La Besa Muci Editore ha recentemente pubblicato la traduzione italiana del romanzo autobiografico di Vera Bekteshi, Vila me dy porta (La villa con due porte).
L’autrice, nata e cresciuta a Tirana nel cosiddetto “Blocco della Dirigenza”, essendo figlia di un militare di alto grado, è stata vittima della dittatura. Dopo il divorzio politico, la perdita del lavoro e l’arresto del padre, ha trascorso quasi sedici anni in isolamento, con la famiglia e il figlio, nei più remoti villaggi dell’Albania.
Tornata a Tirana si è dedicata quasi completamente, negli ultimi anni, alla scrittura letteraria.
Albania News ha richiesto ad Arta Marku, nota giornalista, autore e conduttore del programma televisivo BIBLIOTEKE-TVSH, autore del libro KTHINAT E KUJTESËS, collaboratore di numerose riviste culturali e traduttore di numerosi libri dall’italiano in albanese, una sua intervista a Vera Bekteshi.

Pubblichiamo l’intervista che Arta Marku ci ha accordato in esclusiva per il nostro giornale. La traduzione in italiano da Rovena Sakja, Dottoranda alla “Sapienza” di Roma.
Ringraziamo Arta Marku per questa sua interessante intervista, che illustra il contenuto del libro, di particolare interesse per il pubblico italiano, e Rovena Sakja per l’impeccabile traduzione.
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Accade che la realtà oltrepassi i confini della fantasia. E se ciò succede, allo scrittore non serve inventare, i personaggi non hanno bisogno di entrare e girovagare nel suo laboratorio, le scene e gli eventi non hanno bisogno di essere lasciati in mano all’autore. Ancor di più se lo stesso scrittore è il protagonista, se è giunto il momento di narrare una storia vissuta in prima persona. Il suo libro dunque non ha bisogno di essere fiction, pur avendo la magia della fiction che ti afferra riga dopo riga fino all’ultima pagina.
In questo modo si può leggere, pagina dopo pagina, il libro di Vera Bekteshi “La villa con due porte”: come se fosse una storia frutto delle mani di scrittori di lunga data. Pur essendo semplicemente la storia dell’autrice stessa, scritta con indubbio stile. Una storia che non solo merita di essere narrata, ma DEVE essere narrata! e adesso DEVE essere letta.
La storia la “conservò” per un lungo periodo, ma sempre con la convinzione che un giorno l’avrebbe raccontata. Come se anche a Vera, in qualche luogo, in qualche momento, silenziosamente sotto voce, come anche a Padre Zef Pllumi, qualcuno “abbia ordinato”: Rrno per me tregue – Vivi per raccontare!
Indubbiamente ogni confronto zoppica, pur portando dentro di sé una verità. Così come anche le storie di Vera e Padre Zef hanno i loro punti in comune e le loro differenze. Prima di tutto il racconto come atto di un dolore e di una sofferenza chiuse dentro di sé è ciò che li accomuna. Vera conservò gli eventi nella propria memoria, incurante che potessero “disperdersi”, finché giunse il momento di darne testimonianza.
Ma in quel preciso momento, china su dei fogli bianchi sparpagliati sul tavolo che cominciavano a riempirsi compulsivamente con la sua storia, capì che il passato era stato conservato intatto dal tempo. Neanche la densità degli eventi aveva recato danni. Anzi. L’intensità emozionale, pare, aveva scolpito tutti i frammenti come lo scalpello sulla pietra. A quanto sembra così accade. Me lo aveva spiegato Visar Zhiti, anni prima, quando pubblicò i propri libri autobiografici sotto il titolo Burgologji – Galerologia. Neanche lui aveva tenuto un diario. E come poteva farlo in prigione?!
L’esempio di Fatos Lubonja, che aveva scritto il proprio libro in piccoli quadrati di carta da tabacco, a caratteri microscopici, non solo perché non aveva altro dove scrivere, ma anche per poterli conservare meglio, se non è un caso unico, è quantomeno raro. E nonostante tutto la memoria funziona a meraviglia.
Forse a causa dell’intensità emozionale. “La storia è scritta sulla pelle” mi aveva spiegato Visar Zhiti. È ciò che dev’essere successo anche con Vera Bekteshi e con la sua storia scolpita con lo scalpello. Oppure, forse, Vera comunque avrebbe conservato i dettagli nella sua sana memoria. Quando lesse in un libro di Saramago, l’espressione: “Solo gli occhi della memoria possono essere tanto penetranti quanto quelli di un falco”, rimase incantata. E si appoggiò con determinazione alla propria memoria penetrante e mise in chiaro tutta la sua vita in una caterva di fogli bianchi…
Si mise a scrivere in una oscura notte del 2000. In mancanza di elettricità, accese una candela per poter avere un’illuminazione sufficiente e buttò giù qualcosa del suo passato, in corsivo, su un blocchetto. Dopo l’elettricità fu ripristinata e la “magia” svani. Lasciò il libro. Per ben sei anni. Nel 2006 si rimise al lavoro, stavolta seriamente. Anzi, quello che aveva scritto quella lontana notte non le servi più, perché la struttura dei ricordi cambiò del tutto. E poi, non interruppe più, almeno non per lunghi periodi di tempo, finché pose la data nell’ultima pagina e la mandò in stampa per dare ai lettori la sua testimonianza, con il titolo “La villa con due porte”.
