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Intervista ad Artur Nuraj, lo scrittore figlio dell’Albania madre

Anna Lattanzi Anna Lattanzi
5 Ottobre 2022
Artur Nuraj (Antony J. Latiffy)

Artur Nuraj (Antony J. Latiffy)

Artur Nuraj (già Antony J. Latiffi) è nato a Valona (Albania), nel 1968. Narratore, sceneggiatore e collaboratore di Albania news è considerato uno dei pionieri del noir albanese moderno e si distingue per la sua predilezione per il pulp.

Esordisce nel 2008 con il thriller Lo yàtagan, dato nuovamente alle stampe nel 2022 da Besa Editrice, un romanzo che si è guadagnato l’interesse della critica ed è stato anche adottato come testo universitario. Consolida il suo percorso creativo nel 2014 con l’hard-boiled Tempo per morire, edito da Parallelo45. Nel 2015 torna a pubblicare con Besa Editrice il romanzo L’età della rosa. Nello stesso anno, vede la luce con Paradigmi il romanzo breve The Body.

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È fresco di stampa il suo nuovo romanzo, ancora un thriller, di cui lo scrittore che vive a Verona dove lavora come revisore di testi e sceneggiature per alcune agenzie editoriali e produttori cinematografici, ci parla in questa intervista, andando oltre la riservatezza che lo contraddistingue. Buona lettura.

Iniziamo dalla fine. La valle dei bambini perduti è il libro appena uscito per i tipi di Marsilio Editori. Ti lascio parlare a ruota libera della tua ultima fatica, ponendoti al contempo due domande: perché decidi di siglarlo con il tuo vero nome e perché fino a poco prima hai usato uno pseudonimo?

Hai ragione, la stesura di questo romanzo è stata una bella fatica. Ha richiesto anni di studio, lavoro e sacrifici, ma ha costituito anche un modo di amare ciò che facevo attraverso questo enorme sforzo.

Il libro racconta di un giovane detective, Ludovik Lamani, che, dopo aver trascorso alcuni anni sfiancanti nelle regioni del Nord e per meriti ottenuti sul campo, viene trasferito nella capitale albanese. Qui gli affidano subito un caso complesso, che riguarda il suicidio della figlia adolescente di un importante membro del Partito, che ha tutta l’aria di essere un’indagine di routine, mostrando subito, in realtà, i suoi aculei sotto forma di dubbi, che spuntano già dai primi rilevamenti sul cadavere.

Mentre il detective è alle prese con questo caso, ne spunta fuori un altro, che ha a che fare con le sparizioni misteriose di alcuni ragazzi rom avvenute a Tirana e in altre città albanesi negli ultimi dieci anni. Niente male per un poliziotto ambizioso e intraprendente come Lamani, che affronta di petto entrambe le situazioni, con l’obiettivo di  risolverle a ogni costo. Ciò, però, si rivela un’impresa più ardua del previsto, acuita da un duello psicologico silenzioso e agguerrito con i fantasmi che spuntano dal suo passato. È meglio che mi fermi qui, altrimenti rischio di svelare troppi elementi della trama.

Questa volta ho deciso di siglare il libro con il mio vero nome per un’esigenza che è nata sin da quando ho iniziato a scrivere le prime bozze di questo romanzo. Precedentemente ho usato lo pseudonimo di Antony J. Latiffi perché, essendo una persona molto riservata e piuttosto introversa, non amo la notorietà e tutto quello che gira intorno a essa. Tuttavia, a un certo punto mi sono reso conto che Anthony aveva terminato il suo ciclo, esaurendo il suo non facile compito di “tenermi lontano e al sicuro dalla notorietà” e che quindi era arrivato il momento di lasciarlo andare e uscire allo scoperto.

Decidi di narrare dell’ Albania attraverso il thriller: perché scegli questa modalità di raccontare e come definiresti il concetto di vendetta?

Perché no? La gran parte degli autori albanesi contemporanei preferisce narrare l’Albania attraverso la letteratura tradizionale o di “spessore”, come amano chiamarla alcuni circoli letterari di élite, e non ci vedo nulla di male. Tale fenomeno si manifestava anche durante l’epoca del regime, dove gli autori dei cosiddetti romanzi d’appendice, quali sono i gialli o i thriller, si contavano sulle dita di una mano.

Il più autorevole rappresentante del genere, a quei tempi, era Neshat Tozaj, l’incontrastato maestro del thriller albanese, un pioniere che fece da apripista a tutti quei giovani autori albanesi che, come me, amano il genere in modo viscerale. Fu proprio Tozaj, attraverso le sue opere e l’inconfondibile stile crime che segnò un’epoca, seppur censurato fino all’osso dal regime, a risvegliare in me la passione per il genere e a far sì che iniziassi a scarabocchiare i primi quaderni con idee, episodi e racconti brevi che più tardi avrei tramutato in testi veri e propri.

