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Home Poesie

Il componimento senza titolo di Visar Zhiti

La prosa poetica tratta dal romanzo Il visionario alato e la donna proibita

Anna Lattanzi Anna Lattanzi
28 Ottobre 2022
Visar

È una prosa poetica senza titolo e senza punti fermi quella che apre il romanzo Il visionario alato e la donna proibita, il libro di Visar Zhiti.

Solo virgole, puntini di sospensione, punti interrogativi e di esclamazione in questo componimento, che sottolinea il contrapporsi del passato al presente, due tempi indelebilmente legati dal filo dell’antico obsoleto, reso indistruttibile dalle sfiorite convinzioni. Nessun punto, nessuna sosta, impossibile prendere fiato durante la lettura del testo che sembra scritto di getto.

La libertà degli albanesi

Non è difficile immaginare la penna di Zhiti che corre impetuosa e l’inchiostro che tinge il foglio bianco, libero da paletti e inutili riflessioni. I figli dell’Albania sono sparsi nelle città europee, alla ricerca della libertà: realtà o illusione? Una scelta concreta o puramente aleatoria, dal vano profilo?

Si festeggia il Capodanno nella Capitale Europea ed è impressionante come Zhiti, attraverso questi  tumultuosi righi, riesca a sottolineare tutte le contraddizioni dell’Anima sofferente di chi ha lasciato la propria terra per un futuro migliore.

Uomini e donne avvolti dall’atmosfera festiva e uno solo che cammina all’indietro, incuriosito e al contempo incurante di quello che lo circonda, riuscendo a infrangere la porta di vetro, che forse lo condurrà verso la felicità o verso la distruzione. Intanto, il sangue sporca la neve bianca o  semplicemente la colora, lasciando un segno effimero, proprio come la falsa promessa fatta ai figli d’Albania di un’irraggiungibile libertà.

Il visionario alato e la donna proibita
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La prosa poetica

Nella magica notte di quel Capodanno,

quando finiva il più bel secolo dell’umanità,

e insieme il millennio, sconcertante,

che confusione, per le strade di una capitale, senza capire in quale, dell’Unione Europea,

forse a causa della neve e per il maestoso finale, simile ai sogni,

o per le vertiginose luci che si spandevano come fuochi

e non bruciavano, mentre in qualche parte

balzavano con rombi muti – e così le luci – quasi

per riportare alla memoria avvenimenti fra i più

rumorosi, colori – colori di volta in volta come le idee,

si trasformavano in ali rossastre, per poi esplodere

in lampi blu, freddi, s’incurvavano, si allungavano

nudi e serpeggiavano, si accendevano in globi di altri colori

sconosciuti, seni, desideri, grandi cubi fosforescenti,

rotolavano nel cielo basso colonnati,

piedi, scale, mentre crollavano ansiosamente,

più in là, tra bufere fioche di una pioggia aurea

-non bagnava alcunché -in mezzo agli alberi –

con bollicine di luci come sbalzate sul rame,

a fianco le vetrine simili a lembi strappati

ai tramonti, picchiettate di stelle e fiocchi di neve,

portati qui come in una mostra, tra la folla

gioiosa, dove molti erano vestiti in rosso

come il Vecchio dell’Anno Nuovo, con la barba

bianca, cappuccio e stivali coperti di neve – ma

quanti anni nuovi verranno così presto? –

comunque in mezzo alla piazza una persona comune

e insolita, dai capelli lunghi e sciolti

come inverno, con un zainetto da viaggio

e alcune macchine fotografiche appese all’altra spalla

-ehi, ehi, guarda, ha le ali alle spalle! –

passeggiava all’indietro, deciso, quasi fosse

l’unico abitante di questo mondo, ehi, ha anche

piccole ali ai piedi, agli stivali, inciampava in quelle,

sui cumuli di neve, sui marciapiedi e andava

a sbattere contro qualche monumento o panchina del parco,

contro un albero o amanti che si baciavano a occhi chiusi:

