Albania Letteraria Logo
Nessun risultato
Visualizza tutti i risultati
Albania Letteraria Logo
Nessun risultato
Visualizza tutti i risultati
Albania Letteraria Logo
Nessun risultato
Visualizza tutti i risultati
Home Racconti

La Nave della Speranza e i suoi figli abbandonati

Nada Dosti Nada Dosti
30 Gennaio 2023
Nave Vlora

Statue di persone con pezzi di luna nelle loro mani balbettando la sinfonia dell’attesa città di pescatori, granchi e reti. Cose da pescatori, che lunga la vita. Ehi barca della speranza, mia barca portami via dove sorge il sole. Heeej heeej barca della speranza mia barca. Portami lontano, promettiamo che verrai*

La notizia tanto attesa era arrivata. La Sinfonia dell’Attesa si sentiva in sottofondo, mentre tutti erano riuniti a tavola, finché uno squillo del telefono non interruppe la melodia. La nave era pronta e stava per partire in quella fredda sera di marzo.

Una nave piccola, traballante, arrugginita, unico mezzo della speranza, talmente vecchia che anche quel poco che possedeva, cioè la ruggine, rischiava di sciogliersi nelle acque, dove non navigava ma strisciava, fino a raggiungere una città lontana della terra promessa, verso una vita migliore (o quanto meno migliore per quello che i passeggeri si lasciavano alle spalle). Si misero tutti in fila davanti alla porta per salutarlo: un distacco senza rientro il suo, andando verso una partenza non ancora certa. Dopo avergli detto addio, nessuno ritornò a tavola: l’appetito era partito con lui.

Il tavolo rimase apparecchiato nell’angolo della dependance. La zuppa si raffreddò e il pane si seccò. L’aspirina, sciolta in acqua, smise di fare le bollicine. Prima di partire, non sapendo cosa lo attendesse, aveva scritto a mano una lettera, come se fosse un testamento. Non aveva lasciato alcuna ricchezza, tranne le due figlie. Sua madre cominciò a bisbigliare mentre leggeva in lacrime quelle parole scritte a mano con una penna stilografica, nera come la notte in cui era partito.

A te e alle mie figliole, abbi cura di loro in mia assenza…

ripeteva lei come un ritornello stanco, proveniente da un megafono rotto.

Suo padre pianse molto. Le lacrime scorrevano dagli occhi del vecchio come mai prima di allora, e come mai sarebbe accaduto dopo. Non lo avrebbero più visto piangere. Accese la televisione per guardare le notizie che circolavano circa i nomi dei fortunati saliti a bordo della nave. Sebbene non capisse la lingua, avrebbe sicuramente riconosciuto il nome di suo figlio, che tanto si pronunciava allo stesso modo, in tutte le lingue. Si svegliava e si è addormentava ascoltando le notizie. La televisione rimase accesa giorno e notte, e se non c’era la corrente, si accendeva la radio che andava a pile.

Al tavolo della dependance, la sua sedia rimase vuota. Sua madre, piena di orgoglio, si rifiutò di portarla via da lì. Le sembrava una forma di negazione.

Non ho sepolto mio figlio sottoterra, l’ho solo mandato all’estero. La sedia rimarrà lì fino al suo ritorno!

disse ostinata. Se avesse voluto, avrebbe potuto rimuoverla da lì: sarebbe stato meno doloroso per tutti. Ma no! La sedia rimase vuota, svolgendo con rigore il proprio dovere: ricordarci l’assenza del proprietario. Tutti abbiamo visto sedie in legno, in plastica o in ferro, ma questa era speciale. Non era come tutte le altre sedie, perché era fatta di nostalgia, lavorata con dolore, decorata con la mancanza. Quella stessa mancanza doveva essere presente in tutti i nostri pasti: doveva proprio sedersi di fronte a noi, non a capo tavolo, ma proprio al centro.
* * *
Era una torrida giornata di agosto. Vi era un caldo torrido e con grande fatica si saliva su per la collina, con lo scopo di raggiungere il punto più lontano e più limpido del mare. Da lì, il castello di Re Zogu, il nostro primo e unico Re, si poteva vedere da vicino. Il Palazzo era pieno di tesori. Ricchezze che lui stesso, l’erede alla corona, portò via, dileguandosi.

