Andavo sempre sulla mia bici nera. Da casa mia al suo studio distava una quindicina di minuti ed io dopo aver messo le cuffie, ascoltavo la musica ad alto volume, senza badare ai probabili danni all’udito e pedalavo sotto una specie di divina esultanza dovuta ai suoni delle musiche pop.
Musica che grazie alle ultime scoperte nel campo dei suoni e strumenti, fa ormai miracoli da tempo per le sue melodie sofisticate e capacità suggestive. Suoni che mi stimolavano mille sensazioni, e lo confesso, spesso mi aiutavano non solo a comunicare con il divino, ma anche a comporre insoliti versi. Attraversavo il Cimitero Inglese immortalato da Böcklin nel “Isola dei Morti” e avvolto nella mia meravigliosa bolla di stupore, spesso prossimo alla commozione, imboccavo poi la famigerata e lunga via Borgo Pinti. Una strada che è per me gremita di memorie. Una via in cui ho passato i primi cinque anni dell’interminabile soggiorno fiorentino e che sempre ricordo con amore, ma senza tristezza alcuna. Anzi, godo quando sono sotto gli stimoli della memoria.
Sotto l’arco semibuio di San Pierino, che possiede il mistero intramontabile dell’aria famigliare, proseguivo poi sempre dritto, tra odori di erbe da cucina e pizze alla marinara appena sfornate. Poi, tra negozi di antiquariato fiorentino, vedevo l’abbondanza di libri usati in pile malinconiche fuori dal negozio, profumi esotici e mi fermavo di fronte allo studio di Armand Xhomo. Armand che a parte essere un caro amico, è anche a mio avviso, un artista a tutto tondo.
Una volta arrivato lì, mesi fa, era più facile incontrarlo. Lo vedevo sempre intento a dipingere indisturbato, oltre la vetrata dello studio-negozio, mentre file di interminabili turisti sfilavano nella via di fronte. Quella Ghibellina. Armand, che lo distingueva già dall’interno dello studio, intento a lavorare, come un mondo a parte, le vedeva forse distratto, come in un grande schermo da cinema. Adesso invece, da quando aveva terminato i lavori di ristrutturazione, che gli avevano fruttato il triplo dello spazio interno, sufficienti per fare tre piani, non era più cosi facile incontrarlo.
Stava quasi sempre a dipingere nella cantina situata sotto terra, come se volesse trarre più ispirazione da quelli inferi dal sapore dantesco. Luogo che io, durante le battute tra amici avevo denominato ‘l’inferno’. Quindi, adesso, necessitava chiamarlo per telefono. Ma giù non c’era campo, quindi l’unico mezzo di comunicazione erano le urla o battendo i pugni sul vetro della porta come in un film giallo. In attesa di una comunicazione con l’aldilà, davo sempre un’occhiata ai quadri esposti nella zona ‘purgatorio’, un altro nomignolo, con cui avevo battezzato il piano terra. Anche quello durante le nostre allegre bevute da buoni amici, la parte centrale, era proprio lo spazio che i turisti sbirciavano sfilando nell’antica via, in cui l’artista esponeva anche i suoi quadri migliori. Erano tele bellissime, dai colori luminosi, dalle pennellate decise ed energiche. Tele che avrebbero fatto gola a ogni turista buongustaio. Specialmente agli americani, felici e chiacchieroni, i quali venivano a Firenze in vacanza. Arrivavano a migliaia, prima della pandemia e speriamo che riprendano perché essi sono l’unico vero ossigeno per città d’arte come Firenze, Venezia o Roma. I quadri di Armand mi attiravano sempre: traspariva in essi sempre uno spirito grintoso, molto maturo e consolidato per credere sul serio nell’arte bella della pittura. Una maestria molto abusata e dibattuta da secoli, ma che certi artisti, dopo lustri e decenni di lavoro di ricerca, ci capiscono veramente qualcosa. Uno di loro era Armand Xhomo. Gli artisti sono come degli dei in miniatura, divinità in carne ed ossa, i quali possono immolare e crocifiggere a pieno diritto le loro stesse creature come possono sublimare e glorificare perfino le emozioni più profonde del genere umano, sia con i colori, che con le parole e i suoni. Gli artisti sono veramente un popolo a parte. Ed io pensavo a queste cose mentre da oltre il vetro, osservavo alcune delle sue opere.