volevano scavalcare l’anno con baci

questo era stato anche il secolo dell’amore, della sua liberazione

ma del millennio cosa poteva dirsi, è terribilmente lunghissimo,

imprendibile, ma poteva essere contenuto

in un batter di ciglia…e lui continuava a camminare

all’indietro, calpestava qualche giocattolo

abbandonato o cane assonnato, quasi un guaito

dolorante si alzava dal suo io e tuttavia

allo stesso modo, indisturbato da qualche cosa,

contro-procedeva a ritroso,

capitava che cadesse bagnato , si alzava coperto

di neve, come se fosse una statua frantumata,

sistemava le ali, le dispiegava, gli facevano male,

dovevano essere le sue, forse lo erano, precipitava

di nuovo con le slitte e i cervi, con tutto, sprofondava

nelle voragini fangose  – sebbene non ci fossero,

solo lui vedeva nel suo passato, di giuramenti

tenebrosi, di catacombe invisibili a fianco di fili

spinati, di bunker – ma le reclame urlanti

sopra, soprattutto quelle con le donne ardenti,

sirene non del mare, ma del cielo, con le labbra

carnose e rifulgenti come il loro sesso, gli ricordavano

che doveva alzarsi e camminare all’incontrario,

senz’altro all’indietro, senza credere più di tanto

alla lontananza, alla ricerca di altro, che,

pur se l’avesse trovato, bastava cercarlo,

guardava con insistenza, mentre il clacson di qualche

automobile, non c’è dubbio di quelle che rispettavano

il codice, schiamazzava con stupore, e lui

abituato agli allarmi, all’indietro perché all’indietro,

continuava quella passeggiata delirante e affascinante,

mentre le persone, graffiate dalle sue ali,

gioiose come possono essere le folle di una capitale

in un Capodanno di neve, gli aprivano la strada

scambiandolo per un bizzarro ubriaco, maniaco

di feste, senza alcun equivoco o altro significato,

se non quello di vedere da dietro quanto se ne andava

per sempre, perché altre metafore si trovano nelle pagine

dell’erbario delle librerie – eccone una aperta,

con un abete tra tutti quei libri

appesi

ai rami, i migliori 100 del secolo!

…il retrogrado improvvisamente sbatté in un grande

vetro della porta o che diavolo era, l’uscita

del paradiso o forse l’entrata, sono la stessa cosa,

che si frantumò rumorosamente e vide il proprio sangue

spargersi in varie direzioni, dal volto e dalle mani,

tra le ali, comparirono macchie rosse sui pantaloni,

si gonfiavano quasi fossero da clown,

la carta geografica politica del mondo, nera,

toppe, non stava muovendosi, incominciò ad ammirare

la festa delle luci, tutta la capitale, esplosero

i fuochi d’artificio riflessi nella pozza di sangue,

impugnò una delle sue macchine fotografiche,

regolò l’obiettivo, cadde in ginocchio e incominciò

e incominciò a fotografare le chiazze rosse, le forme spontanee,

l’orrendo disegno, impressionista e

mentre lampeggiava il flash in continuazione sotto

l’uragano

i fuochi d’artificio, appena prima dell’arrivo

del nuovo secolo e di gente che si radunava lì

e non si sapeva cosa stesse accadendo, potevano

portarlo in qualche pronto soccorso o ospedale

psichiatrico, perché forse lì per lì dava l’impressione

di voler improvvisare uno spettacolo,

gli scoppiò una risata fragorosa tutta

lacrime, fino a quando preso dal panico

lo colse un dolce svenimento…

…fosse giunto il dio Ermes, l’alato!…

…tutto accade nel millennio scorso, cioé

prima di un attimo bianco quanto

un fiocco di neve, quando tutto si poteva credere…

Argomenti: Elio MiraccoVisar ZhitiRubbettino Editore
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