Il carcere duro, la fame, la sofferenza e la poesia, sua croce e delizia. Oggi, Visar Zhiti è un poeta, scrittore e intellettuale tra i più apprezzati in Albania, che ha ricevuto i giusti riconoscimenti anche all’estero. La sua produzione letteraria è pregna dei patimenti suoi e dei compagni di prigionia, vissuti a causa dei soprusi operati dal regime di Enver Hoxha. I suoi versi danno voce, anche, al periodo della post dittatura fino a oggi. Sono diversi i volumi di Zhiti tradotti in italiano: in questi giorni, la casa editrice Besa Muci ha pubblicato Sulle strade dell’inferno. La mia vita nel carcere di Spaç, per la traduzione del Prof. Matteo Mandalà. Partendo dal libro, si apre un interessante confronto con lo scrittore. Buona lettura.
Intervista a Visar Zhiti
Sulle strade dell’inferno. La mia vita nel carcere di Spaç, così si intitola la tua ultima pubblicazione italiana. Perché decidi di scrivere questo libro?
Innanzitutto, voglio ringraziare Albania Letteraria per questa intervista. Il volume è nato quando io ormai ero fuori dal carcere e il regime non era più al governo. Per ovvie ragioni, non avrei potuto pubblicarlo prima. Sono due i motivi per i quali ho pensato di scriverlo: il primo, per “ricordare”. Come diceva il poeta Mario Luzi, noi siamo quello che ricordiamo: così, ho voluto parlare del c’era una volta e (non) del domani. Quindi, scrivendo questi fatti, ho rivissuto emozionalmente quel periodo e l’ho fatto raccontando la verità ed è questa la seconda motivazione: ho voluto descrivere tutto quello che abbiamo sofferto. Il volume porta la mia firma, ma il protagonista non sono io, bensì i miei compagni di prigione. È un libro corale, fatto di dolore e sofferenza.
In quel periodo sei stato processato e condannato a dieci anni di carcere.
Sì, sono stato condannato per le mie poesie. Ero un giovane che aveva inviato alla casa editrice Naim Frashëri, l’unica esistente e autorizzata dal governo, una raccolta di poesie intitolata Rapsodia della vita delle rose. All’epoca, il dittatore Enver Hoxha, parlava pubblicamente di letteratura e delle possibilità concesse agli scrittori, che dovevano, necessariamente, essere al servizio del regime. I miei componimenti sono stati visionati e definiti tristi, con un linguaggio simile a quello di Esopo, ricco di metafore e per questo, contrario al regime. Sono stato accusato di aver fatto propaganda contro la dittatura, ma non avevo mai diffuso le mie poesie, come si fa con i trattati di guerra: hanno identificato i miei versi come “ostili” al realismo socialista e al leader del governo. Così, quando avevo ventisei anni, mi hanno arrestato e sottoposto a un interrogatorio assurdo, aggressivo e difficile. Mi svegliavano puntualmente di notte per portarmi dagli inquirenti, che mi rivolgevano domande incredibili, urlandomi contro. L’accusa è stata formalizzata e così mi hanno processato, senza un avvocato difensore, in quanto figura proibita in Albania, perché considerata appartenente alla società capitalista e borghese. Inoltre, il partito aveva pieno potere decisionale, quindi avere un legale risultava inutile. Sono stato condannato a dieci anni di carcere: dopo, non ho più avuto diritto né di pubblicare, né di insegnare, (io ero insegnante all’epoca dei fatti) e nemmeno di votare.
Quelle poesie erano davvero contro il regime? Con quale spirito le hai scritte?
Ho scritto con l’animo del poeta e non certo spinto da ideologie politiche; come ha detto il grande Umberto Eco, i regimi totalitari volevano la poesia e i poeti al loro servizio. Se i loro componimenti non risultavano a favore della dittatura, venivano considerati contro e mai semplice frutto di artisti che scrivevano poesie. E qui, Eco mi ha citato, scrivendo: “Proprio come è successo a Visar Zhiti, che ha inviato un libro di poesie e quando il regime ha letto i versi dedicati alle rose e non al potere, ha giudicato i suoi componimenti contrari alla dittatura”. I miei erano scritti che narravano in modo umano di libertà. Ricordo, in particolare, una poesia che portava il titolo La democrazia nella natura, dove scrivevo, che nel mondo naturale esiste una democrazia straordinaria, perché le rose non sono contro gli ulivi, gli uccelli non sono contro i cani e avremmo dovuto imparare da essa. Non dimenticherò mai l’interrogatorio su questi versi, che secondo la censura, nulla c’entravano con la democrazia socialista: ai loro occhi, erano troppo borghesi. Questa era la logica con cui distruggevano la vita degli intellettuali.
