Partecipavamo ad un festival internazionale di poesia in Italia da tutte le parti del mondo: dal Mediterraneo, dall’Europa Centrale, dall’Africa, dall’Asia e dall’America.
Dalla penisola più poetica del mondo, i Balcani, avrebbe dovuto raggiungerci anche Ali Podrimja, per leggere le sue poesie, e invece non è venuto. Ha mandato una lettera che gli organizzatori del festival mi hanno fatto leggere.
Non posso raggiungervi, diceva, perché sono occupato a trasportare i cadaveri nella mia terra. Sto seppellendo i miei morti. Avvertite anche il vostro Ministro degli affari esteri, in modo che lo sappia…
Si è creato un silenzio grave, come la stessa assenza di Podrimja che aveva mandato il suo fantasma. Esso ci raggiungeva da quella pianura epica del Kosova, dove erano cominciati il genocidio ed i massacri di una popolazione innocente, dimezzata, che sopportava con una solennità silenziosa e cupa.
In seguito, sarebbero cominciati anche l’allontanamento coatto ed il grande esodo, come nella Bibbia. Stavano scappando, dalle proprie case in fiamme come un tempo dall’antica Troia, formando lunghe code – una nuova Eneide – tenendo sulle spalle gli anziani padri, come Enea suo padre. Enea era dardano, come gli antenati dei Kosovari. Si stavano ripetendo gli esodi, le guerre, gli incendi, con la differenza che non c’erano più semidei e dei dell’Olimpo, ma aerei militari da bombardamento del XX secolo. Gli ultimi di quel secolo e gli ultimi di quella guerra.
In mezzo al caos e all’apocalisse c’era anche il poeta Ali Podrimja, che non solo aiutava, ma dava anche coraggio al suo popolo. Raccoglieva in poesia i sospiri, le ferite, i testamenti, l’ultima luce degli occhi, la speranza, le leggende. Dando così una voce al silenzio del suo popolo, alla sopportazione – alla forza, alla ribellione – all’ispirazione. E, diciamolo, anche alla poesia e certamente alla modernità. La modernità che ha tessuto insieme ai suoi connazionali in Kosova: insieme a Esad Mekuli, a Din Mehmeti (la Rai, al tempo dei bombardamenti su Belgrado, diede la notizia della sua uccisione, e invece lo rincontrammo ancora vivo).
Un’intera pleiade di poeti kosovari che avrebbero perfezionato la propria opera. Ricordiamo Azem Shkreli, il poeta del pantheon albanese, morto nel fiore della sua maturità, d’infarto, appena atterrato all’aeroporto di Prishtina. Ali Podrimja, invece, ha messo in poesia l’urlo dell’animo, istintivo come l’ululato del lupo sulla neve, mentre guarda la luna.
La poesia di Podrimja getta uno sguardo alla grande ferita, piena di luce, della libertà.
Quando la patria è dimezzata, il dolore non è dimezzato, anzi si moltiplica al di fuori di te e diventa iperpoetico, si riversa in flutti annegando la terra senza confine. Guardi la grande spaccatura che sta in mezzo e capisci che non è solo della terra, ma anche della storia, della coscienza collettiva, che raggiunge anche quella personale, come su una pianura, in cui si attende l’inizio della tempesta… la tempesta dell’ispirazione poetica.
Ali Podrimja, figlio dell’Albania ‘al di là’, dell’altra metà, dell’antica Dardania, è il poeta più ispirato, interamente sublime, tutto terra e ossa. Sconvolge i paesaggi balcanici in cui appaiono pozzanghere di sangue sulle pietre, tanto che spesso ci sembra un cantore elegiaco di pietre ferite. Sintetico, ma anche dalle associazioni sconvolgenti, il verso di Podrimja, permette commenti critici e voli pindarici, ma soprattutto dimostra come il nostro poeta è il più omerico e la sua forza assomiglia a quella delle valanghe dell’ultimo Omero dei Balcani, Gjergj Fishta, suo compatriota. Nonostante le differenze – rispetto a quelli di Fishta, i poemi di Podrimja sono estremamente più brevi, composti di pochi versi – la satira tagliente è trasformata dal nuovo bardo in amara ironia, la similitudine in metafora, il tradizionale in moderno:
megjithatë deri në vdekje/
do ta kërkoj atë që e humb/kryesorja: Jetën ta jetosh pa e vrarë//
“Comunque, fino alla morte/
cercherò quello che perdo/
importante: Vivere la vita senza ucciderla”
(Me jetue/ Vivere).
Un tempo ho scritto che Ali Podrimja, come Naim Frashëri – il poeta nazionale degli albanesi, il loro ‘tardo’ Dante – ha fuso la poesia intima con la poesia del destino collettivo della propria nazione. E non le ha fuse facendo iniziare il dolore dell’una, laddove finisce il dolore dell’altra; le ha fuse come (e forse più di quanto) sono fusi il guerriero con la sua arma.
Libro dopo libro, parola dopo parola, il poeta ha riempito il diario della patria, la sua scrittura assomiglia ad un termometro, la sua voce si è fatta carico del peso della vita, coma della cosa più cara e sacra; è questa voce che delinea la figura del profeta, come nella leggenda, una metà alla ricerca dell’altra.
