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Viaggio nel Kanun con gli occhi di un forestiero

Recensione di «Ognibene e le tracce del mulo»

Antonio Caiazza Antonio Caiazza
4 Giugno 2010
Ognibene Tracce Mulo Cristian Fabbi

Tre carabinieri; alcuni vecchietti che puntualmente al tramonto si presentano a cena in caserma; una caserma che in realtà è una vecchia torre, una kulla. Ed un delitto misterioso, uno di quei casi difficili da aprire e impossibili da chiudere.

Il racconto di Cristian Fabbi “Ognibene e le tracce del mulo” (Edizioni Forme Libere, euro 13,50) consente una lettura piacevolissima e non solo perché sa tenere sveglio il desiderio di seguire i percorsi del maresciallo Giovanni Ognibene alla ricerca del colpevole. È soprattutto la scrittura a rendere familiare questo libro, a farlo diventare un appuntamento gradevole per alcune serate.

Ognibene e le tracce del mulo
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C’è da scoprire l’autore di un delitto, è vero, ma c’è tutto un mondo umano da svelare. Innanzitutto quello dei tre inquilini della caserma. Tre Regi Carabinieri mandati a presidiare un luogo perso fra i monti nel nord dell’Albania, al tempo in cui al sud l’Esercito italiano aveva ricevuto l’ordine di spezzare le reni alla Grecia. Un piccolo mondo italiano vive e si confronta in quella caserma, piccolo eppure completo, una sorta di sintesi perfetta di anime e sensibilità in cui si ricostruisce una intera società, la nostra. C’è Saverio Ferretti, carabiniere per caso e senza convinzione, disincantato, anti-fascista, allergico agli ordini, lucido, acuto e concreto.

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C’è Donato Scantamburlo, veneto di Marostica, un gigante buono, taciturno, uno che viene dalla terra e cerca la terra in Albania, e perciò ogni giorno si alza prima dell’alba per andare a mungere la vacca di un albanese: sembra una lontana citazione cinematografica, sembra il carabiniere grosso e buono di “Pane, amore e fantasia”, anche lui veneto, ed anche lui innamorato della giovinetta locale, la “bersagliera” nel caso del film di Luigi Comencini, la figlia di Barashi, il fattore padrone della vacca, nel libro di Fabbi.

E c’è il loro comandante, Ognibene, l’unico ad aver consapevolezza della divisa che indossa, l’unico che si senta investito di una responsabilità. Anche la responsabilità di tacere, di ingoiare, perché anche lui, in fondo, è “anti”. Ma è prima di tutto un Carabiniere e ha degli obblighi da far valere, delle leggi da far rispettare, costi quel che costi, anche fra quelle montagne dell’Albania.

Il delitto che sconvolge la calma di Lavraze e la tranquilla esistenza del piccolo di-staccamento italiano, svela un mondo antico, terribile e sconcertante, quello della “giakmarrja”, la vendetta di sangue, e del kanun, la legge arcaica, legge su cui Ognibene cercherà di far prevalere il suo Codice penale, senza riuscirci. Piano piano si adeguerà alla consuetudine locale che si perde nella notte dei tempi, smetterà di commentare quelle regole, quei riti con un “voi siete pazzi”, cercherà semplicemente di capire.

E allora sarà proprio una antica leggenda, quella di Rozafa murata viva, ad accendere il lampo dell’intuito nella mente del maresciallo e a dargli finalmente una pista, quella giusta.

Questo racconto di Cristian Fabbi (che è un giallista) non è solo un viaggio lungo una traccia che conduce ad un colpevole. È un viaggio nel kanun con gli occhi di un italiano, di un forestiero, occhi perciò stupiti ed increduli per l’assurdità di ciò che scoprono. Solo lì, fra quei monti quasi impenetrabili, riti e regole affiorano da profondità millenarie e diventano vita quotidiana. Accadeva così nei primi anni ’40, dinanzi ai tre carabinieri del distaccamento di Lavraze inventati da Fabbi. E accade così ancora oggi. E se penso ai ragazzi che la faida tiene murati vivi nelle proprie case nel distretto di Scutari (e non solo lì), aggiungo: purtroppo.

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Argomenti: Antonio CaiazzaCristian FabbiEdizioni Forme LibereKanun
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