Besnik Mustafaj nasce il 23 settembre 1958 a Bajram Curri, una frazione del comune di Tropojë.
Si laurea in Lingua e Letteratura Francese all’Università di Tirana ed è nella capitale albanese che svolge la professione di insegnante, impegnandosi anche nel campo del giornalismo e delle traduzioni.
Conosce il mondo politico molto da vicino, tanto da essere uno dei fondatori del Partito Democratico d’Albania. Dal 1992 al 1997 è Ambasciatore d’Albania in Francia e dal 2005 al 2007 ricopre il ruolo di Ministro degli Esteri. Le controversie nate con l’allora Primo Ministro Sali Berisha, lo privano della tranquillità necessaria per continuare il suo mandato, portandolo, così, alle dimissioni. Nel 2009 si allontana, anche, dal Partito Democratico.
Mustafaj non è noto solo per il suo impegno politico e per aver lottato per i diritti del suo Paese; ad oggi, è considerato uno degli scrittori più celebri dell’attuale panorama letterario albanese. I suoi libri vengono tradotti in diverse lingue e nel 1997 viene insignito del Prix Mediterranéè étranger per Daullja prej letre, (Tamburo di carta), un volume incentrato sulla visione di un’Albania libera e viva, pur rimanendo ancorata alla sua complessa struttura. Lo scrittore disegna il profilo del Paese delle Aquile attraverso il mistero e la stravaganza, caratterizzanti i personaggi che animano il romanzo. Importanti opere di saggistica e raccolte di racconti portano la sua firma: è altrettanto non trascurabile la sua produzione di narrativa.
Albania: Tra crimini e miraggi
È il 1993 quando vede gli albori la prima pubblicazione italiana di Besnik Mustafaj, edita da Garzanti, per poi conoscere una ristampa nel 2019 con Castelvecchi Editore.
Albania tra crimini e miraggi è un saggio che narra del lungo e perenne periodo di transizione attraversato dall’Albania, dalla fine della dittatura di Hoxha sino alla democratizzazione.
Lo scrittore albanese racconta del salto politico – sociale del Paese, ricostruendo il suo passato, per arrivare alla narrazione del non semplice presente. Ben tre Imperi si sono succeduti a capo dell’Albania, a partire da quello Romano, per arrivare a quello Bizantino e finire con l’Ottomano. Il 1912 segna la fine dell’Impero Ottomano, che lascia spazio pochi anni dopo al totalitarismo fascista, per poi cadere nella morsa delle folli fauci del regime. Così gli albanesi sognano l’Italia, ma il Bel Paese ignora l’Albania, non conosce, o per meglio dire, trascura quelle sofferenze, che solo il 1991 porta alla luce, con l’arrivo delle navi stracolme di uomini. Quelle stesse persone che vedono l’Italia come l’unica speranza, il solo e ultimo porto sicuro.
Una bella ricostruzione quella di Mustafaj, che nel confronto tra passato e presente racconta di quel precario, se pur incantevole equilibrio che tiene in piedi l’evoluzione di un Paese, che ancora oggi, nonostante tutti gli sforzi, si ritrova nel bel mezzo di un importante e faticoso cammino alla ricerca della propria identità. Un libro scritto negli anni in cui i cambiamenti hanno inizio e rivisitato quasi trent’anni dopo, e ancora fortemente attuale, nel bene e nel male.
Una decisa e costruttiva critica, che non esita a sottolineare l’urgenza di un riscatto albanese e la necessità del ritrovamento del proprio IO di una Nazione martoriata dalle soffocanti dominazioni, a cui fa da sfondo un’importante ricostruzione storica. Uno scritto pregno di quella speranza dettata dalla caparbietà di un popolo estremamente combattivo, capace di trovare la forza di dare il giusto equilibrio ai profondi cambiamenti che da anni lo coinvolgono. Gli stessi timori e le stesse necessità di cui narra Virgjil Muçi anni dopo, nel suo La piramide degli spiriti, sottolineando l’attuale posizione dell’Albania nel suo percorso evolutivo. Uno Stato che parte dall’Inferno dittatoriale e che per arrivare al Paradiso della libertà e della democrazia, attraversa un Purgatorio che sembra non avere mai fine. Mustafaj parla dello stesso Purgatorio, con un racconto schietto che dissacra il dissacrabile, esaltando gli strumenti a disposizione della Nazione, la cui importanza, spesso, viene sminuita o non correttamente considerata.
Con uno stile asciutto che non si risparmia nelle descrizioni, con una scrittura di una sobria eleganza, Mustafaj consegna al lettore un pezzo di Storia, un corposo frammento di quel passato, che è necessariamente alla base di un prezioso futuro, cercando di dare le giuste risposte a tutte quelle domande, che si possono riassumere in un unico quesito: perché l’Albania non è ancora quella che ha sempre sognato di essere?

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Leggenda della mia nascita
Di impronta differente se pur forte allo stesso modo, è Leggenda della mia nascita, (Ensemble, 2012), in cui il “racconto” si fa poesia. Versi che nascono durante il regime comunista, all’apparenza soavi e di grande amabilità. In verità, i componimenti poetici contenuti in questa raccolta hanno un retroterra carico di profonda umanità, di grande amore per la vita e terribile sofferenza. Angoscia pura, inquietudine, fatica di vivere e quell’assenza di luce in un buio infinito, caratterizzano questi affabili scritti, poesie che dondolano su un’altalena di emozioni, sfiorando il male con l’occhio attento al bene.
