Qualche giorno fa leggendo le solite pagine su internet ho fermato lo sguardo sull’ultimo libro della Dones “Piccola guerra perfetta”. Ho letto “Piccola guerra perfetta”. L’ho riletto il giorno dopo. Ancora è nella mia borsa che porto con me al lavoro, è diventato parte di me questo romanzo.
Non si è mai pronti a leggere righe piene di graffi d’animo, piene di crudeltà di guerre maledette, perché non si è mai pronti ad identificare l’essere umano capace di tanta ignoranza in nome di non si sa quale malefico potere.
Piccola guerra perfetta è un romanzo che trafigge le tranquillità occidentali con l’eleganza del racconto. Mette in risalto l’anima di un popolo portato davanti alla storia con l’irruenza terribile della guerra. Il Kosovo diventa protagonista dei dubbi esistenziali e d’appartenenza nel tanto-confuso Ballkan.
L’autrice porta davanti e dentro di noi la guerra delle donne, dei figli. Lei riesce a penetrare i dolori e le dignità nella guerra quasi dimenticata di questo piccolo paese. “Questo è un romanzo, non un saggio storico, e l’unica responsabile delle commistioni tra avvenimenti reali e realtà romanzesche è ovviamente dell’autrice” – scrive Dones in chiusura, come per evitare future polemiche sui fatti narrati. Ogni personaggio diventa carattere ed ogni carattere diventa storia, il padre diventa i padri, la figlia si ritrova nelle figlie e la vita si trasforma nelle ceneri di una pazza morte.La guerra non appartiene a nessuno, alla fine diventa “tutti noi”.
Associo questo romanzo alla piccola torcia che illumina nel buoi assoluto con decisione e verità. L’escalation di ogni carattere e storia rende la terra del Kosovo la parte più importante dei personaggi; lo si può portare nei viaggi della speranza, oppure si può mantenere dentro le mura del cuore e del vivere “alla albanese”.
Elvira Dones riesce benissimo ad esprimere le donne attraverso le loro fragilità che evolve nell’ estremo coraggio della sopravvivenza. Nel Kosovo della Dones sei donna mentre nasci, cresci, sei donna mentre vivi, mentre ami, mentre combatti la guerra pazza del “Perché porti il cognome che porti”. Attraverso i viaggi fisici e mentali dei protagonisti di questo romanzo si riflette in qualunque entità umana la voglia di storia, di quella storia che come al solito viene storpiata dalle volontà dei poteri governativi e non.
Una storia che la scrittrice non racconta ma vive ,fatta di verità e dolore, di speranza e dubbi, di incontri fortunati o disastrosi. I personaggi di questo romanzo sono vivi e capaci di interagire con il lettore. Riescono a raccontarsi col coraggio della parola e della verità. Triangoli di vissuto forti e consapevoli del tragico momento, viaggi di partenze non naturali e vite marchiate dal fiume torbido della guerra.
Narrare questa verità standone sempre attenta ai colori della vita e della morte, mantenendo una lucida ragione e viaggiare nelle anime ferite e sanguinose del Kosovo, è indubbiamente una capacità unica della scrittrice.
Grazie ad un linguaggio semplice ma di forte sostanza e colore coinvolge le coscienze dei lettori. La percezione del mondo sceso e racchiuso in questo libro è viva, stringe nei pugni fatti di racconti e vissuti, l’angoscia e l’orrore di un mondo disegnato nelle montagne dei Balcani stanchi e turbolenti. Un mondo di bambini nati già grandi e di donne e uomini che sorvolano sui limiti della sopravvivenza.
I giorni della guerra incrociano i ricordi e diventano il letto fluido del romanzo. La scrittrice cammina sui mosaici di racconti e con l’eleganza e la forza della parola diventa lei stessa parte viva di quella guerra che segnò l’orrore nelle vite di chi la guerra lo ha vissuto veramente. Un romanzo che va letto, capito, umilmente rispettato per il coraggio e la forza d’animo del raccontarsi.
