Quel giorno faceva caldo e alla gente non andava di mangiare carne. Il bazar si era svegliato per primo, ma poi si era svegliata anche la città. Questa, di solito, si stancava nel bazar e si rilassava in chiesa. Ma era domenica e non tutti lavoravano. Era un giorno di bazar e non tutti andavano in chiesa. Per i contadini era una giornata di lavoro. Per gli abitanti della città una giornata di chiesa e di bazar. Le donne uscivano dalla messa del mattino, si avviavano verso il bazar, riempivano i sacchi gonfiandoli come seni e poi tornavano a casa. E se facevano tardi per stare dietro a cose inutili, i bambini le aspettavano a bocca aperta. Gli uomini stavano all’ombra, fumavano tabacco e guardavano le donne. Le bestie stavano al sole, aspettavano di essere vendute e guardavano gli uomini. Quelli che sentivano caldo si rinfrescavano nel lago. Ma la città stava in mezzo alle montagne e non tutti sapevano nuotare. Il bazar ormai stava per chiudere e lui non era riuscito ancora a vendere le due pecore che aveva portato. Raccolse i pochi soldi che aveva guadagnato e partì.
La moschea si trovava all’uscita della città. D’inverno quella strada era immersa nel fango, ma quel giorno c’era afa e la terra bruciava sulla testa e sotto i piedi. La porta della moschea era serrata. Lui bussò con una pietra sulla porta. Dopo un po’ si presentò l’imam che si fasciava il turbante sulla testa rasata. Alekum Selam. Buon giorno, disse lui. Voglio diventare musulmano. Prego, si accomodi, lo invitò l’imam. Sei il primo che viene oggi. Di domenica i cristiani si occupano di commercio. Entrò e sentì freddo. Si sedettero uno accanto all’altro su un rrogoz, che dal suo lato sembrava meno consumato dall’uso. La moschea era vuota. Il sole faceva fatica a entrare dalle quattro piccole finestre sparse sulle pareti. In un angolo scuro a stento si distingueva un pentolone; accanto a questo pane e olive. Ti trovi nella casa del Signore, gli disse l’imam, come per dirgli che non c’era motivo di stupirsi. E il Signore mangia olive, disse lui, cercando di riscaldare la moschea con una battuta. L’imam non mosse neppure un muscolo. Le olive le mangio io. I medici assicurano che fanno bene ai reni.
Ma perché vuoi entrare nell’islam, gli domandò seccamente l’imam, senza dargli scampo, ma lasciandogli continuare il suo viaggio lungo le pareti vuote della moschea. Lui rispose che non aveva alcun motivo in particolare, ma era dell’avviso che l’islam è qualcosa che si deve provare. Io guadagno appena per mangiare, cominciò a spiegare. Non ho alcun motivo particolare. L’islam è la religione dell’Impero e io la rispetto come un cittadino normale. Dall’islam derivano le leggi, le imposte, l’esercito e la giustizia. E se non attingi alla vera fonte, tutto ciò non lo puoi usare come si deve. Prima o poi tutti diventeranno musulmani. Mio padre diceva sempre che non si deve lasciare per domani un affare che è di oggi. La mattina io mi alzo presto, come le bestie che vendo e che curo, per cui non mi è difficile pregare negli orari che stabilisce la vostra religione. Conosco molti altri che se avessero avuto gli orari delle bestie sarebbero diventati musulmani. Quanti anni hai? Trentanove, li ho compiuti a luglio. Ci sono altri musulmani nel tuo paese? No, disse lui, io sarei il primo. Conosci qualche altro musulmano? Si grattò la testa e si ricordò. Conosco Ali Tepelena. E chi è questo, disse l’imam. Ali è un brigante. Uno che tende agguati alle carovane e saccheggia cibo, merci e bestiame per andarli a vendere. Recentemente gli hanno conferito una onorificenza a Istanbul e i suoi fidi lo chiamano dervenxhi.

L’opinione
Vivere sull’isola è il secondo libro di Ben Blushi tradotto in italiano. Questa edizione è stata realizzata dalla casa editrice Besa, con il sostegno e in collaborazione con il Centro per il Libro e la Lettura d’Albania.
Il volume è stato pubblicato in patria nel 2008, quando Blushi era nel pieno della sua carriera politica, riscuotendo un ampio successo e vendendo un alto numero di copie, anche se indefinito. A tal proposito, le informazioni variano, dalle sessantamila, alle trentamila, alle diecimila. Comunque sia, le voci sono concordi sul successo di pubblico ottenuto dal libro.
Vivere sull’isola è un volume che parla di storia e che disegna il percorso storico albanese a partire dal 1600 attraverso svariate località e una realtà che tocca ben tre generazioni. Una storia di conversione necessaria e urgente per l’inclusione in un’Albania sotto la dominazione ottomana. È l’assurdo processo di islamizzazione che vuole eliminare il marchio del cristianesimo, in un percorso imposto che non lascia altra via d’uscita. Così, il protagonista si ritrova a essere escluso dalla sua originaria comunità cristiana, per andare incontro a un’accettazione forzata.
Nonostante la mole imponente, la lettura scorre; le dinamiche che animano la storia sono strutturate in maniera interessante e con l’obiettivo di dare un quadro storico-sociale dell’Albania in grado di ripercorrere il brutale periodo della dominazione ottomana e in particolare quello dell’islamizzazione, ottenuta attraverso la coercizione e la privazione dei più elementari diritti umani.
Tuttavia, il racconto dei fatti storici che vuole fare da sfondo alle vicende narrate, pur essendo potentemente protagonista, non sempre è disegnato con cognizione di causa. Il testo presenta qualche buco narrativo e in alcuni punti è privo di una buona concatenazione dei fatti esposti. L’autore difficilmente rimane sopra le parti, ponendosi quasi sempre in una posizione giudicante.
Il profilo di Vivere sull’isola rimane comunque buono, ma decisamente trascurato in quegli elementi che avrebbero potuto impreziosirlo sino a farlo diventare un ottimo lavoro e magari permettergli di conquistare un posto nella collana Passage, la più prestigiosa della casa editrice neretina.