Podrimja recupera il profondo grido del sangue di un’antica stirpe e noi, all’improvviso, capiamo che è il grido dei nostri tempi e che viviamo anche grazie a quel grido… spesso senza punteggiatura, anche senza la maiuscola iniziale, moderna dunque, lì dove la forza demoniaca fa crollare i tempi, le frontiere e rimane il gesto eroico senza tempo o di tutti i tempi.
Il tempo, per Podrimja, scorre, come per Eraclio, fino a quando non si impietrisce sospeso nella magia della poesia. Le sue immagini sono tanto brusche quanto inconsuete.
Sytë i lan në shuplaka të engjëjve/
“Ti lavi il viso con palme di angeli”
Soprattutto, Podrimja è il poeta della dignità umana. La rivela nel dolore, nella sconfitta e nella ferita, nel ricordo, nella pietre usate come fondamenta, nella chiave, nella spada, nel silenzio e, certamente, nella Parola. Per questa ragione, Podrimja sintetizza la quotidianità con la forza assoluta della tomba. E, nello stesso tempo, reclama la sopravvivenza della sua gente: l’esistenza è un dovere. La vita, anche la nostra, è una richezza del mondo e dei tempi, e come tale merita tutto, il possibile e l’impossibile, che si combatta in suo nome. Podrimja chiama in aiuto i simboli nazionali e balcanici, di tutta l’area del Mediterraneo, diventa cantore della resistenza sublime e, come poeta, è ermetico quanto il petto dell’uomo. Basta una ferita per guardarci dentro. Ci sembra infatti di vedere più con le ferite che con gli occhi. E crediamo, con lui, che
Dritë e plagës i verbëron/
“La luce della ferita acceca”
i tempi e i suoi padroni. Il nostro poeta è esistenziale, ma non individualista. Alfiere della sopravvivenza della propria nazione, intesa non soltanto come storia ed esperienza, ma anche come tesoro per il futuro. Spesso è il cittadino congelato in un inverno infinito, indifeso in mezzo ai venti che battono l’isola della patria dimezzata, dove non c’è mare, ma onde gelide sì. Nella sua mezza-Itaca, cerca dentro di sè la via per l’altra metà della patria. La sua patria è di carne, oltre che di montagne, pianure ed eroismi, tanto di sangue quanto di acque, è l’Uomo e il suo cielo, non soltanto il suolo su cui poggia, ma anche anche il sottosuolo dei morti, il loro sogno che crea la rugiada, nebbia e fantasmi.
La carta su cui scrive Podrimja è simile alla pelle della vita. Le sue poesie sono state scritte su un’antica pergamena, sono un palinsesto di tempi, ma il dolore è di ognuno, è come un’escoriazione, come una nuova tortura, moderna, fatta all’anima.
Podrimja appartiene ad un popolo martire, che oltre a dare al mondo un grande eroe, Giorgio Castriota Scanderbeg – sul piedistallo della sua statua in Roma, a Piazza Albania, sta scritto “Impavido difensore della civiltà occidentale” – ha fatto nascere Madre Teresa, che fa dell’amore per tutta l’umanità la missione di una vita. Per questo, anche la poesia di Podrimja possiede la durezza della spada e la misericordia delle preghiere. È una spada che prega per la pace e la vita, ma in primo luogo per la giustizia e prima ancora per il lavoro e per il trionfo dell’uomo. Perciò agisce.
Che diventino umane anche le pietre, gli alberi, i lupi; dunque restituiamo al poeta anche quello che era al tempo stesso pietra, lupo, albero, croce e campana, tomba e culla. E spunta la bellezza:
trupi yt, oj grua-/ mbrëmje e rrëzuar në gjunj.//
“Il tuo corpo, donna/ tramonto caduto in ginocchio”.
La poesia di Podrimja continua ad essere tradotta in altre lingue – oltre che in quelle balcaniche, in polacco, turco, tedesco, francese, inglese – emozionando il lettore ovunque si trovi, anche oltre il Continente. Speriamo anche nel dolce italiano. Ma, soprattutto, la poesia di Podrimja è diventata ricchezza spirituale del proprio popolo, suggestionandolo, consentendogli di comprendere meglio se stesso, di lottare per se stesso in nome dell’individuo, della collettività, della identità e dell’universalismo, di essere nello stesso tempo albanese ed europeo; sempre e di più uomo.
Anche il primo presidente kosovaro, il Ghandi dei Balcani, Ibrahim Rugova, ha riscontrato da tempo, in Podrimja, l’inconciliabilità di idealismo e realtà; un’inconciliabilità che, nella vita, genera il tragico. La poesia di Podrimja, secondo Rugova, è “racconto incompiuto”.
Ho iniziato rievocando un festival di poesia internazionale in Italia, a cui Podrimja non ha potuto partecipare. E’ il poeta dell’assenza, del vuoto che chiede d’essere riempito, che determina il cambiamento. Tutti i poeti partecipanti a quel festival, dopo la lettera di Podrimja, volevano modificare qualcosa nella scelta delle loro poesie, volevano aggiungere oppure togliere un verso una strofa, una metafora, perchè Ali Podrimja aveva scritto loro che non li avrebbe raggiunti: era impegnato a seppellire i suoi morti.
I morti di Podrimja cantano in questo libro.
Deserto invasivo
A cura di Blerina Suta, introduzione di Filippo Bettini
