Il lettore è catapultato in mezzo alla piccola folla radunatasi attorno allo scorbutico prete ortodosso e resta così, muto e interdetto, come il coro di personaggi che vengono abbracciati tutti insieme, quasi fosse una fotografia istantanea, dalle rapide pennellate a tinte forti, nette, dissonanti che caratterizzano la scrittura eterogenea e stratificata di Romeo Çollaku.
Poco a poco lo sguardo si allarga fino a circoscrivere l’intero katund, il piccolo borgo sperduto tra le montagne del sud dell’Albania, che funge da scenario – pressoché di cartapesta, un luogo archetipico più che ubicazione reale – all’intrecciarsi delle peripezie dei suoi abitanti.
Miele sul coltello

C’è Papateo, a capo della piccola chiesa della comunità e il suo antagonista, Arcilé, “orso flemmatico e cupo” nonché medico tabagista che incarna la Scienza in opposizione alle credenze popolari e alla religione. C’è Demetri il Verde, che ama conversare con sé stesso e la sordomuta Kondja che, pur non avendo voce, non rinuncia a comunicare e a nutrire la sua anima di pettegolezzi carpiti qua e là. C’è il mago dello spathi, Gogo, giovane a cui l’orizzonte limitato del villaggio sta fin troppo stretto e che, in attesa di scoprire il mondo, cerca di farselo raccontare da quei pochi che il mondo di fuori l’hanno visto con gli occhi.
C’è Mihelangjelo, tormentato da un’inguaribile incontinenza, che è lo zimbello del katund fino a quando un evento esterno a questo guscio conchiuso e autonomo non cambierà la direzione del suo destino.
E infine c’è Gilda, l’oscuro oggetto del desiderio: straniera, proveniente da Bari, con un passato doloroso alle spalle, anima delle dicerie e soggetto privilegiato su cui si concentrano le attenzioni del resto del villaggio. Non parla la lingua del posto come i due disertori italiani, Zef e Ndoni, Giuseppe e Antonio, fuggiti dall’assurdità della guerra e rifugiatisi per disperazione in quel luogo arroccato sulla montagna. Sembrerebbe un canonico romanzo corale, un affresco della vita nell’Albania meridionale tra la Seconda guerra mondiale e l’avvento del comunismo.
Tratteggiato con un occhio ironico ma profondamente umano che ricorda le straordinarie “avventure” del soldato Ivan Čonkin di Vladimir Vojnović per i toni farseschi e il gusto con cui piccole peripezie trascurabili si fanno Storia, tuttavia Miele sul coltello parla di qualcosa di diverso. Nodo centrale della narrazione è la parola, parlata o scritta, rimuginata o pronunciata, mimata o negata. Ciascuno dei protagonisti ha un rapporto peculiare con essa: per Papateo è la Parola del Signore, da una parte, ma anche quel respiro inestinguibile che consente alla voce di non sparire mai del tutto.
Per Mihelangjelo è inizialmente l’origine del male, è arma che ferisce, dileggio che lo tormenta quasi quanto la sua stessa incontinenza. Poi diviene potere, cambiamento. E non a caso da quel momento Mihelangjelo sparisce e appare Milo: un uomo nuovo, guarito, ormai inattaccabile. La vecchia Kondja, invece, il dono della parola non lo possiede, non è in grado di articolare suoni comprensibili. Ma non rinuncia alla comunicazione e si costruisce a gesti un nuovo vocabolario attraverso cui far echeggiare la sua “voce” nei vicoli, raccontando agli abitanti del borgo tutto quello che accade, i piccoli segreti, episodi apparentemente insignificanti che sfuggono all’attenzione dei più e che tuttavia costituiscono il cuore pulsante della vita del katund. E nel momento in cui questo codice di comunicazione universale viene meno e non consente alla vecchia di raccontare una storia indicibile, qualcosa si spezza irrimediabilmente: al mutismo vitale e ricco di sfumature si sostituisce un silenzio freddo come un corpo morto, un silenzio che non può più “dire”.
La parola è qualcosa che Demetri il Verde mastica continuamente nella testa, immerso in conversazioni con sé stesso. E invece, disgraziatamente, è un’arma a doppio taglio per Qesar, condannato a dire la cosa sbagliata al momento meno opportuno. Diviene ossessione per Stillo, che scrive febbrilmente per quindici anni una serie di romanzi e attende la gloria letteraria sorseggiando raki.
È quella che Zef non maneggia troppo bene neppure nella sua lingua, cosa che gli sarà fatale. La parola è quella che Gilda ritiene infida e carica di promesse non mantenute: lei non parla la lingua del villaggio e affida al suo corpo l’onere della comunicazione. Un corpo erotico e prorompente che esplode in concomitanza con l’irrompere della Storia nella narrazione: una sorta di rivoluzione che preannuncia inattesi capovolgimenti. La parola è quella che Ndoni coltiva e padroneggia, plasma e ricama fino al punto di perderla e ridursi a un prolungato silenzio quando essa si fa inadeguata a sostenere il suo racconto. Parola del partito, infine, è quella che recide la barba di Papateo, facendo vacillare le fondamenta di quel fragile equilibrio collettivo.
La struttura della narrazione è polifonica, corale. Le vicende dei personaggi hanno le sembianze di tessere di un mosaico che via via si compone davanti agli occhi del lettore. Mosaico eterogeneo e discordante, tenuto insieme dal sottile filo, sempre teso, della lingua o, per meglio dire, delle lingue.
Ogni singola voce attinge a precisi repertori che vanno dalla lingua tradizionale al dialetto, dalla misticanza linguistica agli arcaismi, dal silenzio al gesto mimato in una complessa stratigrafia messa ottimamente in luce dalla traduzione di Eda Derhemi e Domenico Ferrari.
La scelta di far parlare i personaggi in un dialetto meridionale (una curiosa mescolanza dal sapore calabrese) e di contrapporre a esso un dialetto veneto, la lingua del “Nord”, è particolarmente felice e restituisce al lettore le armonie complesse della scrittura originale, aggiungendo tuttavia una melodia familiare al suo orecchio tale da immergerlo pienamente nell’atmosfera del romanzo, nel ritmo della narrazione, nel respiro stesso dei personaggi.
Miele sul coltello lascia intravedere la grandezza del classico conservando quella leggerezza calviniana, quel planare sulle cose dall’alto, quello sguardo ironico e umano di chi non smette di interrogarsi e di cercare, nei dettagli più trascurabili e apparentemente insignificanti, le possibili risposte.