Ora, con il libro in mano, in molti possono conoscere non solo e semplicemente Vera Bekteshi, Sadik Bekteshi e la moglie Hava, i loro figli, Guxi, Neli, Zana, i più piccoli Artur, Besi, Ana. Attraverso la storia di una famiglia, i lettori possono conoscere la storia di un popolo, in un determinato contesto di luogo e tempo. Un luogo e tempo FOLLI, sconvolgenti, che una volta raccontati egregiamente chiedono il tempo della lettura…
…la stessa Vera Bekteshi, nell’intervista che segue, racconta:
Cinque anni dopo la pubblicazione in albanese, “La villa con due porte” viene pubblicata in italiano. Quale confronto può fare tra le due sensazioni?
La pubblicazione di un libro in lingua straniera è una grande gioia, seconda solo alla gioia della prima pubblicazione in albanese. Ho sempre sperato e desiderato che la prima traduzione del libro fosse in italiano, anche perché alcuni episodi del libro fanno riferimento all’Italia.
Lei è tornata dall’internamento nel 1991, la prima della sua famiglia che rientrò in seguito. Mentre il libro è scritto quasi 20 anni dopo. In un attimo le librerie si riempirono di ricordi, racconti, testimonianze. Perché ha aspettato così a lungo?
Sentivo come se non avessi sofferto abbastanza per testimoniare, forse perché altri avevano subito condanne più lunghe e sofferenze più atroci. Pensavo di dover aspettare il mio turno, ma anche perché la mia testimonianza doveva essere vista a una certa distanza di tempo. Poi anche la mancanza di tempo: dovevo darmi da fare per trovare un alloggio e per essere reintegrata nella professione. Infatti fui assunta appena tornata ma avevo dimenticato quasi tutto in 16 anni. Dovevo ricominciare da capo e la fisica applicata non è facilissima.
In quanto alle testimonianze dei condannati, ho l’impressione che non solo non ci sia una sovrabbondanza, ma in verità ci sia una lacuna, soprattutto nelle testimonianze scritte. Se i perseguitati sono decine di migliaia, i libri che testimoniano la persecuzione sono alcune decine. E poi c’è una altra parte di perseguitati che verrà alla luce all’apertura dei dossier. Queste ferite saranno riaperte e forse saranno gli “spioni” che parleranno o scriveranno. Diranno anche loro delle proprie sofferenze quando furono costretti a firmare le denunce contro i loro amici. Trovo questo una cosa interessante da sapere e utile per aiutare una società a depurarsi in qualche modo. Avete presente il film russo “Bruciati dal sole”, tratto da un libro? La spia che portò alla morte l’ex amata e suo marito, si taglia le vene. Ci sono stati casi del genere da noi? Probabilmente, ma non se ne sa nulla.
Si è messa a scrivere il libro della sua vita senza l’aiuto di appunti, semplicemente e solo fidandosi della sua memoria. E non poteva essere diversamente. Lei descrive nel suo libro i momenti dei controlli in casa, il controllo dopo l’arresto di suo padre e il sequestro dei diari e delle foto personali. In situazioni simili è difficile immaginare che un internato pensi a tenere un diario. Osservato in ogni attimo da chissà quali occhi e orecchie. Cosa capita alla memoria? A volte la memoria seleziona in funzione protettiva. Ma a lei come ad altri testimoni, autori di famosi libri, questo non è successo.
Sì, non potevo tenere un diario e non ne avevo nemmeno voglia. Il controllo era familiare e con quale diritto potevo tenere appunti che potevano essere trovati e nuocere così al resto della famiglia, incluso mio figlio? Si, in effetti non avevo bisogno di diari, la memoria emozionale è più incisiva e profonda di altre. Quando mi misi a scrivere tornarono a galla non solo dettagli di varie situazioni ma anche tutti i nomi dei contadini e dei loro figli. Avevo detto al mio editore, il compianto Ardian Klosi, che sembravo il cronista del dopo battaglia.
I suoi personaggi sono reali, sono veri. E nonostante ciò la descrizione che ne fa è la sua percezione di loro. Qualcun altro li avrebbe visti diversamente. Avranno loro trovato se stessi nella sua descrizione? Vorrei cominciare dai suoi familiari. Sua madre ha letto il libro, sua sorella, fratelli…come hanno reagito?
