Sono stato arrestato a mezzogiorno dell’8 novembre, giorno di festa. Si commemorava la fondazione del Partito che guidava il paese e, senz’ombra di dubbio, questo era innegabilmente uno degli anniversari più importanti e delicati. Un tempo il Partito era stato Comunista; illegale durante la guerra, temprato da attentati, tradimenti, massacri e misteri, in seguito cambiò solo nome e divenne Partia e Punës, Partito del Lavoro.
Secondo una legge non scritta, in date così significative non si arrestava nessuno, per non esibire durante la festa manette, violenza o cani poliziotto; e se anche la legge fosse stata scritta, non sarebbe cambiato nulla. Si diceva che avrebbero fatto eccezione i casi flagranti, ma non si doveva rovinare mai l’allegria della gente, che doveva gioire a tutti i costi, se necessario a forza. Si potevano mai turbare gli applausi, i balli, i discorsi, quell’eccitazione generale, per ottenere i quali erano stati versati fiumi di sangue? Naturalmente, per costruire un mondo nuovo, il socialismo e dove? Nella tana del lupo, tra i nemici esterni e quelli interni. Sicché, se un qualsiasi tentativo di rovesciare il regime, una qualsiasi forma di opposizione, anche una mera opinione, espressa per mezzo di volantini o di bombe, oppure di attentati – che orrore! – intrighi per costituire un altro partito… “che osassero pure, anche soltanto in sogno, e vedrebbero spiccare le loro teste, e non solo le loro”; bastava una semplice calunnia, un sussurro ambiguo, e si sarebbe intervenuti fulmineamente, purché la festa continuasse. E la folla festante sarebbe stata abbacinata ancor di più quando, nel culmine del tripudio generale, avrebbe assistito a un arresto, era come acquisire più dramma e solennità, sovrasenso… “che Stato potente”, direbbero, “grazie al nostro fucile, i nemici sono stati impotenti!” Insomma, occorreva amplificare la paura, sempre, ovunque. E con essa, l’adorazione. Per chi sta in alto. Non per gli dèi, affatto, questi da tempo erano stati destituiti.
– Ehi tu, vieni via con noi!
Perché, senza essere neppure iniziata, la festa è già finita? Non ci sono altri spettacoli, un altro atto, tutto qui? Che cos’era questa sosta sulla strada principale, vicino alla piazza di Kukës Nuovo, dove da diversi anni lavoravo come insegnante, ma più lontano, non a ridosso della prima montagna, ma ancora più lontano, dopo l’altra montagna, e poi dopo l’altra, e ancora nuove montagne, verso la fine del mondo?!
Una festa ci sarebbe stata, perché si rivestiva la tribuna di rosso, quindi si prevedeva un concerto o una manifestazione, o entrambi. Che si stesse preparando qualche esecuzione? Su un grande schermo (fatto di lenzuola cucite provenienti dal vicino ospedale) sarebbero state proiettate le parate della capitale, quelle dello scorso anno o dell’anno precedente, o dei primi anni, tanto erano uguali, con la sfilata dei ritratti del dittatore e l’immancabile emblema del socialismo: in una mano il piccone, il fucile nell’altra.
E la folla di qui si fonderebbe con la folla di là, inseparabile e atemporale, con gli stessi cartelloni ondeggianti sopra le teste. Tra il rombo dei tamburi, i fremiti, gli stendardi, le banderuole, le altre lenzuola appese sui balconi che garrivano al vento come lingue di fiamme, avrebbe parlato il compagno Enver, no, non lui, ma il suo simulacro filmato, differito, e subito dopo, dal vero, il primo segretario del distretto, e tutto sarebbe apparso come la prosecuzione dello stesso discorso, dacché tutti i dirigenti imitavano la sua voce, miscelando entusiasmo e ordini, chiedendo ulteriori inasprimenti della lotta di classe, perché se il fiume dorme, certo non dorme il nemico. Successi e solo successi. E condanne. Ma avrebbero parlato del mio arresto?