In Sulle strade per l’Inferno, tu narri della sofferenza dei tuoi compagni e in alcuni casi della loro morte.
Attraverso le mie opere, ho parlato tanto di quegli uomini e del loro dolore, che è anche il mio. La mia vita è la loro. Ho voluto essere portavoce delle loro parole, ho voluto rendere noti gli atti che hanno portato alla mia condanna, firmati dagli addetti al Ministero della Difesa e siglati da me.
Per chi, come me, ha avuto la fortuna di non conoscere il regime totalitario, risulta difficile immaginare i pensieri di chi ha vissuto tutto questo. Sembra di impazzire. Cosa ti passava per la testa?
Abbiamo vissuto per anni circondati dal filo spinato, in due palazzi pieni di prigionieri, dove vi erano stanze di grandezza normale, in cui venivano stipate circa cinquanta persone. Dormivamo su una sorta di letti a castello e l’ultimo, quello posizionato in alto, era praticamente attaccato al soffitto. Avevamo solo la paglia, non certo un materasso e mi sembrava di dormire in una tomba, tanto era attaccato alla volta. Era difficilissimo anche vestirsi; insomma, non era un vivere, noi respiravamo e basta.
Lavoravamo come schiavi nelle miniere primitive, su tre turni, notte compresa. Non c’era luce in quei posti, i piedi nudi sanguinavano, spingevamo i carretti pieni di minerali, lavoravamo con le vanghe e i picconi, non esisteva né sabato, né domenica. Facevamo la fila per tutto, anche per lavarci e mangiare: leggere era quasi proibito, o meglio, si poteva fare solo con i libri approvati dal regime. Avevamo il diritto di scrivere due lettere al mese, indirizzate alle nostre famiglie, lunghe non più di due pagine di quaderno; dovevamo consegnarle con la busta aperta, perché gli addetti dovevano leggerle per un’eventuale censura. Anche le missive che ricevevamo, ci venivano date con la busta aperta e il francobollo era sempre sollevato, per timore che qualcuno avesse scritto qualcosa sotto. Per me e gli altri come me, rappresentava una ghiotta occasione, in quanto, facendo finta di scrivere lettere, scrivevamo poesie, che nascondevamo nei giacigli e nei sacchi del cibo. Erano versi che avevamo prima scritto mentalmente, imparandoli a memoria, mentre lavoravamo, o eravamo in cella. Abbiamo faticato e sofferto molto, sia per scrivere, che per custodire i nostri fogli. Bisognava stare molto attenti, in quanto, in diversi sono stati condannati nuovamente o addirittura fucilati, per aver nascosto le poesie.
A quel tempo, pensavo di scrivere per lasciare una testimonianza; dopo, ho compreso che le motivazioni erano ben più profonde, più magiche e quasi di ispirazione divina. Scrivendo, abbiamo voluto creare la nostra libertà, perché quando scrivi sei nella tua libertà e sei uguale a tutti gli altri scrittori, quelli che sono a Roma, a Parigi, a Mosca, a Washington ecc. Per questo motivo, il regime proibiva la poesia, perché in quel momento, tu sei libero di esprimere le tue emozioni e la tua creatività.
Tu sei credente; non hai mai perso la fede?
Sono entrato in carcere senza sapere niente di religione e di Dio. Appartengo alla generazione di quando l’Albania era il primo e unico Paese ateista. Le religioni erano inesistenti, come gli stessi luoghi di culto, trasformati in magazzini adibiti alle armi e alle esercitazioni, o a palazzi dello sport, o trasformati in cinema. Quando sono stato arrestato, ho conosciuto alcuni preti finiti in prigione solo perché tali. L’icona che mi ha dato maggiormente forza è stata l’immagine del Cristo; anche lui è stato in prigione, anche lui ha sofferto. La poesia, dal canto suo, è stata per me l’ispirazione e la forza, che mi ha dato la possibilità di sopravvivere. Essendo creatore delle mie poesie, io credo in un Creatore divino per tutti.
Torniamo a prima del processo: a firmare l’atto di denuncia sono due intellettuali.