Non può essere diversamente, è il punto di vista dello scrittore perché la scrittura è un processo profondamente individuale. Vi assicuro che il libro sarebbe stato migliore se fossi stata libera di scrivere quello che pensavo, senza alcuna riserva riguardo a familiari oppure vicini di casa, che erano e sono persone a me care. Se avessi scritto con precisione gli eventi relativi ai confronti quotidiani nel capitolo “Vicini di Casa”, sicuramente questo sarebbe stato lungo e interessante, ma mi sono trattenuta per non causare a coloro che hanno sofferto con me, altri dispiaceri. Ma se sei un lettore attento riesci a distinguere le caratteristiche di ciascuno. Ai miei familiari il libro è piaciuto e mia sorella l’ha letto diverse volte. Purtroppo mia madre non ha potuto leggerlo, perché quando venne pubblicato, la sua mente era offuscata da un male che ne causò la morte.
C’è un personaggio nel libro del quale lei non prova a nascondere il fatto che era una spia: sua spia e sua amica allo stesso tempo. All’inizio lo presumeva, in quanto non aveva prove. Ma in seguito ebbe le prove documentate che la verità era proprio come aveva presunto. Qual è stata la sensazione provata una volta saputa la verità? Ha più avuto contatti diretti con quella persona?
Sì, era una mia amica d’infanzia, il padre della quale fu condannato prima di noi, ma tutte e due avevamo studiato nella stessa facoltà nello stesso periodo e ci si incontrava di frequente. Era abbastanza insolito che con un padre condannato lei potesse iniziare gli studi in architettura per poi abbandonarli in favore di studi in matematica. Era una ragazza intelligente ma ci sono dei ruoli che non ti stanno bene addosso e generalmente noi condannati riuscivamo a identificare subito le spie. È come se ce l’avessero scritto in fronte. Questo anche senza avere documentazione in mano. E spesso mi auguravo di sbagliare perché le volevo bene. Vi assicuro che se nel 1991, quando ci incontravamo a Tirana a casa sua, lei mi avesse detto la verità l’avrei perdonata. Anche se in seguito scoprii i documenti, non l’avrei portata allo scoperto. A mio padre è successo lo stesso con un amico che aggravò la sua situazione con la propria deposizione in tribunale, e quando si incontrarono dopo il ritorno a Tirana, quest’amico gli racconto la verità e gli chiese scusa. Loro rimasero amici come prima fino alla fine. Io avrei fatto lo stesso, tanto più che al mio ritorno, ad ogni nostro incontro ho cercato di darle l’opportunità di aprirsi. Non volevo perderla, ma lei non lo fece. Quando seppi la verità, alcuni giorni dopo un gioioso pranzo passato insieme, rimasi talmente sconvolta che per quasi una settimana ero fuori di me. La cosa peggiore era che lei aveva fornito una deposizione spontanea e una deduzione personale secondo la quale io e i miei fratelli costituivamo un pericolo per il partito e il potere popolare. Questo per me era troppo.
È mai stata stuzzicata dal pensiero di scavare nei dossier delle persone che le stavano intorno in quei difficili anni? Oppure è meglio che certe cose non vengano alla luce?
La seconda opzione è sicuramente la migliore se non si vuole soffrire.
Un dialogo tra lei e sua madre viene descritto nel libro come segue:
–Avete mai dubitato se la strada tracciata fosse sbagliata – comincia lei il dialogo…e subito sua madre risponde: -la solidarietà era formale, nella maggior parte dei casi era per autodifesa…è mai stato contraddetto o eliminato un dittatore?
Lei come giustifica questo atteggiamento? È sufficiente?
In realtà io non giudico, io rappresento con sincerità la verità secondo il mio punto di vista. Mia madre era una persona che soffriva, come donna e ancora di più come madre. E poi è cosa risaputa che le persone al servizio del potere o che ne fanno parte, devono conformarsi oppure finire al patibolo. Questo accade in ogni regime, e ancor di più in una dittatura.
La vendetta è la prima cosa che viene in mente nei confronti di chi ci ha fatto soffrire. In una nostra precedente intervista, in occasione della pubblicazione del libro in albanese, quando le chiesi riguardo al sentimento di vendetta della vittima verso il proprio carnefice, lei rispose: “mi sono vendicata a modo mio, raccontando la verità”. È naturale, umano. Sarebbe insolito se non sentisse sensazioni del genere verso chi ha bruciato 16 anni della sua vita. Adesso la catarsi è compiuta? Lo scrivere l’ha aiutata?
