Questo libro è frutto di uno studio che prende avvio proprio da un’esperienza di questo tipo, dalla scoperta sorprendente che la pianta dell’edificio ormai storico dell’ex Kinostudio “La Nuova Albania” è a forma di croce. Mi resi conto della forma singolare della sua pianta in modo del tutto inaspettato alcuni anni orsono, nel corso di un’esercitazione con gli studenti di fotografia.
Ovviamente, rimasi basito, non credevo ai miei occhi. Incredibile che, avendo lavorato in quell’edificio per più di dieci anni, non me ne fossi accorto prima! E da allora erano passati ben altri 16 anni! A quanto pare, anch’io, come la nottola di Minerva, dovevo aspettare che scendesse «il crepuscolo della Storia» per “vedere” quello che avevo avuto sotto gli occhi. Ma, a differenza della nottola di Minerva, che scopre osservando con i suoi occhi acuti, a me la scoperta si manifestò, come dire, “da se stessa”. È noto che l’atto della scoperta è preceduto da un travaglio interiore, che, nel momento della scoperta ci fa vivere l’esperienza, ci fa prendere coscienza di un fatto, mettendo da parte le idee che su quel fatto avevamo avuto fino ad allora.
Proprio questa consapevolezza del vissuto, questo dialogo con se stessi che costituisce il fondamento della fenomenologia, inserisce l’esperienza umana in strutture che generano significati, sottoponendo l’oggetto scoperto ad analisi razionali e a riflessioni che hanno come obiettivo l’individuazione di un nuovo significato. Ma in questo caso, c’era qualcosa di diverso: bisognava escludere due elementi strutturali fondamentali dell’esperienza fenomenologica come l’intenzionalità e l’immediatezza. La scoperta si manifestò come presa di coscienza di qualcosa che era sempre stata lì, lampante, davanti agli occhi, ma che “si rivelava all’improvviso, senza che ci fosse alcun evidente motivo del perché si rivelasse ore non prima.
Per molti anni, insieme agli altri dipendenti del Kinostudio, avevo percorso e ripercorso gli ambienti interni ed esterni dell’edificio, ero entrato e uscito da stanze e saloni, salito e sceso per le scalinate senza mai guardarlo con la dovuta attenzione come oggetto fenomenologico, ma vedendolo sempre come uno spazio interno in cui si dispiegava la nostra quotidianità e si svolgeva una frenetica attività di produzione di film. Ed ecco la domanda ineludibile e più naturale: come era stato possibile che due regimi totalitari, quello sovietico e quello albanese, nemici giurati delle istituzioni religiose, avessero ideato la costruzione di “un’opera importante del quinquennio”4 con una pianta a forma di croce, che è risaputo essere da secoli la pianta standard degli edifici di culto cristiani e che è notoriamente costituita dalla navata principale e dalle braccia del transetto, all’incrocio delle quali si eleva una cupola…un momento, ho detto forse una cupola? Sì, una cosa del genere, per giunta con figure dipinte sull’intradosso, si trova quasi proprio all’incrocio tra la “navata” e il “transetto”!
Per quanto occultata nella semioscurità (per tutti gli anni in cui ci ho lavorato, non l’ho mai vista illuminata), ero certo che si trovasse lì, al primo piano, attigua all’ingresso del salone principale delle riunioni. Addirittura, se non andavo errato, nella penombra della cupola, al suo apice si distingueva vagamente una croce dipinta, o meglio un simbolo a forma di croce con altre quattro braccia ondulate tra quelle principali. E, proprio come nelle chiese bizantine, dall’apice della cupola pendeva un lampadario…. Ero senza parole. Non mi sarei meravigliato di più se, un tempo, avessi visto un funzionario comunista con la croce al collo.

L’opinione
Una sorprendente panoramica quella disegnata da Gëzim Qëndro in questo Il Kinostudio “La vecchia Albania”, utilizzando i mezzi utili e necessari messi a disposizione dalla storia, dall’arte guardata dal punto di vista critico e in un ultimo ma non ultima, dall’architettura. È come sempre competente la penna di Qëndro, che non viaggia mai da sola, ma sempre accompagnata da studio, ricerca e documentazione.
Al centro di questo straordinario saggio, vi è il Kinostudio “Vecchia Albania”, oggi sede del Ministero della Cultura Albanese, inaugurato nel 1952 e divenuto il centro fulcro di tutta la produzione cinematografica durante l’epoca socialista. Con una scrittura vivace e un modo di porsi invitante, l’autore analizza in maniera cristallina le motivazioni per cui vi è un’importante presenza di codici simbolici religiosi in un edificio pubblico, progettato in un Paese marxista (l’URSS), realizzato in un altro Paese marxista (l’Albania) e destinato ad essere sede dell’industria cinematografica albanese, una macchina di propaganda del regime. Le perplessità nascono dal fatto che la costruzione avrebbe dovuto avere le caratteristiche della modernità, avrebbe dovuto essere l’immagine speculare dell’aconfessionalità, avrebbe dovuto essere l’immagine incarnata del profano e in realtà si presenta come l’esatto opposto.

Ne nasce una sorta di botta e risposta di Qëndro prima con se stesso, poi con la documentazione che analizza sapientemente, con le spiegazioni che si impegna a dare, con il riuscito tentativo di abbattere i contraddittori e spiegare tecnicamente e scientificamente quanto egli si chiede e quanto è stato a lungo celato. Senza entrare nelle spiegazioni attribuite a ogni singola motivazione, ben poste al lettore affinché vi possa attingere senza delucidazioni e decifrazioni altrui, si può palesemente affermare che Qëndro ha donato vita a un libro di saggistica, curioso, il cui tono fresco e delicato, non compromette l’alto spessore della pubblicazione, rendendo la sua lettura fluida e di grande scorrevolezza. Uno scritto atto a demolire la classica domanda alla quale siamo abituati: adatto a chi? Adatto a chiunque abbia voglia di una lettura di “alto lignaggio”, frutto di competenza e passione e dell’urgenza di narrare quanto mai è stato raccontato.