Quanto al concetto di vendetta, devo ammettere che una volta, quando ero più giovane e istintivo, lo consideravo una legittima soluzione per riscattarsi e pareggiare i conti verso chi infligge una grossa perdita ai propri simili. Si sente dire spesso che l’uomo con l’età diventi più saggio e posato e di conseguenza più propenso a cambiare alcune opinioni, un tempo ritenute immutabili nell’intimo della propria integrità morale. Così, il mio parere sul concetto di vendetta, oggi, è molto diverso: credo fortemente che non si possa riempire un vuoto incolmabile provocando un altro vuoto incolmabile, ma solo amando con più intensità ciò che ci rimane.

Quando e perché decidi di iniziare a scrivere?

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Ero adolescente. Fu per caso, o meglio accadde mentre leggevo i manoscritti e le poesie di mia sorella: era lei la letterata di casa. Allora ero più estroverso e mi divertivo a modificare i suoi testi cercando di dare loro un’impronta più vivace attraverso la parodia.

Cominciai a scrivere i miei primi versi quando ero a Tirana, presso il reparto militare della Guardia della Repubblica; era un periodo in cui leggevo molto, studiavo gli autori albanesi di crime e riempivo un quaderno a settimana. Quaderni che conservo tuttora, nonostante siano passate più di tre decadi.

Il tuo stile di scrittura si ispira a quello di qualche autore del passato?

A nessuno in particolare. Confesso di essere molto influenzato dai classici e dai russi. Ritengo le opere di questi ultimi una base importantissima per la formazione di un autore.

Qual è il personaggio da te creato che hai più amato e quale quello più odiato?

Mark Barleti, il personaggio principale del mio romanzo d’esordio, “Lo yàtaghan”, pubblicato nel lontano 2008. L’ho amato come si ama un fratello maggiore, l’amico di una vita. Sono legato a lui da un profondo affetto e riconoscenza, perché attraverso il garbo di un vero gentiluomo ha fatto scaturire in me l’ispirazione e quindi mi ha dato il coraggio di creare una storia e dei personaggi intorno alla sua figura. Per rendere l’idea di cosa significa Mark Barleti per il sottoscritto, dico che io ho creato Mark e lui ha reinventato me, in tutti i sensi.

Il più odiato si trova nel mio ultimo romanzo. Non è stato facile crearlo. Mi ha fatto patire le pene dell’inferno; ricordo notti passate in bianco per renderlo più perspicace e cruento possibile, tanto che sono arrivato a un punto in cui non riuscivo più a incastrarlo, mi sgusciava tra le mani come un’anguilla. Ora che ci penso, il nostro rapporto è stato un tira e molla tra odio e amore, più il primo che il secondo. L’ho tolto di mezzo senza chiedergli il permesso, quando meno se lo aspettava, ed è stata una liberazione. Almeno per me.

Che rapporto hai con l’Albania? Sia come scrittore che come uomo.

In questo caso non si può dividere lo scrittore dall’uomo e viceversa. Quando si tratta del nostro Paese siamo tutt’uno. Il rapporto fra me e l’Albania è lo stesso che c’è tra un figlio e la propria madre. Non c’è giorno che io non torni con la mente, almeno una dozzina di volte, alla mia terra, alla famiglia e alla mia gente. Non posso farne a meno, amo quella terra per ciò che è: storia, natura mozzafiato, contraddizioni, ospitalità, durezza e orgoglio, valore aggiunto per ogni albanese. E non la cambierei con niente e nessun altro Paese al mondo.

Cosa risponderesti a chi dice che l’Albania non uscirà mai dal suo periodo di transizione?

Risponderei che l’Albania ha superato da un bel pezzo il periodo in cui vagava nel buio più totale; ora, non solo vede la luce in fondo al tunnel, ma sente addirittura il calore del sole in faccia.

Quale Albania desideri consegnare ai tuoi lettori?

L’Albania di ieri descritta attraverso l’oggettività del mio punto di vista e soprattutto un’Albania vera e migliore, sempre attaccata alle proprie radici e tradizioni, un Paese che guarda al futuro con le idee chiare e la lungimiranza delle nuove generazioni, pronta a tracciare la via del progresso.

 Che libro hai sul comodino?

Ne ho due: L’inverno del mondo, di Ken Follett e  Un fuoco che brucia lento, di Paula Hawkins.

Grazie Artur, è stato un piacere dialogare con te.

Argomenti: Artur NurajAgenzia Letteraria ParadigmiBesa Muci EditoreMarsilio Editori
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