Esatto. Come sai, all’epoca esisteva la Lega degli Scrittori e degli Artisti, un’unione creata dal partito e totalmente al suo servizio. Vi appartenevano artisti, poeti, scrittori, musicisti, pittori e la loro creatività doveva, interamente, essere al servizio del realismo socialista, di ispirazione alle classi operaie e contadine. La loro opera, di qualsiasi genere fosse, doveva andare contro tutto il mondo, perché secondo la dittatura, tutti gli altri Paesi erano capitalisti e l’unica nazione, faro dell’Adriatico, era l’Albania. Hoxha era come Marx, come Lenin e Stalin: di conseguenza, anche la Lega degli Scrittori e degli Artisti albanesi, era considerata come un reparto militare del partito. Sicuramente, hanno patito per poter scrivere la verità e forse, nel tempo, sono riusciti a creare la giusta testimonianza, una poesia vera, un libro utile.
La Lega aveva il compito di denunciare chi non seguiva le regole imposte dal partito in fatto di scrittura: così, gli intellettuali venivano condannati da altri artisti e scrittori e non solo dalla polizia politica e dal governo del regime. In questo modo, si è avuta una netta separazione tra gli intellettuali del partito e quelli in carcere, creando, inevitabilmente due letterature: quella del realismo socialista e quella carceraria, nata nei campi di concentramento. Quest’ultima, non ha certo preso il posto della letteratura albanese, bensì l’ha arricchita: ha portato con sé moralità e verità e come diceva Franz Kafka, non può esserci una grande letteratura senza moralità e senza verità. All’estero, soprattutto in Italia, ma anche nell’intera Europa, la “letteratura del carcere” è stata molto valorizzata. Mi emoziono quando vedo sulla copertina del miei libri i caratteri universali; ho sempre vissuto nella convinzione, che il concetto diffuso dagli specialisti albanesi, secondo il quale i nostri scritti mai avrebbero potuto essere universali, non fosse veritiero. Non è colpa di nessuno, se non di una retrograda mentalità.
Hai avuto modo di parlare con i due intellettuali che hanno firmato la denuncia, definendoti nemico del regime?
Non é importante, secondo me. Non sono pochi gli intellettuali coinvolti in queste storie; la verità sta nel mezzo, molto spesso. Alcuni sono conosciuti, altri anonimi. Con uno dei due, di mia iniziativa, sì, ho parlato. Si è giustificato, dicendomi che all’epoca, la Sigurimi, (la polizia segreta del regime), ha falsificato la sua firma, prendendo, così, il suo posto. Non è mio compito sciogliere questo nodo; al limite, questa può essere una sua preoccupazione. Io non voglio mettere alla gogna nessuno. Senza dimenticare, dobbiamo guardare al futuro con un senso di giustizia. La Patria è perenne, noi siamo mortali.
A Tirana mi hai detto: sarebbe importante che questa gente chiedesse scusa.
Sarebbe giusto che questa gente chiedesse scusa. In Albania, sono mancate due cose importanti: le scuse di chi ha commesso i peccati delittuosi e la giusta condanna, morale e giuridica nei confronti della dittatura e di chi, con essa, ha compiuto efferatezze. Manca la morale nel nostro Paese e per questo stiamo soffrendo e stiamo costruendo la democrazia con i nemici della stessa, con la gente che si è ritrovata al potere, senza un perché; stiamo edificando il capitalismo con i nemici della proprietà privata, che sono dei terribili oligarchi.
Come vive la sua vita un ex prigioniero politico?
Io ho avuto la fortuna di lavorare dopo il regime, sia come giornalista nel primo giornale di opposizione, che come deputato, dopo. Ho avuto un posto nella diplomazia albanese, sono stato a Roma con questo incarico, anche presso la Santa Sede, a Washington e in svariate località. Poi, ho ricoperto il ruolo di Ministro della Cultura, anche se per poco tempo. Penso di essere stato un simbolo, in quanto, ex carcerato, che ricopriva cariche di un certo livello. Questa è stata un’esperienza personale, che è tornata utile alla mia scrittura: ho pubblicato articoli ovunque, sui giornali stranieri e italiani, oltre che su quelli albanesi, creando un nome che è servito al bene di molti. Però, non è andata così per tutti gli ex prigionieri; molti sono stati abbandonati, non hanno mai avuto un lavoro, ne una casa. In quel periodo, l’Albania urlava a sostegno degli ex carcerati, per le sofferenze che avevano patito. Sembrava volessero fare chissà cosa, ma alla fine desideravano solo il simbolo dei prigionieri, i loro sogni. Non li hanno mai voluti fisicamente, ma solo in modo metaforico.