Lo scrivere mi ha aiutata, ma è difficile affermare che ci sia stata una catarsi completa. La Cosa è lì nascosta e aspetta il momento propizio per alzare la testa. Lo sa cosa mi disse un’anziana mentre stavamo per lasciare il villaggio d’internamento per tornare a Tirana? – È inutile, non riuscirete mai ad essere felici, perché una volta ricevuto uno schiaffo pesante, ti farà male tutta la vita! A quel tempo pensai all’invidia o alla malvagità. Adesso dopo 24 anni mi accorgo che le sue non erano parole all’aria e mi ritornano spesso in mente.
Cosa ci può dire riguardo al processo di scrittura di un libro? Ha avuto uno schema, piattaforma predeterminata? Non mi riferisco allo scheletro del libro che lo scrittore costruisce e poi riempie di carne e sangue. Mi riferisco alla testimone: ha fatto una selezione dei personaggi che devono o non devono esserci nel libro? Ha fatto una selezione per altri personaggi che devono comparire o no col proprio nome? Ha comunicato precedentemente con i personaggi presenti?
Sì, è stata fatta una selezione. La difficoltà di questo libro non consisteva nel trovare eventi e personaggi perché in 16 anni ne avevo collezionati numerosi, ma nella loro selezione. Spesso questa selezione è stata fatta in automatico dalla memoria stessa, richiamando gli eventi dal proprio server. In quanto ai nomi, cosi come le iniziali, quelli sono autentici. Ho incontrato molti di questi personaggi, ho fatto loro domande, anche a miei familiari che non si trovavano più in Albania. Mentre i persecutori no, non li ho incontrati.
“Vera Bekteshi è in grado di rappresentare con leggerezza e ironia il periodo più difficile della storia d’Albania, quella della dittatura di Enver Hoxha”. Questa didascalia accompagna il suo libro in italiano – e in verità lei è in grado di vedere non pochi degli eventi della sua vita in uno degli ultimi cerchi dell’inferno comunista, con humour. Dal altro verso mi ha parlato della fiducia, della convinzione che quello che stava vivendo doveva avere una fine. Da cosa scaturiva questa convinzione mentre veniva condannata ancora e ancora, e una condanna dopo l’altra veniva spinta un cerchio più in giù nel suo inferno?
Il miglior modo per affrontare l’ingiustizia e la sofferenza è il disprezzo. Noi cercavamo di fare questo ogni giorno, forse è questo che traspare anche nel libro. In quanto alla convinzione riguardo alla fine del sistema, questo era percettibile in quanto tutto era giunto al limite soprattutto dopo “tufëzim” – il sequestro del bestiame ai contadini. La degradazione del potere economico porta in maniera inevitabile la degradazione politica. È una espressione di Lenin proprio per mettere in evidenza l’importanza della questione economica. Non è forse questa la causa della caduta del sistema comunista?
In quanto all’inferno, quello non era il nostro ma il loro. Noi eravamo stati messi lì, come altri prima di noi e peggio di noi, segregati in baracche circondati di fil di ferro.
La nostra era un’altra situazione. Verso di noi, famiglie dell’ex nomenclatura, è stata esercitata per lo più una pressione psicologica, oltre la mancanza di libertà e la povertà estrema. Noi eravamo super controllati e non avevamo bisogno di fil di ferro, eravamo intercettati attraverso microfoni attivati di tanto in tanto. È scritto nel libro ma racconterò ancora un episodio legato a quel periodo. Due anni fa la compagna svedese di mio fratello che vive a New York, voleva vedere i luoghi del nostro internamento. Noi la portammo prima a Kutalli poi a Sheqëz. Lei fu commossa dai nostri incontri con gli abitanti dei paesini e dalle loro parole. A Sheqëz dopo l’incontro con vecchi amici e nemici, incontrammo il medico del paese. Con lui avevamo buoni rapporti perché era una persona semplice, ma anche per un’altra ragione. Mi disse:
– Vera, ho letto il tuo libro e mi è piaciuto. Hai ragione su tutto. Ma come hai fatto a capire che gli apparecchi per l’intercettazione erano a casa mia?
– Non sono la sola, ho spiegato anche nel libro che anche noi ti spiavamo per sapere quando arrivava in paese il funzionario del Ministero degli Interni per intercettare.
Quindi non solo lui spiava noi, ma anche noi spiavamo lui. Il mondo è tondo no?!
– Proprio cosi, ma quello che tu non sai è che gli apparecchi sono ancora installati a casa mia. Non hanno mai avuto tempo di toglierli.
-Ma tu adesso cosa ci fai? Spii i condomini? – aggiunsi scherzando.
Dopo la scrittura di questo libro, tutto è passato? Oppure gli eventi lasciano tracce? Oppure quello che non ti uccide ti rende più forte? Qual è il suo caso?
Un po’ di tutto?
Articolo di Arta Marku. Pubblicato su Albania News del 29 novembre 2011. Titolo originale “Kur letërsisë nuk i duhet trillimi – Intervistë me Vera Bekteshin” .
Tradotto per Albania News da Rovena Sakja.