– Ehi tu, cammina con noi! – Mi ripresero malamente, lo percepii io. Bastò quel gesto e anche la festa fu annullata. Un arresto eseguito non molto lontano dal grande ponte, dove le acque dei due Drin, il Nero e il Bianco, non dormono affatto. Sapevo che defluiscono dall’altra parte del confine, l’uno dalla Macedonia, pieno di schiuma violenta e di vortici, più si avvicina e più si annerisce, come se assorbisse il colore delle nostre sofferenze; l’altro scende dalla Kosova con il pallore delle allucinazioni. Poco oltre si eleva la prima montagna dal nome di mestizia: Pikëllimë, “Tristezza” appunto. Sotto la sua ombra, in un bar senza nome, mentre sorseggiavo un caffè con il regista del Teatro delle Marionette, mi chiamarono fuori bruscamente.
– Ehi tu, cammina con noi! – mi fu ripetuto.
Non osai contestare, forse perché conoscevo chi mi chiamava, un segalino scialbo come il negativo di un fotogramma, l’operativo della polizia politica, la Sigurimi della zona. S’atteggiava da duro. Che fosse accaduta qualche sventura laggiù da dove venivo io, un decesso o un terremoto e avrei dovuto sopportare il peso della sciagura? (Dimmelo!).
Ma lui teneva la mano conficcata nella tasca del giubbotto dove si delineava una specie di canna. Il revolver… Anche il regista delle Marionette si irrigidì, come i suoi pupi, che m’apparvero per un attimo, irridenti come il male, lì nel suo studio, dove m’ero recato per incontrarlo. Voleva che scrivessi qualcosa sul suo teatro. Farfugliai le mie scuse per l’interruzione dell’incontro… Lasciai il caffè a metà… si raffredderà… non lo avrei mai più bevuto, pensai fugacemente… e lui, quando se ne andrà, zoppicherà di più, compassionevolmente… e mi trovai davanti a una macchina nera, ferma. “E queste persone attorno, sono qui per caso? Perché mi guardano così foscamente?”
– Entra! – quasi mi spinsero.

L’opinione
Un volume che nasce quando Visar Zhiti è fuori dal carcere e quando, ormai, il regime non è più al governo questo Sulle strade dell’inferno. La mia vita nel carcere di Spaç, per la traduzione del prof. Matteo Mandalà. La memoria, tanto cara all’autore, è il primo filo conduttore che traina le vicende narrate. Le rimembranze diventano la culla della verità, posta come seconda tematica inducente le storie raccontate.
Un libro corale, in cui lo scrittore descrive con sofferta lucidità quanto è accaduto in quei dolorosi dieci anni di prigione, scontati dopo la condanna inflittagli dal regime, con l’accusa di propaganda contro la dittatura. Un penna sofferta quella di Visar, il cui pensiero corre alle sue poesie valutate come contrarie al regime, messe a sigla della sua reclusione forzata. Scrivere questo libro, ha significato rivivere emozionalmente quelle esperienze e farsi, al contempo, portavoce del dolore vissuto dai suoi compagni di prigionia, che ha visto affamati, maltrattati e morenti, sentendosi totalmente impotente.
Gli scritti di Visar abbracciano totalmente gli elementi caratterizzanti la letteratura carceraria, nata proprio dalla penna di coloro che hanno voluto raccontare quanto accaduto a se stessi e a tanti intellettuali dell’epoca: il regime li zittiva con la prigione e nei casi più estremi con la pena capitale. In quasi tutti i suoi componimenti si evince il dolore di quanto subito e di quanto visto e nonostante questo, l’autore tenta sempre di lasciare una nota di positività, in special modo attraverso la sua poesia.
In questo Sulle strade dell’Inferno, la scrittura si fa aspra e particolarmente amara, la prosa, in alcuni punti diventa tagliente e quello che arriva è dolore e ingiustizia, accompagnati da un profondo senso di inadeguatezza. Il lettore, a dispetto di ogni sforzo di entrare nella storia, di trascinarsi in un mondo spaventoso, rimane spettatore inerme e inevitabilmente giudicante. Un giudizio che giunge da chi legge e che si confronta con l’angoscia, lo strazio, il patimento e il dispiacere di chi scrive. La nota di positività tanto cercata, sempre assente.
Un libro forte, un memoriale di grande importanza storica, che nonostante la sua imponente mole si legge senza perdersi negli anfratti di una scrittura che a tratti si fa importante, non perdendo mai la sua elegante semplicità.