Ardian-Christian Kyçyku o Kuciuk (Pogradec, 23 agosto 1969), è uno scrittore di espressione albanese e rumena, autore poliedrico di oltre 50 opere originali (romanzi, prose brevi, drammi, sceneggiature, traduzioni e saggi). Pluripremiato per i suoi romanzi, in Albania, Kyçyku è anche un profondo conoscitore dei Balcani (co-fondatore dell’Istituto di Studi balcanici “Hæmus” e dell’omonima rivista, di cui è anche direttore e redattore). La sua prosa visionaria, che è stata, spesso, accostata a quella di Kafka, Kadarè, Buzzati o Murakami, attinge a un immaginario più balcanico che albanese, aspirando all’universalità. Autore de L’anno in cui fu inventato il cigno (Besa Muci Editore, 2021), pubblicato nella traduzione di Giuseppe Stabile, in questa interessante intervista, si racconta e ci racconta. Buona lettura.
Parliamo de L’anno in cui fu inventato il cigno. Perché decidi di scrivere questo romanzo?
È il mio primo libro redatto direttamente in romeno. Sono passati 25 anni da allora. L’ho scritto tra il 7 ed il 18 febbraio 1996, a Bucarest. Ha avuto un’accoglienza straordinaria, non soltanto perché “figlio” di un autore straniero.
Dopo questo libro ho scritto Il dolce mistero della follia (33 prose), Una tribù gloriosa e morente – l’epopea di un oblio. Sono tutti romanzi autoconclusivi che possono essere letti separatamente, ma anche come una trilogia, definita dalla critica “la nuova mitologia balcanica”. Quando ho iniziato a scriverla, non pensavo andasse così; alla fine, ho risposto alla scintilla dell’ispirazione.
Di solito circolano due tipi di libri incentrati sul periodo della dittatura: una parte trasmette eventi che vanno oltre la letteratura, un’altra tratta le cose con un umorismo dubbioso che, invece di ravvivare il naturale, minimizza la sofferenza e il male causato dall’uno all’altro. Entrambe le opzioni sembrano togliere il diritto di parlare e di testimoniare a coloro che non hanno sofferto gravemente, non hanno torturato nessuno e comunque non hanno vissuto tranquillamente.
Da qualche parte ho definito questi ultimi “sofferenti di seconda linea”, considerati dalla stessa collettività odierna come esseri di seconda mano. Queste persone, in verità, rappresentano la maggioranza taciturna, spesso riconosciuta nel popolo. E poiché, nel tempo, si è creata la psicosi di quella meritocrazia, che consiste nell’essere ricompensato tanto quanto hai sofferto, quelli di seconda linea sono emarginati, come se non esistessero, non avendo diritto di proferire parola. Ma se tacessero sempre, come potrebbero mai vedersi le grandi sofferenze di alcuni e il profitto di altri?
Non bisogna dimenticare che “il popolo”, oltre alle angosce provocate dalla dittatura, ha affrontato sulla propria pelle i supplizi immutati, eterni dell’esistenza, nonché le sorprese a volte amare dell’amore, della povertà, dell’anonimato, dei traumi delle mutazioni, dell’ età, dell’ansia di essere arrestati, distrutti, ecc.
Ovviamente non ho parlato a loro nome, ma ne ho descritto la situazione. Vivendo nell’ombra, l’afflizione li ha scelti per capire chi più di altri abbia subito le conseguenze del conflitto. Non erano indifferenti, ma vivevano in un destino comune. E spesso i patimenti inaspettati si sono trasformati in un’iniziazione. Il tormento del corpo li ha spinti nei misteri dell’anima. Oggi sono rimasti gli stessi: non pretendono nessun favore, nessun diritto, nessun colpevole, nessuna ricompensa.
Gli spazi temporali, contenuti nel romanzo, sono diversi e indefiniti, pur rimanendo ben collocati in un unico mondo. Questo, in parte, permette al protagonista di assumere una concreta consapevolezza dello status del proprio Paese. Pensi sia necessario perdersi nei tempi e nelle epoche, per fare pace con la propria storia?
Il protagonista è troppo giovane per divenire un essere politico. Forse, geneticamente, non ha fretta di entrare nella vita della “città”. In un paese in cui i bambini, prima pronunciano le parole Partito-Enver, poi Padre-Madre, vuole innanzitutto amare ed essere amato.
Si sente intrappolato nelle reti uniformizzanti del sistema e viene catturato proprio al confine tra l’amore e la società. Viene arrestato, accusato di voler abbandonare la Patria (rischia di essere condannato a molti anni di carcere per alto tradimento). Così termina la fuga in cui ha vissuto. Nella cella, riceve un colpo ai genitali, probabilmente un avvertimento del tipo:
Se non obbedisci, sarai lasciato non solo senza amore, ma anche senza prole. La tua razza scomparirà e da te uscirà solo l’ultimo respiro. Non essendo coinvolto nella nostra politica visionaria, che ispira tutto il proletariato mondiale, sarai come se non fossi mai nato.
