Stefano Amato (1987), calabrese di nascita (Frascineto, Cs) e piacentino di adozione, è docente di Storia dell’Arte. Si è qualificato in numerosi concorsi letterari, tra i quali Rai La Giara 2015, (finalista regionale), con il romanzo T’rraft pika; si è piazzato al secondo posto al concorso “Gocce di Inchiostro” di Viola Editrice, grazie al racconto Profughi (2016). Lo ritroviamo ancora sul podio del “Premio letterario V. Gentile”, con il libro Guerino e il Drago (2016); ha ricevuto la Menzione di merito al “Premio letterario Gustavo Pece” con la novella Storia di Haidhjar (2016).
Nel 2016 ha pubblicato il saggio storico Frascineto tra Medioevo e Neobizantinismo con STAMEN edizioni e il racconto Storia di una Stella caduta dal cielo per amore, nell’antologia La Fine di un Amore della Montegrappa Edizioni.
Nel 2017 ha visto la luce la storia per bambini Le Avventure della Strega Giurgiulè con la Temperino Rosso Edizioni. Sempre nel 2017 è arrivato secondo al concorso “Floc l’amico dei bambini” della Giovanelli Edizioni, premio che gli ha permesso di pubblicare il testo di Guerino e il Drago.
Nel 2023, Neri Pozza Editore ha dato alle stampe il suo ultimo lavoro, L’ultima candela di Krujë, incentrato sulla figura dell’eroe albanese Gjergj Kastriota Skanderbeg, che guidò la lotta contro gli ottomani. Nell’intervista che segue, Amato narra del libro recentemente uscito e dei ricordi che lo legano alle sue origini. Buona lettura.
Perché decidi di scrivere L’ultima candela di Krujë?
Mi sono chiesto, più volte, cosa avessero provato i miei avi quando sono arrivati in Italia: domande che hanno trovato risposte vaghe, lasciando inalterata la mia curiosità. Crescendo, ho amato i libri di Carmine Abate, considerato il precursore della narrativa arbëreshë, un autore che, nei suoi romanzi, ha provato a ricostruire questo stralcio di storia. La Calabria albanese non è, però, tutta uguale: il lungo feudalesimo che l’ha segnata, ne ha frantumato la storia in tante piccole realtà.
Ho così provato a ricucire la mia cultura subalterna arbëreshë, con la storia medievale albanese, ricavandone un romanzo che prova a ripercorrere quanto è accaduto, raccontando la vita di Hënëza, una giovane serva di Skanderbeg, che a causa dell’invasione dell’Albania, da parte dei turchi, vede i suoi sogni franare. Costretta alla fuga in Italia, giunge nel Regno di Napoli, dove, oltre a raccontare il suo dolore, riferisce anche della nascita dei primi insediamenti arbëreshë.
Nella narrazione nulla è lasciato al caso, soprattutto nei riferimenti storici. Quanto studio e preparazione ha richiesto la stesura del testo?
Devo ammettere che non ho condotto lo studio con la finalità di scrivere il romanzo, bensì con lo scopo di ultimare la tesi di laurea. Nel 2015, ho conseguito una seconda laurea magistrale in Scienze del Turismo, oltre a quella in Storia dell’Arte e la tesi si è basata sull’analisi di uno degli insediamenti arbëreshë in Italia: Frascineto. Ho scoperto una parte della storia che non conoscevo, in modo particolare i legami tra Skanderbeg e gli aragonesi. Così, ispirato da quanto avevo appreso, ho scritto un racconto di una ventina di pagine, che è rimasto nella cartella del computer per sei anni.
In realtà, è capitato tutto, così, per caso. In quel periodo avevo appena concluso la lettura del libro di Angela Nanetti, Il figlio prediletto, edito da Neri Pozza: la scrittura mi aveva talmente affascinato, da spingermi a cercare notizie sull’autrice. In questo modo, sono venuto a conoscenza del Premio, in quanto Nanetti era stata tra i finalisti della sua prima edizione. Casualità ha voluto che il bando della quinta edizione fosse ancora aperto e ho pensato di potermi candidare proprio con L’ultima candela di Krujë . Ho cominciato a lavorare incessantemente al testo, recuperando l’idea del racconto e scrivendo il romanzo. Intrecciare la storia quattrocentesca dell’Albania, con quella del Regno di Napoli e della provincia di Calabria Citra non è stato semplice, anche se ha rappresentato la parte del lavoro che più mi è piaciuta.
E non potevano di certo mancare le tradizioni popolari albanesi e arbëreshë o i costumi religiosi, con cui ho provato a far emergere il vissuto di ogni giorno, ma anche la continuità culturale che c’è tra Albania e Arbëria. Ancora oggi, non so come, ma sono riuscito a mettere insieme i vari pezzi e devo averlo fatto bene, visto che mi hanno selezionato.
Ammiri di più l’uomo o il mito Skanderbeg?
Credo che l’eroe albanese sia stato un grande diplomatico, forse poco conosciuto, nonostante la vicinanza tra il Paese delle Aquile e l’Italia. Sicuramente, la sua storia è giunta a noi molto mitizzata, per mano di Marino Barlezio, che comunque rimane la fonte più completa e prossima alla vita del Castriota.