Mentre cercavo di mettermi in contato con lui, il telefono suonava a vuoto. Lo sapevo che era giù, immerso nel misterioso e affascinante mondo della creatività, intimo e solitario, in cui l’artista si ricongiunge perfino con il divino e con il sublime. Non rispondeva alle mie chiamate, così colpii energicamente il vetro spesso della porta. Nulla. Solo silenzio di colori in un biancore di muri tinti di calce bianca. L’idea di colpire il vetro con il mio mazzo di chiavi era un’idea migliore.
Dall’interno dello studio, spazi in cui regnava la disciplina e l’estetica impeccabile, la luce artificiale cadeva decisa su certi nudi immersi in vasche malinconiche, che sembravano come un eden di spiriti contemplativi. Più in là, altri nudi ermetici e muti, avvolti in un mistero senza né spazio e né tempo, mi guardavano malinconicamente; erano ignare donne indifferenti al pudore. Figure che se ne stavano dietro persiane serrate o sedute in poltrone oziose, in cui la luce rappresentata dall’artista filtrava come svogliata e immemore. Forse, nella nostra coscienza il pudore non esiste nemmeno? Mi balenavano in mente idee simili, mentre pensavo al modo come mettermi in contato con lui.
All’interno del nuovo studio, tutto era organizzato a piacere dell’anima, ed era esteticamente impeccabile.
Armando, veniva da una, lunga gavetta. Una gavetta cominciata negli anni Novanta in cui i sogni del futuro per noi albanesi gravavano sulle teste degli artisti come macigni. Ci ribolliva il sangue ed eravamo pronti a spaccare il mondo. Così fulgida era la nostra energia e la nostra voglia di dire cose nel mondo dell’arte.
Nei decenni, tra i mille stenti dell’esilio, Armand, con sempre al suo fianco l’insostituibile ed eterna donna Mariza, aveva sempre cercato di farsi avanti. E aveva aperto la sua strada all’arte con difficoltà, ma sempre con la ferma convinzione di farcela e con energiche gomitate, in mezzo ad una concorrenza spietata e mediocre, proponendo cavalli e tori furiosi, treni e nudi della memoria, minotauri e cristi, simboli e segni che scavavano a fondo nell’inconscio umano. Così era riuscito a creare non solo una invidiabile personalità artistica, un suo stile grazie alla ricerca, ma aveva ottenuto anche l’ammirazione e la stima di tanti addetti all’arte, critici e artisti.
L’avevo conosciuto molti anni fa a Certaldo. All’occasione del premio dato a Kadare per il romanzo “La Piramide!” nel lontano settembre del 1997, che era stata anche l’unica occasione per me in cui ebbi la possibilità di farmi una foto con il celebre scrittore della mia terra natia. Poi avevo incrociato Armando al Piazzale Michelangelo, intento a dipingere dei bellissimi acquerelli dalle pennellate infallibili, monumentali e colmi di colori freschi, da vero ed autentico artista e maestro nel campo dell’arte.
Me lo ricordo sempre così, gentile e dal portamento signorile. Uno che se lo rispetti una volta ti rispetta due volte di più. Orgoglioso e fiero di essere apparso come un vero pittore nella scena artistica internazionale. Con il grande privilegio di dimorare a Firenze, culla d’arte. Una città in cui basta lo spirito dei defunti artisti a regalarti irrefrenabili manciate di ispirazione gratuita. Appariva sempre così: di media statura e robusto, con la solita barbetta ora un po’ più brizzolata, con lo sguardo riflessivo, e il vigore prodigioso da matador. Una vitalità, la sua. paragonabile solamente a quella di Picasso. Di carattere diretto e schietto, la sorte mi ha permesso di conoscerlo a fondo a Firenze, città in cui risiedo da tre decenni.
Eravamo due di tanti, nella nostra cerchia di artisti, per quanto seri e orgogliosi, altrettanto dediti agli scherzi durante le nostre cene. Appuntamenti che erano delle vere feste, allegre e consacrate all’amicizia.
Mentre sono davanti all’entrata del suo nuovo studio ristrutturato, in attesa che arrivi, mi sento sopraffatto dalla furia delle luci interne del suo studio-negozio, sia da quella spirituale che si irradia dai quadri, che da quelle artificiali che illuminano meglio le tele, per scoprire i loro dettagli arcani da decifrare. Finalmente, lo vedo apparire dalle scale del suo ‘inferno’, energico e pensieroso, avvolto nella nube dei suoi pensieri d’artista. Emerge casualmente come un Dante in stile Palazzeschi, che ha cambiato idea e finalmente torna tra i vivi. Appena si accorge di me, sorride e arriva dritto ad aprirmi la porta. Stringe sempre la mano forte, come se volesse concludere un affare milionario e ti guarda dritto negli occhi.
