e si traduce.

Condivido l’idea di coloro che vedono nella traduzione una sfida, che consiste nel non aggiungere e non togliere nulla al testo. In verità, sono altrettanto convinto, che chi traduce lascia sempre un residuo; per quanto ci si sforzi di rimanere invisibili, bisogna ammettere che abbiamo ormai perso la sfida con la fedeltà. Qualcosa di personale rimane sempre, senza dimenticare che la traduzione è plurima per natura e non è mai una sola.

Personalmente, provo a resistere alla tentazione di dimostrare quello che saprei fare con la lingua, sforzandomi di mantenere il ritmo dettato dall’autore, anche a costo di piccole imprecisioni.

Tuttavia, si è aperto un vivace dibattito sulla fluidità di alcune traduzioni albanesi a opera di traduttori definiti “intoccabili”, che avrebbero addirittura superato l’autore, a volte, privilegiando la fluidità del testo alla fedeltà. Non credo che la scorrevolezza dei contenuti debba prevalere sulla fedeltà all’originale.

Vorresti andare via dall’Albania? Se sì, perché?

Rispondo subito di sì, forse con un certo imbarazzo nell’affermarlo su queste pagine, che si rivolgono prevalentemente agli albanesi d’Italia. A causa della politica da social media e a una narrazione sull’Albania non sempre approfondita ed esaustiva, gli albanesi all’estero spesso tendono a celebrare la “Patria”, pur non avendo intenzione di tornarci a vivere.

Molte delle persone rimaste qui invece, e soprattutto i giovani, non credono più al cambiamento, vivendo nella convinzione che troppo poco sia realmente cambiato dagli anni delle ondate migratorie.

L’emigrazione degli albanesi è sempre un fatto attuale e l’ambizione di rifarsi una vita all’estero non rappresenta certo una novità. Qualche anno fa, vivevamo nell’illusione che il fenomeno fosse per lo meno differente e che i barconi diretti verso le coste pugliesi fossero stati sostituiti dagli aerei , senza più restrizioni di viaggio nell’area Schengen.

La triste realtà di quest’ultimo anno, con le imbarcazioni clandestine che raggiungono regolarmente il Regno Unito attraverso La Manica, rivela che abbiamo compiuto l’ennesimo passo indietro.

A me sembra che lo sviluppo economico e sociale dell’Albania non vada di pari passo con il lustro delle gallerie fotografiche sventolate dai politici sui social e che lo spopolamento continui, trainato proprio dai giovani. L’ultimo censimento effettuato nel nostro Paese risale al 2011: sembra che oggi nessuno sia interessato a contare chi è rimasto.

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