Arian Leka è una figura poliedrica della letteratura (e non solo) albanese e internazionale: romanziere, poeta, saggista, traduttore, musicista e novellista, non si risparmia nella sua attività di promozione degli scambi interculturali tra i Paesi del Continente. Leka è un apprezzato poeta e ideatore del Festival Internazionale di Poesia, la Poeteka, premiato recentemente per la sua valenza globale, come il più importante avvenimento culturale d’Albania; i suoi versi sono stati tradotti in diverse parti del mondo. Pubblichiamo quattro delle sue poesie, inedite in Italia, tratte dalla raccolta Occhio che sbaglia, per la traduzione di Gentiana Minga.
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I
Il corpo promette
campi,
bambini e soldati.
Prepara pane,
vino.
L’amore rimase per degli uccelli.
Rimane anche per noi due.
Appena un po’.
Separi il fiele con me.
Nessuno muore.
Chi pianta i pini
non cerca occhi nuovi.
Altro destino.
( Il batacchio rintocca nella bocca della campana
onde l’ottone rende oro dai suoi suoni )
Uscimmo a falciare nel cielo.
Aldilà del muro della notte
scarpe bianche di nuvole.
Chi pianta cipressi,
cerca seconda fortuna.
( La lingua sbatte la testa contro la volta della bocca cercando l’aria.
Uccelli dormivano a capofitto con la canzone prosciugata nella gola. )
Nelle mattine
nulla ebbi il sangue caldo
Tutti dormivano separati – erano due.
Ognuno si sentiva solo.
Solitario.
Inclusi anche gli occhi.
Separi il fiele con me.
Non ugualmente.
Che non suoni bene.
Che non sembri equa
e che sia maledetta.
Il sapore del sangue. L’urlo.
Il suono dell’Alfa
per la prima volta
lo resa da te.
Donna.
Dal più prezioso l’umano si annoia.
Gabbie di ferro intreccia per gli uccelli.
Gabbie di ossa
sotto la pelle.
Separi il fiele e salti.
Esci da me.
Cosi come sbuca la caviglia
che ti ostacola nel girovagare sul prato.
Come
da una coppia di colombe selvatiche
salta fuori
la colombina buona.
Lo sbaglio
si scaglia come la freccia,
si scontra con me corna a corna
laddove lo sguardo si spacca nell’orizzonte.
Totalmente cieco,
spento,
vorace,
geloso,
capriccioso,
errabondo e libidinoso.
Campi di cavalli.
Piaceri, lamentele, gli impulsi seducenti
verso piccoli doni di vita e morte,
odierni, accostano in me.
Sanare il vecchio sbaglio
con uno sbaglio nuovo
fu crescita.
Distacco da me stesso,
uno svago.
Cosi,
tinto dello stagno d’argento e colore…
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II
….. ho il timore.
Fui animale ruminante.
Seguivo fiori di notte, l’erba ammuffita.
D’oro l’anello nelle narici, d’ oro,
d’argento la schiuma in bocca.
Curavo prati di trifoglio con pazienza di gemme nello stomaco.
Nel mio corpo ti nutrivi
inconscia,
senza sapere niente affatto,
che ogni cosa da me ingoiata
non fu più fiore,
né erba,
né trifoglio incolto.
Fu sangue.
Ti cibavi con il mio corpo
senza credere
che l’animale dentro me –
quell’animale che accanto a te giace,
aveva il diritto quanto te.
Dopo la lunga fatica
l’animale che dentro c’è
chiede di essere messo disteso,
rimettere dentro
tutto ciò che espulse dalla bocca,
dagli occhi di fuoco ardente.
Riposarsi dopo quest’animale chiede,
star bene,
crollato come l’orizzonte cupo sul prato.
Niente più sarà verticale.
Crollerà.
Non del tutto.
Inginocchiato.
Quest’animale disteso – io stesso-
freccia puntata dietro un velo,
stretta alla schiena dell’ultimo splendore
aspira,
ne gode,
mentre stringe i denti
prima di coricarsi su di te
come si adagia il crepuscolo nella notte.
Eri nata cacciatrice,
benché con cuor di pane.
Con l’arco e il novizio turcasso,
nuovo di fiamme,
comparsa a regalare alla pietra fiore.
Non lo sapevi?
– Non lo sapevi.
Inseguendo lo sbaglio in me
potevi uccidere pure quel piccolo angusto pregio
disperso in esso,
cosi come si scioglie il fosforo nelle terre dei cimiteri
e non sa il perché le tombe
somigliano alle navi
assai,
con l’albero e le vele piene di resina
portati sulla collina dalla tua astiosa
rabbia
o dalla voglia di svegliare in me
l’umano –
mentre io stesso ne godo,
sto steso,
pari allo sbaglio,
la freccia.
E rumino fiori in pieno desiderio
la dove tutto si ferma.
Si spegne la vita.
Sui paesaggi
pieni di prati di trifoglio
cala il buio.
La primavera dentro la grotta.
Ed erba ammuffita …
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III
…Quando apparisti alla vista
tutto quanto fu spento.
Pellicani.
Rammento i pellicani e le lagune.
Caule di sale. Displuvio di gelo sotto il tetto.
Grosse e alte gru del porto navale.
Barcollavano destra-sinistra di fronte alla mia finestra
da dove si aspettava apparissi tu.
E perdonabile fu lo sbaglio.
Dalle mattine,
dalle sere vacillavano lentamente
come la mano del prete novello
che mentre brucia l’incenso nel turibolo
aspetta che il fumo si stacchi dall’odore,
manda grazie e in contempo prega:
– Che abbia più gente che tristezza il gradino.
Dopo di te mai più gente con la pelle cosi buona.
Istinti attaccati dietro la trave
tramite fragili code legati,
brucavano il filo dell’aquilone mentale.
E bensì nel sonno, si resero conto:
In te
la parola “amore”
sebbene arrivata
come promessa
rimase sola,
soletta.
Dissociata ad altra forma,
apparenza o altro modo della parola
maschio.
Come ogni cosa frettolosa
mentre al marzo approda,
o come tutto ciò che eccede …,
la fioritura
delle pratelline sulla tua camicia
da notte
fu precipitata …..
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IV
… non fu titubanza.
Fu una sorta di timore,
mentre camminavi con gli alberi per mano
verso il prato ancora inseminato.
L’amore avanzò. Avanza anche oggi.
Benché tu spartisca iniquamente
l’amore pari tra me e nuovi oggetti.
Uccelli sulla tela, volatili in cielo,
le lande sabbiose, caraffe con acqua,
le brocche colme di cenere calda,
da dove la vita sorge in parte
e l’altra trascinata verso l’alto –
immersi nella tua vita
per vivere meno di me.
Ma tu di nuovo,
per una sorta di timidezza,
avevi paura della bruttezza,ragazza,
non la morte,
senza dare il conto alla forma nuova che si modellava
assieme o no
con il silenzio.
E poi …
– Che non sia mai quell’ora!, implori
come il marinaio il primo giorno che naviga prega,
piegato in due sulla prua
ove concede l’uscita dell’anima senza fatica,
ma ad ogni modo prima della densa melma ingoiata
la quale lo stomaco non l’ha gradita.
Vestita di sacca la mente della giovane fa la scelta giusta.
La morte,
non la bruttezza.
Pressappoco come l’uomo con l’orecchio peloso
sceglie il veleno piuttosto della fuga.
La forma spietata della morte imprevista
nacque bella. Come te.
Cacciatrice.
Cacci lontana da casa.
La colpa diventa l’arco …
Con nuovo turcasso distruggi …