Sembra, a leggere Non aprire mai, che Francesca Borri parte per uno stage presso l’ambasciata italiana a Prishtina, che poi non sarebbe ne anche un’ambasciata ma la sede distaccata dell’ambasciata di Belgrado, perché è così siccome anche il Kosovë non era – quando lei scrive – che un pezzo staccato da Belgrado.

E sembra che la ragazza si trovava lì per fare uno stage ma anche per lavorare ma soprattutto per toccare il tangibile e guardare l’intangibile. E sembra che non ha trovato quello che cercava – uno Stato in costruzione – ma ha trovato qualcos’altro, forse niente altro che un puzzle di Stato-non-Stato, in questo caso il Kosovë, eppure c’è qualcosa che non torna perché riesce a vedere, ha la capacità o se preferite la sfortuna di innalzarsi al di sopra del paese e vedere i vari pezzi di puzzle sbagliati come fossero pezzi di mosaici diversi, e capire che stanno cercando di incastrarli un po’ male e un po’ peggio e poter capire questo ti rende solo impotente perché sei solo, sembra, una funzionaria dell’ambasciata, di secondo livello, direbbero loro, per dire che non copri nessuna funziona rilevante in un’ambasciata, quella italiana, che non è protagonista del cammino eppure lo è e così via. Dico sembra perché Francesca ha fatto una scelta cosciente e strana.
Non aprire mai non è un romanzo nel senso stretto del termine, e non viene ne anche indicato come tale. È un esplosione più di pensieri che di dialoghi, sentimenti che prendono il posto della storia, è un libro che ha una coscienza ben precisa, un libro che preferisce mostrare tante storie invece di una storia, e tra le tante storie raccontate c’è anche la sua, c’è la storia di un monastero ma anche di un immigrato clandestino e di tanti altri potenziali clandestini, la storia dell’ambasciata che è quella italiana ma poco conto perché poteva essere anche un’altra perché alla fine il Kosovë è così e adesso anche lei lo sa, tutto si confonde e tutto è ma non è e si esiste ma solo fino a prova contraria. È il Kosovë ma è anche la Serbia ed è anche Serbia ma è anche Albania, Turchia ma è anche O.N.U, U.S, Italia, è benessere e povertà, anzi miseria, e ogni volta che credevi di averlo capito ti sfugge di nuovo, tutto rotola giù di nuovo e tu Sisifo vai e torni, vai e torni.
Ammesso che ci hai capito qualcosa, è la Borri questo l’ha già fatto, come fai a descrivere un paese così?
Lei ha scelto di dire tutto, a modo suo. Di prendere il paese e metterlo in carta, aggiungendo la sua di vita e i suoi di dubbi. La lettura corrisponde esattamente al paese, vi risulterà limpida e confusa. Lei si lascia andare, non segue necessariamente un filo logico e/o cronologico, non frena le sue idee e i suoi dubbi e ne anche gli organizza secondo i canoni della narrazione moderna. Non usa lettere capitali, in nessun modo promette un qualche finale spettacolare o che concili le 100 e rotte pagine, no.
Diventa fedele traduttrice di se stessa, delle sue paure, dei suoi dubbi e dei dubbi del suo bagaglio che si porta dietro – Pasolini, Veltroni, Platone, Cassese, Kissinger, Gramsci, Kafka, Keynes – ma anche gli amici, gli amici ai quali non porterà foto accanto a bambini malfamati ne pantaloni curdi, o forse sì, ma non è quello il punto il punto è che non tradisce se stessa e non tradisce ne anche le speranze del Kosovë perché rimane fedele e sincera, dalla prima parola fino all’ultima. E ogni pagina, ogni paragrafo, diamine, persino ogni frase è una storia a se ma quando arrivi alla fine il puzzle si ricompone e si rompe di nuovo, perché è così che va e l’importante è aver lottato e aver visto e aver scritto e aver dubitato e aver narrato e aver trasmesso. E non importa quando non importa più ne anche come, quello che conta è che è successo e tu ne hai fatto da testimone, adesso spetta ai lettori.
Francesca Borri, laureata a Firenze in politica europea, studia giurisprudenza. Vive a Ramallah.
Non aprire mai,
Edizioni la meridiana, Marzo 2008, collana Passaggi.
Pp 113, euro 13,00