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La spada di Skanderbeg, l’eroica poesia di Vinçenc Prennushi

Anna Lattanzi Anna Lattanzi
12 Ottobre 2022
Vincenc Prennushi

Vinçenc Prennushi

La spada di Skanderbeg è la lunga poesia scritta dal martire e beato monsignor Vinçenc Prennushi, tratta dall’antologia Foglie e fiori. Patria e fede nelle poesie di un martire in Albania, pubblicata da Grecale Edizioni, 2022. Il componimento, di14 strofe di 8 endecasillabi ognuna, vuole essere un invito rivolto all’eroe contemporaneo Guglielmo di Wied, affinché possa raccogliere l’eredità del glorioso patriota albanese Giorgio Castriota Scanderbeg, per riprenderne le epiche gesta contro il nemico e imitarne la fede nell’aiuto divino. L’intero volume Foglie e fiori, che abbiamo recensito, raccoglie i versi e le parole del martire, a emblema del perfetto equilibrio tra il suo profilo letterario e quello spirituale.

La spada di Skanderbeg

Cosa fu mai che sconvolse gli abissi,

fece tremare montagne e colline?

E Skanderbeg dall’urna chi destò?

E l’ossa sue chi osò profanare?

Guardate! Si erge…Le sue antiche vesti

sta indossando, comincia ad aggirarsi.

D’udire voci umane invano aspetta

nelle terre occupate dal nemico.

 

Leggera e maestosa la sua ombra

errando va per i monti e le valli,

nei tumuli di terra insanguinati

l’orma egli scorge che lasciò il nemico.

L’atrocità, la morte regna ovunque.

Natura tace e non sa cosa fare:

anche la roccia sopra i monti piange

e i fitti boschi stanno a lacrimare.

 

Qual mano fu la corona d’ora

nel fango profanò? Dell’Albania la fiera fronte sempre onesta e dritta

nei dì migliori, perché è impallidita?

Furon sconfitti i forti, i vittoriosi,

in armi ed in prodezze celebrati?

Debole è il cuore, sciolta è l’alleanza

ora che l’onda torna ancor più forte?

 

Venite, venite, madri albanesi,

voi che cullaste sempre solo eroi;

venite a dir: quale traditrice mano

privare volle i nidi della vita?

Se la morte portò mano straniera,

ora per voi la mai domata furia

s’abbatterà sul nemico straniero:

un solo motto egli da voi si aspetta.

 

Nei campi che fioriscon di giacinti,

sulle acque che specchiavano le zane,

nei prati in cui cantava l’usignolo,

oggi si sete il gufo sulle tombe.

Dove il bestiame riposava all’ombre

che di campestri danze risuonavano,

in quell’Eden la mano traditrice

volle piantare irti cespugli e spine.

 

Passa e ripassa quell’ombra regale,

quale raggio di sole all’albeggiare,

qual assordante fulmine di fuoco,

e mosse il passo suo verso il Kossovo.

Si ferma…Siede…Si mette a scavare

di qua e di là nella terra albanese

e vede allora sui materni petti

bimbi trafitti quivi riposare.

 

In petto allora gli s’accende l’ira,

porta la mano ed afferra la spada:

“Non è – egli dice – debolezza nostra,

ma il tradir del nemico. Maledetto

sia chi la croce offese e poi giurò

di sterminare chi è nobile e prode.

Schiavo nella sua terra l’albanese

chi l’augurò per primo nei Balcani?

 

Aprite, o tombe: i vivi stanno fermi!

In piedi, o prodi che mi foste a fianco:

decise Europa in un convegno triste

di dare tutto ai Serbi nei Balcani”

Disse. Poi mise fuori la sua spada

e già contro i nemici la brandiva

per colpire chi la patria offendeva.

Ma si fermò: lontan qualcosa vide…

 

Che vide, o zana, con gli occhi lucenti,

che scuri furon fino allora e torvi?

Perché sì dolci ora li volge al cielo?

Nel cuore suo chi portò la pace?

Fu la preghiera che lo rese mite

e la benedizione che Dio pose

su quella terra dove lui, Kastriota,

respinse e vinse ondate di nemici?

 

Sì, quella fu. Egli vide il vigore

di quella terra allora indebolita

fare ritorno. E l’Albania sarebbe

con la sua gente libera di nuovo.

E vide allora il nuovo condottiero

animo prode, nobile e gentile;

sentì come la gente l’accoglieva

e prese far ritorno al suo sepolcro.

 

E quivi, inginocchiato, volse a Dio

una preghiera che così diceva:

“Dio degli eserciti, ecco a te la patria

affido: falla crescere felice”.

E sulla tomba, nel poggiar la spada,

vi volle sopra incider con la mano:

‘A Guglielmo di Wied’. Guardando intorno

l’ombra non vide più, ché era sparita.

 

“Prendi la spada che è del Kastriota,

re Guglielmo, speranza d’Albania.

È a te che guarda ora, o re, tutto il mondo,

che gli Albanesi chiami al tuo vessillo.

Prendila, ed i nemici minacciosi

timore avranno di quest’arma tua.

Finché del re la mano avrà la spada,

nessuno a noi calpesterà i diritti.

 

Nulla può l’orda, può più un cuore ardito,

è la nostra fierazza ed onestà.

Quest’onestà che che fin dai tempi antichi

mai venne meno e fu riconosciuta,

che santa fu per tutti gli Albanesi,

l’onestà che la nostra terra antica

così distinse tra i tanti altri stati,

posto d’onore dando nei Balcani.

 

Per te, Wied, gioiscono gli Albanesi

e pronti sono a dar per te la vita.

In uno tutti a te si sono uniti,

tuoi testimoni per il mondo intero.

Di te echeggiano i monti e le pianure:

paura sentono i nemici nostri.

“Evviva il re: che nelle sue mani

risplenda ognor di Skanderbeg la spada”.

Argomenti: Amik KasoruhoVinçenc PrennushiGrecale EdizioniStilo Editrice
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