Il 15 maggio 2013, si è tenuta alla Fiera del Libro di Torino la presentazione dell’opera d’esordio dello scrittore albanese Anthony J. Latiffi, “Lo yàtaghan”.
L’opera era stata recensita positivamente due settimane prima dal prestigioso “Il Sole 24 Ore”, e abbiamo chiesto all’autore di esprimere le sue impressioni sulla Fiera e su questo particolare momento, oltre che di parlare di sé e dei suoi progetti futuri.

Allora, com’è andata?
Tanta ansia, prima. Va beh che non avevo niente da perdere, ma temevo che non venisse nessuno o quasi. Avevo fatto un po’ di conti: di venerdì viene poca gente, alla stessa ora c’è un’altra dozzina di appuntamenti, fra cui Alberto Bevilacqua, Cesare Cremonini, il laboratorio per gli aspiranti scrittori…
Invece?
Invece quando ho preso posto al mio stand i posti a sedere erano tutti occupati, e ogni tanto si fermava a sostare qualche visitatore incuriosito.
Emozionato?
Naturale. Quando ti presenti a delle persone sconosciute non sai mai se stai passando per presuntuoso, o per uno che non è all’altezza della situazione. In teoria bisognerebbe stare in bilico fra questi due estremi, ma in pratica è difficile riuscirci sempre. E comunque non mi è riuscito di evitare una piccola gaffe…
Quale?
Finita la presentazione, alcuni dei presenti mi hanno chiesto di firmare una copia del libro. Non mi ero portato dietro neanche una penna e ho dovuto farmela prestare dalla relatrice. Imperdonabile. Se ci sarà una prossima volta, me ne ricorderò.
Sei riuscito a presentare il libro come volevi?
Tutto sommato direi di sì, ma il merito è della relatrice, Rosella Santoro, che ha una lunga esperienza di presentazioni letterarie.
Una domanda su tutte?
Quando mi hanno chiesto di definire il concetto di vendetta, che è poi il filo conduttore del romanzo. Per me è quella molla di rivincita che scatta dentro a ogni essere umano nel momento in cui subisce una grave ingiustizia.
Che è il caso dell’albanese Mark Barleti, il protagonista del tuo romanzo…
Proprio così.
La tua tecnica somiglia poco a quella in voga… Qualcuno l’ha definita agile, concreta e con una certa impostazione cinematografica.
Non saprei giudicarla in prima persona. Posso solo dire che non è una tecnica concepita a tavolino, quando scrivo do semplicemente retta alla mia ispirazione. E poi non sono un divoratore di gialli, in fondo non ne leggo moltissimi. I classici piuttosto non mi stancano mai e c’è sempre qualcosa da imparare.
A chi ti ispiri allora?
Ispirarmi non è la parola esatta. Diciamo che dopo aver riletto il libro, mi sono accorto dell’influenza di certe letture.
Quali?
Per quanto riguarda l’intensità della storia, ai russi. Tolstoj, Dostoevskij, Gorkij, Pasternak, sono i miei prediletti. Per la struttura narrativa, invece, mi vengono in mente i nomi di Follett, Connelly, Patterson, Harris…
Nessuno della tua terra?
Come no. Mi appassiona la scrittura di Dritëro Agolli, quella di Sabri Godo e di Migjeni. E un tempo a catturarmi completamente erano i thriller di Neshat Tozaj.
A proposito di thriller, “Lo yàtaghan” appartiene a un genere che gli assomiglia, il noir…
Come ho già detto, nello scrivere “Lo yàtaghan” (Besa Muci Editore, 2013) ho seguito soltanto la mia ispirazione, poi sono venuto a sapere dagli addetti ai lavori che si tratta di un noir anziché di un thriller. Buono a sapersi, mi sono detto.
Altri noir in cantiere?
Ho pronti gli altri due romanzi che completano la trilogia de “Lo yàtaghan”, di entrambi ho messo un ‘assaggio’ sul mio sito ajlatiffi. com. Adesso sto lavorando a un altro che sarà consegnato al mio editore ai primi di giugno. A dire il vero l’ho finito da tempo, però adesso sento il peso della responsabilità e voglio che sia al massimo.
In conclusione?
Finalmente stanno arrivando le prime soddisfazioni, ma mi fa un effetto strano: anche se a ben pensarci è proprio per questo che ho lavorato finora. Mi viene in mente l’anno scorso quando ero venuto qui in Fiera come visitatore, non avrei mai pensato di ritornarci l’anno dopo da invitato

Come ti definiresti adesso?
Uno che ama leggere e a cui piace raccontare delle storie, non mi sento ancora uno scrittore. Questa relativa notorietà è piacevole, ma mi piace tenere i piedi per terra: mi è stato insegnato che su un libro l’ultima parola spetta al lettore.