Dentro, il silenzio è impeccabile, l’odore della calce viva ti punge le narici. Mi sembra di varcare un mondo nuovo, quello dello spirito in cui ogni quadro è uno stato d’animo. Tutto è in un ordine perfetto. I quadri, appesi su muri bianchi, sembrano fare a gara tra di loro, a chi mostra meglio i colori, le forme, la propria estetica perfetta, come figli dello stesso padre che si fanno concorrenza. Sono sempre stato dell’idea che lo studio di un artista sia l’origine di ogni disordine, un caos di oggetti senza identità, come la mente di uno squilibrato, come gli oggetti della memoria. Nello studio di Xhomo, invece, regna la disciplina e il rigore da boutique di alta classe. Nulla permette scivoloni estetici. Dopo le chiacchiere di routine mi fermo a guardare meglio.
In silenzio passo in rassegna gli ultimi lavori di Armand. Sono lavori partoriti durante il tempo morto della pandemia. Un tempo in cui gli artisti hanno goduto come ricci nel tirare fuori il prezioso dai loro pozzi dell’anima. Ammesso che ne abbiano avuto oro da mostrare.
“Dove ci dirigiamo, maestro!” scherzo io. “Zona paradiso, o giù nell’inferno?!” Armando, ancora nel mondo parallelo della creazione, ma pronto alla battuta, sorride. “Scelga lei!” mi prende in giro.
Mi dirigo giù a vedere che cosa esce dagli inferi. Invece dell’odore dello zolfo, sento il profumo dei colori a olio, pungente e persistente. E’ un odore intenso, eccitante, che ti risveglia il folle desiderio di spalmare colori sulla tela bianca. Che ti fa divertirsi al gusto dell’anima. Un odore misterioso che spinge ogni artista a non abbandonare mai la tela. Conosco bene quell’irresistibile odore, in preda del quale sono rimasto per ben due lunghe stagioni creative in vita mia, uscendo come ubriaco di piacere e di febbri: è un invito mostruoso.
Quando scendo, nel cavò dello studio, per via dell’aria chiusa, l’odore si fa ancora più denso e un intimo sentimento di sacro silenzio invade la psiche.
Armand fa una sorta di espressionismo simbolico. Non ha mai disdegnato la tela. Riflessivo e fresco con le sue pennellate, cerca sempre di non smarrirsi nel pericoloso astratto che spesso inganna con il suo vuoto.
Rimango muto di fronte al suo ultimo tritico di nudi. Intorno, sulle carte poste per terra, ci sono le membra squartate del suo nudo, disegnato in tutte le posizioni che l’immaginazione creativa può inventare. Sono schizzi preparatori. Donne sdraiate e abbandonate in una passività malinconica, oppure sedute, che riflettono sul tempo, sul polso fugace dell’esistenza, con i volti seri e meditativi. Figure Immerse in una dimensione temporale senza più respiro, come se giungendo nella loro piena maturità sensuale, avessero sulla pelle quasi il rammarico di una graziosa gioventù che è sgusciata via. Sono donne imprigionate in un limbo immobile della memoria, donne desiderio, donne sogno, donne immerse nell’eros, origine del mondo, ossessioni vibranti di una sensualità profonda. Due, tre. Sole. Donne che comunicano anche se sono avvolte nella loro atmosfera quasi cupa, se pur seria colma di colori accesi, in cui vibra la vita, che amano ogni frammento dell’esistenza, in cui abbondano i rossi della passione, i gialli malinconici, i blu freddi della memoria che sbiadisce forse a poco a poco. Più che tele, sono stati d’animo, penso tra me e me. Mi giro verso Armand e con una solennità in cui hanno il diritto della parola solamente le grazie femminili dei suoi quadri, dico: “In questi quadri trovo te, insieme con tutto il tuo universo!” Armand, serio e greve, con la severità tipica di un combattente, stringe le labbra, sorride con parsimonia e annuisce senza dire nulla. Sono situazioni sospese, immerse in dimensioni eterne. Siamo forse fatti di milioni di quadri inespressi, dentro di noi? Ogni stato d’animo è un capolavoro della nostra esistenza? E noi non facciamo forse, null’altro che cercare di dare forma a questi stati d’animo?! Mi avvicino al tritico, un po’ imbarazzato dalla presenza del creatore accanto a me. La sua non espressa domanda: Che ne pensi? mi leva il gusto della libertà. Avrei voluto essere da solo. Contemplare il tritico in solitudine, così le riflessioni vengono meglio.
