La spada di Skanderbeg è la lunga poesia scritta dal martire e beato monsignor Vinçenc Prennushi, tratta dall’antologia Foglie e fiori. Patria e fede nelle poesie di un martire in Albania, pubblicata da Grecale Edizioni, 2022. Il componimento, di14 strofe di 8 endecasillabi ognuna, vuole essere un invito rivolto all’eroe contemporaneo Guglielmo di Wied, affinché possa raccogliere l’eredità del glorioso patriota albanese Giorgio Castriota Scanderbeg, per riprenderne le epiche gesta contro il nemico e imitarne la fede nell’aiuto divino. L’intero volume Foglie e fiori, che abbiamo recensito, raccoglie i versi e le parole del martire, a emblema del perfetto equilibrio tra il suo profilo letterario e quello spirituale.
La spada di Skanderbeg
Cosa fu mai che sconvolse gli abissi,
fece tremare montagne e colline?
E Skanderbeg dall’urna chi destò?
E l’ossa sue chi osò profanare?
Guardate! Si erge…Le sue antiche vesti
sta indossando, comincia ad aggirarsi.
D’udire voci umane invano aspetta
nelle terre occupate dal nemico.
Leggera e maestosa la sua ombra
errando va per i monti e le valli,
nei tumuli di terra insanguinati
l’orma egli scorge che lasciò il nemico.
L’atrocità, la morte regna ovunque.
Natura tace e non sa cosa fare:
anche la roccia sopra i monti piange
e i fitti boschi stanno a lacrimare.
Qual mano fu la corona d’ora
nel fango profanò? Dell’Albania la fiera fronte sempre onesta e dritta
nei dì migliori, perché è impallidita?
Furon sconfitti i forti, i vittoriosi,
in armi ed in prodezze celebrati?
Debole è il cuore, sciolta è l’alleanza
ora che l’onda torna ancor più forte?
Venite, venite, madri albanesi,
voi che cullaste sempre solo eroi;
venite a dir: quale traditrice mano
privare volle i nidi della vita?
Se la morte portò mano straniera,
ora per voi la mai domata furia
s’abbatterà sul nemico straniero:
un solo motto egli da voi si aspetta.
Nei campi che fioriscon di giacinti,
sulle acque che specchiavano le zane,
nei prati in cui cantava l’usignolo,
oggi si sete il gufo sulle tombe.
Dove il bestiame riposava all’ombre
che di campestri danze risuonavano,
in quell’Eden la mano traditrice
volle piantare irti cespugli e spine.
Passa e ripassa quell’ombra regale,
quale raggio di sole all’albeggiare,
qual assordante fulmine di fuoco,
e mosse il passo suo verso il Kossovo.
Si ferma…Siede…Si mette a scavare
di qua e di là nella terra albanese
e vede allora sui materni petti
bimbi trafitti quivi riposare.
In petto allora gli s’accende l’ira,
porta la mano ed afferra la spada:
“Non è – egli dice – debolezza nostra,
ma il tradir del nemico. Maledetto
sia chi la croce offese e poi giurò
di sterminare chi è nobile e prode.
Schiavo nella sua terra l’albanese
chi l’augurò per primo nei Balcani?
Aprite, o tombe: i vivi stanno fermi!
In piedi, o prodi che mi foste a fianco:
decise Europa in un convegno triste
di dare tutto ai Serbi nei Balcani”
Disse. Poi mise fuori la sua spada
e già contro i nemici la brandiva
per colpire chi la patria offendeva.
Ma si fermò: lontan qualcosa vide…
Che vide, o zana, con gli occhi lucenti,
che scuri furon fino allora e torvi?
Perché sì dolci ora li volge al cielo?
Nel cuore suo chi portò la pace?
Fu la preghiera che lo rese mite
e la benedizione che Dio pose
su quella terra dove lui, Kastriota,
respinse e vinse ondate di nemici?
Sì, quella fu. Egli vide il vigore
di quella terra allora indebolita
fare ritorno. E l’Albania sarebbe
con la sua gente libera di nuovo.
E vide allora il nuovo condottiero
animo prode, nobile e gentile;
sentì come la gente l’accoglieva
e prese far ritorno al suo sepolcro.
E quivi, inginocchiato, volse a Dio
una preghiera che così diceva:
“Dio degli eserciti, ecco a te la patria
affido: falla crescere felice”.
E sulla tomba, nel poggiar la spada,
vi volle sopra incider con la mano:
‘A Guglielmo di Wied’. Guardando intorno
l’ombra non vide più, ché era sparita.
“Prendi la spada che è del Kastriota,
re Guglielmo, speranza d’Albania.
È a te che guarda ora, o re, tutto il mondo,
che gli Albanesi chiami al tuo vessillo.
Prendila, ed i nemici minacciosi
timore avranno di quest’arma tua.
Finché del re la mano avrà la spada,
nessuno a noi calpesterà i diritti.
Nulla può l’orda, può più un cuore ardito,
è la nostra fierazza ed onestà.
Quest’onestà che che fin dai tempi antichi
mai venne meno e fu riconosciuta,
che santa fu per tutti gli Albanesi,
l’onestà che la nostra terra antica
così distinse tra i tanti altri stati,
posto d’onore dando nei Balcani.
Per te, Wied, gioiscono gli Albanesi
e pronti sono a dar per te la vita.
In uno tutti a te si sono uniti,
tuoi testimoni per il mondo intero.
Di te echeggiano i monti e le pianure:
paura sentono i nemici nostri.
“Evviva il re: che nelle sue mani
risplenda ognor di Skanderbeg la spada”.