Un incontro partecipato quello che ha visto protagonista lo scrittore Visar Zhiti in un evento di Albania Letteraria, in collaborazione con Istituto Italiano di Cultura a Tirana, presso la Biblioteca dell’IIC. L’autore ha dialogato con la professoressa di storia della letteratura mondiale, Belfjore Qose e Anna Lattanzi, capo redattrice di Albania Letteraria.
A introdurre l’evento il direttore dell’Istituto, Alessandro Ruggera, che ha sottolineato il piacere di avere ospite un autore del calibro di Visar Zhiti, in un appuntamento a suggello della collaborazione tra IIC e Albania Letteraria. Il dibattito si è snodato intorno all’ultima pubblicazione italiana dello scrittore, Sulle strade dell’inferno. La mia vita nel carcere di Spaç, per la traduzione del professor Matteo Mandalà, edita da Besa Muci Editore, 2022.
Il confronto iniziale si è svolto sulla terribile esperienza carceraria vissuta da Visar, quando, durante il regime repressivo di Enver Hoxha, fu arrestato dalla Sigurimi, l’8 settembre 1979, a causa delle sue poesie giudicate sovversive, contro il regime, frutto di una mente perversa da fermare assolutamente. Il libro è una testimonianza corale, che vuole dare voce alla sofferenza di chi lo ha scritto e vuole portare il grido di dolore di chi non ce l’ha fatta, oppure è rimasto inascoltato e abbandonato nella condizione di ex carcerato.
L’autore ha sottolineato come l’importanza del volume risieda anche in quello che è il filo conduttore delle vicende narrate: la memoria.
Gli albanesi tendono a non voler ricordare, a perdere la memoria e questo è estremamente dannoso. Certe cose non devono più accadere.
Un popolo che non ha memoria, rischia di non avere storia e di non avere futuro. In virtù di queste convinzioni, che fanno parte della serie di motivazioni che hanno spinto Zhiti, nei primi anni Novanta, a scrivere questo testo, esso assume un carattere divulgativo e informativo.
La professoressa Qose ha espresso la sua opinione circa la letteratura di Visar, che evidenzia indubbiamente la sua sofferenza e i suoi patimenti per aver subito una sorta di processo kafkiano, ma che, al contempo, esalta la “luce della vita”, acquisita nonostante il dolore.
Ancora il suo intervento ha fatto riferimento alla modalità di rapportarsi dell’autore nei confronti dei giovani e nel contesto dell’attuale panorama letterario moderno, mettendo in risalto l’importanza storica delle vicende che hanno coinvolto Visar. La sua speranza è che, un giorno, allo scrittore e al suo libro possa essere data la stessa importanza di Primo Levi o di Anna Frank.
Verso la conclusione, si è fatto riferimento alla poesia e soprattutto al ricorso alla poesia, per non impazzire: la salvezza, la sopravvivenza durante i lavori forzati o durante le ore di isolamento. Si è parlato anche di fede.
Tu sei profondamente religioso: come si fa a non perdere la fede in queste situazioni?
In realtà, ho acquisito la fede in carcere: quando sono entrato, tra i miei compagni di cella c’erano anche alcuni preti e vi era uno in particolare, che mi ha fatto capire che non poteva essere la nostra fine, che vi era ancora una fiammella di speranza per noi, che io ho ritrovato nella fede.