Al di là dell’uomo e del mito, Skanderbeg è l’unica figura che ha provato davvero a difendere l’Albania dall’invasione turca, divenendo, forse, uno degli ultimi crociati. E se i profughi scappati dal Paese, nella seconda metà del Quattrocento, hanno mantenuto vive la lingua e la religione, per oltre cinquecento anni, probabilmente lo hanno fatto per sentirsi ancora legati alla madrepatria e per non farsi sottomettere dallo “straniero”, proprio come aveva insegnato loro il principe.
Non a caso c’è sempre stata molta diffidenza da parte degli arbëreshë verso gli italiani, che tutt’oggi vengono chiamati “lëtiret”, i latini, per meglio definire la diversità culturale.
Sei cresciuto nella comunità arbëresh di Eianina. Cosa porti con te di quel pezzo di vita?
Ho lasciato il paese quasi vent’anni fa, quindi, è un luogo legato, in modo particolare, ai ricordi della mia infanzia. Seppure abbia ormai perso il senso di appartenenza alla comunità di origine, ho mantenuto salda l’identità arbëreshë, che mi è rimasta dentro: quando parlo con mia madre, anche se non ho più molta padronanza della parlata, dua te fjas te gjuha jone, desidero comunicare nella nostra lingua; sento il legame con le mie radici quando mi dedico alla cucina, quando mi scappa un’imprecazione.
Ancora oggi, non celebro la ricorrenza dei defunti il 2 novembre, ma il sabato che chiude la Settimana delle Anime del Purgatorio, secondo il calendario della chiesa bizantina. I detti dei vecchi sono reali perle di saggezza e uno tra i più belli recita così: gjaku s’bëhet uj, “il sangue non si fa acqua”.
Puoi scappare quanto vuoi dalla tua terra, allontanarti di centinaia o migliaia di chilometri, ma, a un certo punto, avverti il richiamo del sangue, che si palesa sotto forma di malinconia. Senti la mancanza dei “vecchi” di famiglia, che non ci sono più e cerchi di colmare il vuoto che lasciano, con i ricordi. Quando ho nostalgia di Eianina, chiudo gli occhi e rivedo mia nonna tornare dalla messa, canticchiando la kalimera di Santa Lucia, ndera jote Shë Luçì si diell zbukuron, “il tuo onore Santa Lucia risplende come il sole”, per poi stringermi la mano e chiamarmi Ojbi, figliuolo.
La vedo mentre mi afferra la mano e mi accompagna, per farmi sedere accanto alla vatra, il focolare, nel posto più caldo. Arriva anche mia mamma, con olio e farina, insieme ad altre signore del vicinato, di cui non ricordo i nomi. Impastano, intanto che chiacchierano, sedute attorno al fuoco. Le loro voci si intrecciano tra canti e pettegolezzi e nel frattempo, petullat tiganisjen te zjarri, le frittelle friggono nell’olio bollente; l’odore di fritto impregna l’aria e si mescola al fumo che esce dal camino, quando il vento soffia contrario. E io, bambino, mentre attendo il primo assaggio, vengo travolto da qualcosa che mi appartiene e che continuerà a vivere dentro di me: l’identità arbëreshë.
Nei tuoi libri tratti tematiche di grande intensità e di rilevanza sociale. Narri di famiglia, di omosessualità, degli orrori della guerra. Questa scelta è dettata solo dalla necessità di denuncia o nasce da qualcosa di personale che, nella vita, ti ha particolarmente colpito?
Per poter denunciare le ingiustizie tramite i libri, bisogna essere noti e rispettati, in qualità di scrittori. Io, al momento, sto provando a emergere per farmi conoscere. Magari, un giorno, i miei libri saranno noti e, nel mio piccolo, potrò far smuovere qualche coscienza. Chissà. Per il momento scrivo per passione personale, seguendo l’ispirazione del momento.
Con L’ultima candela di Krujë hai vinto il Premio Neri Pozza, sezione giovani. Cosa ha significato per te questo riconoscimento e cosa pensi dei Premi Letterari?
Il Premio Neri Pozza ha significato un traguardo importante ed è sicuramente un’opportunità che mi è stata offerta. Spero di saperla sfruttare al meglio. Quindi, ringrazio molto il Circolo dei Lettori di Milano che mi ha selezionato per il premio dedicato agli under 35. Diversamente, non so se sarei stato qui, perché ho concorso con autori di esperienza, come Pierpaolo Vettori, dal curriculum letterario più che rispettabile.
Credo che i premi siano motivanti o, almeno, lo sono per me: costituiscono uno strumento per confrontarsi con se stessi, per migliorarsi, senza troppe pretese e continuare ad avere fiducia nelle proprie capacità, anche di fronte ai rifiuti. A mio avviso, rappresentano un modo per farsi conoscere, soprattutto quando si è imperfetti nella scrittura e credo che la cosa bella sia proprio la libertà di essere tali e piacere comunque, perché vieni valutato per l’idea che hai e per ciò che vuoi trasmettere.
È importante anche il fattore meritocratico, in quanto non tutti hanno la possibilità di rivolgersi a un’agenzia letteraria o a un professionista, correttore di bozze, opzioni che hanno dei costi non indifferenti. Quindi, il concorso letterario, se affidabile, rappresenta un’interessante alternativa.
Progetti futuri?
Voglio intanto godermi questo momento e magari, tra un po’ di tempo, provare a riprendere i manoscritti lasciati a riposare nelle cartelle del desktop.
E poi, mi faccio un augurio: mi piacerebbe, un giorno, poter vedere L’ultima candela di Krujë tradotta in albanese.