«Allora? Come sto?» Fatima aveva lavorato tutta la notte con sua sorella. Alla fine il risultato del loro lavoro era stato notevole, anzi ad onor del vero proprio brillante. Una bella gonna pieghettata di tessuto tartan in lana quadri bianchi e neri, lunga quasi alla caviglia ed un giacchino bianco con fiori stilizzati ricamati a mano, nei toni che andavano dal grigio perla al nero. Sotto al giacchino una camicia bianca con dei graziosi bottoncini neri col gambo. Aveva fatto una piroetta facendo aleggiare la gonna in tutto il suo volume e calzato un paio di scarpe nere con la fibbia laterale ed un po’ di tacco che stavano a meraviglia con il suo nuovo abbigliamento. «Bellissima!» aveva risposto Gushi.
«Sembri un’attrice americana, come quelle dei film d’amore che proiettano al Vatra e kultures.» I Vatra e kultures o Focolari della cultura erano le sedi che il Partito deputava agli incontri educativi della popolazione, una sorta di auditorium dove da udire c’erano soprattutto regole ed imposizioni. In Albania ogni paesino di campagna ne aveva uno, come aveva un ambulatorio, un negozio di alimentari ed un centralino telefonico. Il Partito garantiva ed ammetteva l’indispensabile ad ogni comunità. Fatima guardò fuori dalla finestra della loro stanza. Era una bella giornata e sul lago dondolavano le piccole barche dei pescatori. Il sole che stava sorgendo proiettava le ombre dei salici sulle acque placide. I lunghi rami penduli accarezzavano la superficie specchiata.
La bruma si disperdeva lentamente facendo pian piano comparire ciuffi di canne che una leggera brezza spettinava appena. Lungo la strada che correva parallela alla riva, fin dove la ragazza poteva allungare lo sguardo, tutto era già in movimento. Tra le case di pietra di Belёsh Di Elbasan con gli spioventi di tegole rosse, la gente si muoveva già pronta per affrontare il nuovo giorno. Anche lei era pronta per il suo primo giorno di lavoro: Mёsuese di Shkolla Fillore, maestra di scuola elementare. Non stava più nella pelle. Non vedeva l’ora di arrivare a scuola e di iniziare la nuova vita. A soli diciotto anni lei sarebbe stata la prima insegnante di genere femminile nella Shkolla 8-vjecare del suo paese. Sapeva bene che sua madre era combattuta tra l’orgoglio di avere una figlia così intraprendente e l’imbarazzo di essere la madre di una ragazza cosi fuori dagli schemi da potersi considerare quasi scomoda, tuttavia Sabirè, sua madre appunto, per lei aveva venduto latte e uova prodotte dagli animali che loro stessi allevavano, cosa vietata dal regime in quanto i prodotti degli allevamenti erano proprietà statale. Con il ricavato del reato le aveva comprato sottobanco due bei tagli di tessuto perché lei potesse presentarsi a scuola in ordine e ben vestita per il suo primo giorno di lavoro.
«Cerca di essere all’altezza del compito» le aveva raccomandato «e sii molto riservata, stai sempre al posto tuo e non metterti a discutere con nessuno, ché io ti conosco! Ricorda sempre che le donne non possono misurarsi con gli uomini e devono stare al posto loro! Così deve essere! Non disonorare tuo padre ed i tuoi fratelli!» «Ma mamma! Non siamo più all’età della pietra!» «Fatima, fai come ti dico altrimenti lo sai che tuo padre metterà immediatamente fine alla tua carriera di maestra. Lo sai bene che al minimo sbaglio… È già una cosa straordinaria che tu sia riuscita ad arrivare fin dove sei arrivata! Vuoi diventare argomento di discussione al Vatra e kultures?»
Fatima aveva abbassato gli occhi e guardato l’orlo del vestito di sua madre che toccava il pavimento: «Va bene, mamma. Farò come dici.» La madre l’aveva baciata e benedetta: «Bismilahi rrahmani rrahim.» Fatima aveva preso la sua borsa: «Bismilahi rrahmani rrahim» ed aveva infilato la porta seguita da Hasan. Sabirè infatti, per salvaguardare l’onore della famiglia non le permetteva di recarsi al lavoro da sola e le aveva imposto di giungervi accompagnata tutte le mattine da suo nipote, primogenito di Ganì, il maggiore dei suoi figli. Quell’anno il bambino era in terza elementare. C’era anche qualche probabilità che diventasse uno degli allievi di Fatima.

L’opinione
Si chiama Fatima l’indiscussa protagonista di questo Il profumo dei giacinti selvatici ed è attraverso il racconto di vicende realmente accadute (la scrittrice si è ispirata a una storia vera), che Rosa Maria Vinci delinea il percorso storico-sociale del popolo albanese. Partendo dalla figura della giovane protagonista e dalla sua vita, l’autrice racconta la storia di una saga familiare che attraversa l’esistenza di uomini e donne albanesi di diverse generazioni, nel tentativo di consegnare al lettore un’equilibrata mistura di Storia, storie, usanze, lotte, sofferenze ed emozioni che hanno avuto un peso rilevante sulle mutazioni riguardanti l’Albania.
A fare da sfondo agli eventi che caratterizzano la storia di Fatima, in un mondo di costrizioni come quello plasmato dalla dittatura prima e dalle “regole” dettate dall’emigrazione dopo, sono i cenni storici, indubbiamente frutto di studio, che forse andavano trattati con qualche accuratezza in più.
In verità, nonostante venga data una discreta rilevanza ai fatti storici, alle tradizioni e agli usi dell’Albania rurale, la Vinci richiama sapientemente l’attenzione del lettore sul ruolo della donna nella società albanese sin dai tempi del regime, sulle scelte sofferte di chi è costretto ad abbandonare la propria terra (con difficoltà maggiori se lo status è quello di donna), sentendosi straniero nel territorio che lo accoglie e finendo con il sentirsi altrettanto estraneo ad ogni ritorno nella propria Patria. Fatima osteggia il contraddittorio interiore aggrappandosi al forte legame con le radici, padre della sua forza e prezioso supporto nel processo necessario di integrazione.
L’attaccamento agli etimi, il percorso tutto in salita della donna nella società albanese, la sua energia interiore, l’urgenza di ritrovare un’adeguata armonia dentro e fuori la sua Patria sono le matrici pulsanti di questo volume, che non ha le caratteristiche di un romanzo storico, ma ha tutte le carte in regola per offrire una valida e apprezzabile idea di come le trasformazioni storico-sociali influenzino e possano essere, in qualche modo, riconducibili alle vicende del singolo individuo. Un concetto valido, quest’ultimo per la realtà albanese ed estendibile ad altre storie, ad altre nazioni.
Una penna semplice quella della Vinci, non banale, seppur ancora acerba e bisognosa di continuare il suo percorso di crescita, che rende la lettura fluida, consegnando al pubblico un piacevole romanzo.