Ho scritto un romanzo, Il tempo dell’urlo, in cui ho trattato questa tematica: si voleva il sogno degli ex carcerati e non i carcerati e così molti di essi, non hanno trovato la possibilità di essere inseriti in cariche istituzionali albanesi importanti, rimanendo abbandonati e vedendo al potere i figli dell’ex regime. Il mio desiderio è che il loro spirito e il loro sogno europeo, possano, prima o poi, primeggiare in Albania.
Sei stato un diplomatico, anche se, penso, tu ti sia sentito sempre più scrittore, o sbaglio?
Credo di sì. Come ho detto, penso che i vari ruoli ricoperti a livello diplomatico, siano stati frutto della mia scrittura. Ero già autore e questo ha aiutato la mia carriera. In ogni posto che ho servito mi sono sentito poeta e scrittore, ma non ho fatto alcun abuso nel mio ruolo professionale, lavorando, sempre, con la giusta responsabilità e mosso dall’amore per il mio popolo.
Ti senti riscattato dall’Albania?
Io non ho cercato nulla, ma posso dire che l’Albania mi ha dato tanto, come scrittore e diplomatico. Ripeto, la classe dei perseguitati non ha ritrovato se stessa dopo la dittatura e spesso si è sentita ingannata e abbandonata. Dare una casa e un buon lavoro, non è l’unica soluzione e forse non è nemmeno quella giusta. I nostri ideali, il nostro spirito occidentale dovrebbero essere fondamentali per l’Albania di oggi. Invece, imperversa ancora la nostalgia per il passato, ancora si lavora per esso e così l’Albania è perennemente in un ponte tra due coste. Non abbiamo abbandonato per sempre la costa del passato, e non siamo arrivati a quella del futuro.
Ti faccio la stessa domanda che ti ho rivolto a Tirana. Come stai?
Non mi sento a casa a Tirana. Come ti ho detto, ho fatto tutto per il mio Paese; ho vissuto il carcere, sono un letterato albanese, ho lavorato con coscienza, amo la mia Patria e la mia gente e dopo, quando il governo ha finito il suo lavoro con me, mi sono sentito libero di trovare la strada del mio dolore e della mia tristezza. Ho scelto di vivere fuori dall’Albania, ma la Patria è dentro di me, io sono un pezzo di essa, tutto il mondo è della gente ed è Patria per ognuno di noi. E così vivo lontano, in America, ma lontano da chi? È importante essere dentro se stessi.
Tu? Sei dentro te stesso?
Nel me stesso di adesso, sì. Anche fuori sono con me stesso, ma fuori, in cielo…
Hai perdonato?
Io posso perdonare chi ha fatto del male a me, ma non posso perdonare chi ha fatto male agli altri e all’ Albania. Se chi ha commesso i crimini vuole il perdono, deve chiederlo ai morti, ai fucilati, a chi è sottoterra. Essi devono perdonare, sarebbe un loro diritto. Io, sì, l’ho fatto: le mie poesie sono una vendetta e un perdono e sono felice che esse abbiano trovato luce nel mondo, soprattutto in Italia, che per me è un’altra Patria spirituale. Sono venuto in Italia molto presto, quando il regime era molto indebolito. Sono arrivato come giornalista dell’opposizione, era la prima volta che uscivo dall’Albania; quando non conoscevo la mia terra, quando non avevo possibilità di vedere le altre città d’Albania, mi hanno concesso un visto per seguire un corso a Genova. In Italia, ho conosciuto la libertà, la poesia della vita dei miei amici italiani, le chiese dove ho trovato la pace celeste; sono stato bene. Ho pubblicato tanti libri in Albania, grazie al lavoro svolto con passione dal mio traduttore Prof. Elio Miracco; sembra che Dio mi abbia risarcito per le mie sofferenze. Sulle strade dell’inferno è un volume di 580 pagine, che sembrava destinato unicamente alla lingua albanese; invece, è stato tradotto dal Prof. Matteo Mandalà, che ha compreso la mia sofferenza e ringrazio la casa editrice Besa che ha deciso di pubblicarlo.