Notevolmente coraggioso Besnik Mustafaj che decide di fare il poeta durante il regime, quel “mestiere di scrivere” che per qualcuno, in quegli anni, si rivela fatale. Gli “eretici” non vengono visti di buon occhio dalla dittatura e rischiano grosso. Del resto, la penna e i versi costituiscono l’unico mezzo che i poeti hanno per vivere la propria libertà, per lanciare quel grido di aiuto necessario e urgente. Così, fanno uso di metafore, di parole collocate al giusto posto, di sottintesi e così, rischiano di pagare con la propria vita e morire per aver narrato di libertà.
L’amore è il motore del mondo, è l’unico sentimento in grado di resistere alla devastazione umana. Quella stessa distruzione che il poeta racconta attraverso le lugubri figure che animano le sue poesie, che sembrano essere portatori di quell’ira funesta che travolgerà poeti e versi. La poesia è sentimento puro, profondo, ma non è arma imbattibile.
Mustafaj vuole lasciare un’impronta, forte, decisa, unica e il suo tentativo è indubbiamente ben riuscito; sono componimenti carichi di intima emotività, da cui emerge la gelida mancanza di libertà e quell’imbattibile voglia di farcela, insieme a quella compatta foschia che annebbia ogni futura speranza. Un accostamento di parole che crea una dolce, quanto potente musicalità, non priva di determinazione, che vuole essere un pregevole strumento emotivo e divulgativo.

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Piccola saga carceraria
Dopo circa sei anni dalla pubblicazione delle poesie, Besnik Mustafaj torna in Italia con un libro che vede la luce in Albania ben trent’anni prima. Piccola saga carceraria (Castelvecchi Editore, 2018), si compone di tre diversi racconti, che ruotano intorno alle storie delle famiglie Huta e Hidi e alle svariate forme di totalitarismo, segmenti fondamentali della storia albanese, uniti da un comune denominatore: il carcere per i detenuti politici.
Il primo racconto vede protagonista un giovane, che non ha mai conosciuto suo padre in quanto prigioniero politico. Nonostante questo, ha un’idea a dir poco eroica del suo genitore, rafforzata dalla stima che gli adulti che lo circondano hanno di lui. Nel suo immaginario prova un grandissimo orgoglio nell’essere figlio di un padre in carcere per motivi così nobili. Finalmente, ha occasione di far visita all’uomo, ritrovandosi di fronte a una realtà totalmente inaspettata. Il ragazzo non guarda occhi fieri e un fisico vigoroso, ma occhi spenti e un corpo e una mente duramente colpiti e vessati dal carcere. Un colloquio che per lui si rivela dolorosamente spiazzante.
La seconda storia si incentra sull’attesa di un incontro. Un detenuto politico, come premio di buona condotta, può incontrare sua moglie. Un’attesa piena di emozioni e delle più vive sensazioni: l’uomo sogna i baci della donna, sente già il suo abbraccio. Per ottenere tutto questo, accetta qualsiasi imposizione. Ecco, però, che sorge un dubbio: qualcuno spierà e coglierà il giusto momento per rinchiudere in carcere anche sua moglie. Le speranze e i dolci turbamenti svaniscono nel momento più bello, quando le mura che vengono concesse come premio, diventano lo strumento soffocante della dittatura, che ha avuto il tempo di “infiltrarsi” nella mente del prigioniero, cambiando le sue sorti per sempre.
La terza narrazione si snoda intorno alla dura realtà con cui si scontra una guardia carceraria, che assiste alla chiusura dell’istituto penitenziario. Stranamente, l’uomo, che non ha mai risentito della presenza del regime, impazzisce di fronte alla fine di quella che lui considera la “propria” realtà. Non riesce ad accettare lo svuotarsi del carcere e di vivere una vita non più cadenzata dall’oppressione. Deve uccidere, solo così giustizia sarà fatta.
Costrizione, giogo e vessazione sono le parole d’ordine di questo Piccola saga carceraria, un grido di protesta e di dolore contro il dominio che soffoca la libertà. Storie nella Storia, attraverso le quali Mustafaj descrive quel potere politico dittatoriale capace di penetrare nella parte più recondita dell’umanità, annientandola. La lettura del libro è a tratti sconvolgente: il totalitarismo si infiltra nella testa della gente, sino a distruggerla, a incenerirla. Un figlio, un marito, una guardia, tre figure differenti che vengono manipolate, loro malgrado, dalla dittatura. Una descrizione compatta, fredda e realistica degli usi e della quotidianità carceraria ai tempi del regime, che tratta, magistralmente, argomentazioni riferite all’Albania, estendibili a tutti quei Paesi in cui i più elementari diritti vengono ostacolati, oppressi e blindati. Uno stile che qui si fa aspro, di quella ruvidezza data dal dolore e dalla sofferenza, di chi ha visto da vicino violenza e sottomissione e una vandalica coercizione mentale.