E’ un Xhomo diverso da quello che avevo visto dieci mesi prima, all’inizio della pandemia. Se nel primo ciclo di quadri, aveva riflettuto in un modo diverso, mostrando le emozioni del vuoto e della solitudine dello spirito durante la brusca interruzione della vita, adesso le sue riflessioni si sono allargate, sono diventate più profonde. L’anima ha acquistato più colori e vitalità, in cui però, si sente anche il rammarico per una freschezza giovanile ormai lasciata dietro le spalle. Per Armand, fare l’artista è una missione. Invece per me, entrare nello studio di un pittore è, come immergersi in un mondo, universo privato e ignoto. Il suo universo.
Che vogliono dire questi nudi del tritico suo? Forse che la filosofia è più bella che la sensualità? Forse il dialogo monologo tra e dei i nudi è il proprio dialogo monologo? E questi piatti rotti all’angolo? Il bicchiere del vino abbandonato? Quella schiena girata alla vita? La ressa contemplativa della sensualità in una pioggia cascante di ciliegie forse? Tutto è stato giocato grazie ai colori rossi, blu e gialli! Addentrarsi nei quadri di Xhomo è come aprire delle magiche finestre affacciate all’interno della sua anima. E lì vedi la vita urlare, si. La vita vista al femminile, che è anche il punto più intrinseco e profondo dell’essere umano: il femminile umano. La pesantezza del pensiero è stata data con la gioia della carne, con la fiorente sensualità che vibra dentro di noi. Alla fine, mi giro da lui e sentenzio: “Sono bellissime! Hai dato la profondità con gioia!” Poi chiudo le ante del mio pensiero e vago con lo sguardo negli spazi del suo inferno. Il laboratorio di ogni artista. Noto che ha anche un quarto quadro da aggiungere al trittico. Forza, espressività e conoscenza, penso e con questo pensiero salgo le scale dello studio restaurato da poco.
Il silenzio è perforante, quasi di cristallo prossimo a incrinarsi. L’odore dei colori a olio, irresistibile, inebria la coscienza come liquore di isole fatate. “Questo è un artista!” penso tra me e me. Osservo per l’ultima volta, la donna sdraiata sul divano, in procinto di mangiare Il frutto. Ha il volto serio, ma la sua serietà e meditativa. È forse la sensualità maturata nell’uomo? Non chiedo più nulla, ma con una gioia nuova, la gioia che le opere d’arte regalano al contemplatore, pronuncio: “A tempo debito le studierò ancora!” Non parla. Poi, mi fa strada verso le rampe che odorano di calce ancora fresca. Lo spazio giù che ora brilla rispecchiando scorci d’anima d’artista, era una cantina buia, in disuso da secoli, condannata al putridume ed ai topi tristi che si nutrivano del buio. Ora, tutto è stato tradotto in colori, immagini, simboli, emozioni, stati d’animo. È un Xhomo diverso. Diverso da quello dei tori, dei treni, delle maschere, dei cavalli, delle oniriche contemplazioni meridiane, in cui nudi che pullulavano nell’inconscio si appoggiavano su animali mitologici. È un Armand sobrio. Più conscio del tempo che se ne va, delle orme che il bello imprime nelle sabbie della vita. È un Armand che gioisce pensieroso, si ferma a meditare, come un filosofo a colori. È un Xhomo che merita più di quello che ha avuto fin ora dal mondo. Ma tutto è aperto di fronte al futuro, ed il bello è proprio lì. Nella lotta, nella speranza, nella grinta di combattere e realizzarsi appieno come artista. Uomo. Nella ostinazione e nella fiducia di farcela anche ai livelli alti lì sta proprio il bello.
Mentre penso a queste cose, salgo le rampe, come negli spirali danteschi, fino al limbo. Oltre l’orizzonte, poco a poco, si sta schiarendo. Abbiamo già passato zona purgatorio, come nelle scale di san Miniato descritte nella commedia. Poi ci avviamo in cima, verso la zona paradiso a rallegrarci con vino di Porto e salatini, parlando di tutto. Chi se ne frega del colesterolo. Mi siedo abbagliato da un comodo senso di riposo, accavallo le gambe sulla poltrona, e attendo il proprietario che si è assentato per un momento. Mentre aspetto, nel silenzio della zona: discussioni e chiacchiere da artisti, prendo un foglio pubblicitario a colori e leggo: “Via Ghibellina 105-7! Artstudio Xhomo!”
Ma Dante non era forse Guelfo? Oppure l’odio così forte quasi lo fece cambiare casacca.
01 04. 2021. Rivisto il 07 06 2021.