Il giovane cade dall’anima nel corpo, per così dire; dalla poesia vissuta istantaneamente e spontaneamente, forse ancestrale, di un mondo come Dio lo ha creato, in una vita quotidiana, composta e guidata da persone, la maggior parte atee. Anche se strombazzano di aver creato un universo nuovo, diverso da tutti gli altri, non credono in un altro mondo e quindi rimangono spietati e insaziabili. Sono convinti che, avendo il potere, abbiano il diritto di avere tutto. Diventano, così, schiavi della forza e gradualmente finiscono per lacerarsi tra di loro ferocemente.
Quando si vive in un regime dittatoriale, è facile convincersi che il passato sia stato sconfitto, che il presente sia nelle mani più sicure possibili e il futuro non possa che essere luminoso. Sembra quasi di vivere tre volte nello stesso presente.
La caduta apre al protagonista gli spazi del passato, che dimostrano come un’epoca gravemente malata, più agisce contro l’uomo, indipendentemente dalla sua durata, più diventa banale. Il personaggio di un altro libro dice ai potenti del giorno:
Mi dispiace che vi scorderà la gente e non l’inferno.
Personalmente ho vissuto un’esperienza simile, che ho chiarito dopo essermi recato in esilio (culturale, non economico o politico). Sono stato espulso dalla vita quotidiana del mio Paese e collocato in uno spazio conosciuto solo da libri e testimonianze, con molto tempo a disposizione.
Il primo periodo di espatrio è stato, infatti, un grido nel deserto, come un canto del cigno lasciato senz’acqua. Il mio grido è stato ascoltato e, libro dopo libro, sono stato accolto nella sfera della memoria, dove i tempi si combinano e rivelano all’anima cose, senza le quali non si potrebbe sopravvivere. Ho descritto questa mia condizione in numerosi libri, in albanese e/o in romeno. Chi sente di non appartenere più a se stesso, diventa testimone, ma solo per trasmettere agli altri l’essenzialità o le domande. Fortunatamente, più i quesiti diventano globali, più le risposte rimangono individuali.
Simbolo enigmatico e spettrale della rivelazione è il cigno del titolo, fragile, ma irriducibile sfida alla mostruosità della Storia e alla degradazione dell’umano. Si tratta di una competizione tra buoni e cattivi, oppure di un estremo tentativo di riscatto?
La letteratura autentica e devota può raggiungere l’area delle sfumature superiori e definitive, dove si può vedere chiaramente la differenza tra un ruolo ben delineato e le qualità soggettive. Le persone si muovono in una profonda ignoranza di se stessi, più grave della cecità e molto spesso non capiscono o rifiutano di accettare, perché hanno agito in un modo o in un altro.
Il cambiamento sociale, tutto di breve durata, modifica la nostra percezione della contemporaneità e dell’esistenza. Il male, in realtà, esiste, sia come funzione che come verità, a seconda della realtà di un ruolo e del ruolo di una realtà.
Un esempio, potrebbero essere gli attori, siano essi di talento o mediocri, che hanno interpretato i dannosi testi del realismo socialista, contagiando le coscienze di diverse generazioni di spettatori. Il declino si ottiene (principalmente) con l’utilizzo dei simboli.
Di solito, le persone indossano una certa avidità primitiva, per lo più biologica, vestendosi di alti ideali, tipo:
La città era abitata da rettili velenosi, ma sullo stemma aveva l’aquila, la tigre, il piccione, il leone, ecc.
I simboli, quindi, vengono imposti proprio con l’aiuto della parte biologica degli individui che, nel loro profondo, difficilmente possono attendere un ideale e, soprattutto, la trasformazione dei bisogni primari del corpo in valori. Un simbolo è preso come verità, realtà e chiunque può vedere, anche vivere, ora o più tardi, ciò che insegue.
Mi interessa sapere la tua opinione sulla situazione in Albania oggi.
La mia Albania è spirituale, composta da numerosi strati di epoche e di testi. Ho lasciato il mio Paese trent’anni fa, un’intera vita ormai. A trent’anni molti autori sono già morti.
Forse ti deluderò, ma non credo che uno scrittore debba esprimersi su temi che si evolvono sotto un’altra stella, diversa da quella della letteratura. Abbiamo visto più di una volta che il coinvolgimento degli intellettuali in politica – basti pensare ai rappresentanti del realismo socialista – non solo priva di autorità l’autore, ma riporta a una società che fa tutto il possibile per prendere in ostaggio la vera letteratura. Questo è anche il caso di alcune delle culture letterarie balcaniche e non solo. Molte grandi opere sono state scritte e pubblicate in condizioni molto difficili, come quelle imposte dal regime.
Vado in Albania ogni volta che posso e ogni viaggio è una rivelazione per me. Non vengo accolto come un figlio perduto, ma come un prescelto. Con tenerezza, senza parole o gesti descrittivi. È come se non me ne fossi mai andato. Ogni volta che torno, non me ne sono andato: non è un gioco di parole, ma la verità, che mi fa sentire molto fortunato. E scrivo.