Mio padre mi portava in spalla dopo le mie molte lamentele per la stanchezza: potevo sentire il sale del mare tra le labbra screpolate. La pelle bruciata dal sole fa male quanto il dolore dell’anima. Sulla lingua avevo il sapore del gelato al latte bruciato che si scioglieva come per magia quando lo prendevo in mano. In sottofondo, si sentiva lo strascico di quei vecchi sandali di plastica cinesi che colpiscono la sabbia argillosa di Kallmi. Eravamo alla fine di quell’estate, l’ultima che abbiamo trascorso insieme. Se lo avessimo saputo, forse, avremmo preso in prestito qualche giorno in più dall’autunno.

Una barca abbandonata e ancorata fluttuava e si scontrava con le onde del mare in una danza ritmica senza fine. Lì l’abbiamo trovata e lì l’abbiamo lasciata.

Se i bimbi senza padre vengono riconosciuti come orfani, come si chiamano i figli degli immigrati? Non abbiamo ancora pensato a come definire questi bambini abbandonati. Strano, visto che l’umanità muore dalla voglia di classificare ed etichettare. Quale nome potrebbe essere più adatto a indicare chi ha un padre e allo stesso tempo non ce l’ha?

Se questa condizione fosse un colore, quale colore sarebbe? Sicuramente, se fosse un oggetto da cucina assomiglierebbe a quei guanti da forno che non si trovano mai quando servono, che scompaiono dalla vista così all’improvviso, soprattutto quando sono più necessari. Così ci si brucia le mani più volte, fino a quando la pelle si inspessisce, creando resistenza e allora ci si abitua a togliere le padelle calde dal forno, senza scottarsi.

Dopo la sua fuga, la sua immagine si rimpicciolì tantissimo, tanto da divenire una voce oltre il ricevitore, una telefonata a migliaia di chilometri di distanza, una visione che durava solo venti giorni all’anno: dal primo al venti agosto. Non più un padre a tempo pieno o part-time, ma solo un padre di venti giorni!
In classe, durante la lezione, l’insegnante ci chiese di scrivere un tema sulla nostra famiglia e il mio foglio rimase bianco.

– Come si chiama tuo padre?
– Mio padre si chiama profugo
– Dov’è adesso?
– In un paese lontano!
– È ancora vivo?
– Non lo so, ma quello che è partito in nave non è più tornato. Ha portato con sé le giornate al mare, il gelato al sapore di latte bruciato, il veleno della puntura di medusa, le punture del riccio di mare… Ha piegato con cura tutti questi ricordi, mettendoseli in tasca, ma devono essergli caduti nelle acque salate dell’Adriatico e lì essersi sciolti. Fino a quando non è arrivato lì, in un paese straniero: Oltremare!

*Canzone scritta da Leonardo Bombaj e Ervin Hatibi, hit del 1992

Argomenti: Gli sbarchi degli albanesi
Google News
Segui Albania Letteraria su Google News! Iscriviti

Libri correlati

La fiaba nera della Kuçedra

La fiaba nera della Kuçedra

3 Febbraio 2023
Giuseppe Marchionna
Laurana
9791280845245
Diario dall’Albania (1990)

Diario dall’Albania (1990)

19 Gennaio 2022
Annarosa Manetti
Youcanprint
9791220383813
Jepi Jora

Jepi Jora

1 Dicembre 2021
Claudia Romagnoli (Croma)
Il Galeone
9788899892319

Articoli correlati

Attenzione agli scherzi della memoria

di Griselda Doka
Gennaio 2023

I bottoni colorati di Eva Meksi: dalle voci della Vlora

di Eva Meksi
Agosto 2022

La solidarietà italiana che ha teso (per davvero) la mano agli albanesi

di Anna Lattanzi
Agosto 2022

Google News

Asti, incontro con lo scrittore albanese Stefan Çapaliku

albania letteraria
15 febbraio 2023

Lo scrittore albanese, Fatos Lubonja,

facebook
17 gennaio 2023

Elenco scrittori

La lista di tutti gli scrittori censiti

Novità editoriali

Libri pubblicati questo mese

Incontri letterari

Prossimi eventi letterari e culturali
  • Chi siamo
  • La storia
  • Privacy
  • Cookie
[email protected]

L'Albania Letteraria - Narrare l'Albania in italiano

Nessun risultato
Visualizza tutti i risultati
  • Home
  • Gli scrittori
    • Tradotti
    • Italofoni
    • Italiani
    • Arbëreshë
    • Stranieri
  • I libri
    • Novità editoriali
    • eBook
  • Gli editori
  • I traduttori
  • News
  • Recensioni
  • Interviste
  • Blog
  • Classifiche
  • Memoria
  • Racconti
  • Incontri letterari

L'Albania Letteraria - Narrare l'Albania in italiano

X