Eliza Çoba nasce a Scutari, dove consegue il diploma presso il Liceo scientifico J.Misja. Nel 1992 si trasferisce a Roma e si laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne. Pubblica alcuni articoli incentrati su tematiche socioculturali per il giornale “Shqiptari i Italise” e partecipa a diverse edizioni del concorso “Lingua Madre”.
Nel 2015 cura il volume Kur shejen mollat, una raccolta postuma di poesie scritte e nascoste da suo padre durante il periodo della dittatura. È docente di inglese e albanese, oltre che autrice del racconto Il mio zio italiano, che ha conosciuto interessanti trasposizioni teatrali e la pubblicazione nel volume Donne d’Albania in Italia, a cura di Rando Devole e Claudio Paravati.
Ho incontrato Eliza al Salone Internazionale del libro 2023 durante l’incontro organizzato dal Centro Editoriale per la Diaspora. Dopo una piacevole chiacchierata abbiamo deciso di darci appuntamento per un’intervista, ritrovandoci a due mesi di distanza dalla manifestazione torinese che ha visto l’Albania Paese ospite d’onore. Buona lettura.
Chi è Eliza Çoba ?
Sono arrivata in Italia nel 1992, dove mi sono laureata in lingue e letterature straniere alla Sapienza di Roma: sono una delle prime persone alle quali è stato concesso di studiare grazie a una borsa di studio, dopo il regime. Sono stati anni difficili, a iniziare proprio dalla lingua italiana, che pensavo di conoscere molto bene e in qualche modo era così; però, durante gli studi, mi sono ritrovata spesso a fare i conti con alcune specificità del linguaggio e a non capirne il senso.
Per il mio corso di laurea ho scelto la lingua inglese e la lingua albanese, tanto da presentare la tesi sui racconti di Mitrush Kuteli. Mi sono laureata, ma non ero in possesso della cittadinanza italiana che potesse permettermi di partecipare ai concorsi pubblici per entrare nel mondo della scuola. Avevo raggiunto l’obiettivo principale, sia per me che per i miei genitori che avevo lasciato in Albania: la laurea. Non era il solo, però, perché il secondo scopo era quello di aiutarli economicamente: così ho concentrato tutte le energie per poter avere uno stipendio a fine mese.
La mia generazione, quella dei primi arrivati, ha dovuto fare i conti con le difficoltà della lingua, con le complessità che si presentavano al momento di trovare lavoro e di ritagliarsi uno spazio nella nuova società. A questo si aggiungeva la volontà di creare una famiglia, specialmente per noi donne. È stato un percorso molto difficoltoso, del quale ho intenzione di scrivere, perché è unico. Per quanto tutti narrino di quello che è accaduto, di ciò che hanno vissuto in Italia, ogni cammino ha le sue peculiarità.
Oggi vedo i miei nipoti, tutti laureati, ragazzi in gamba, cresciuti in terra italiana, con i genitori che ancora fanno mille sacrifici per garantire loro una vita serena. Noi abbiamo dovuto combattere contro i pregiudizi, cosa che nel tempo è fortunatamente cambiata: i giovani, oggigiorno, non hanno alcuna difficoltà di accettazione sociale.
Tornando alla mia vita, per necessità, come tutti, ho iniziato a lavorare presso aziende private, ma non ho mai abbandonato il mondo della cultura, tanto che per un periodo sono stata vice presidente dell’associazione Occhio Blu e dalla nostra collaborazione sono nate tante attività. Non ho mai voluto staccarmi dal mondo culturale albanese.
Non ho avuto la possibilità di realizzarmi come insegnante di albanese nel pubblico, ma sono accreditata presso l’Esercito, nella sua organizzazione di Perugia, per cui quando si attivano i corsi di lingua albanese divento la docente di riferimento per Roma e una volta mi hanno chiamata anche a Perugia. È un’opportunità che mi piace molto, perché mi permette di insegnare la lingua, ma anche di parlare della cultura albanese a chi dovrà trascorrere, per lavoro, un periodo di tempo in Albania. In questo modo, chi si avvicina al mio Paese non lo fa totalmente al buio e questo mi piace.
Un altro momento bellissimo, per me, è stato l’insegnamento della lingua albanese alle nuove generazioni. Tempo fa, mi ha contattata il Presidente dell’Associazione romana Besa, proponendomi proprio di insegnare l’albanese ai bambini nati e cresciuti in Italia. È stato un impegno che mi ha arricchita e penso di aver dato tanto anche io a questi bimbi.
Presso la comunità di Sant’Egidio, invece, ho insegnato italiano agli stranieri (ero una volontaria). Tra gli allievi erano presenti tante donne, di diversa nazionalità, quasi tutte future badanti. Ho conseguito un master in pedagogia sociale, per l’insegnamento di inclusione sociale e sono in graduatoria per la docenza di lingua inglese. Mi dispiace non aver avuto modo di dedicarmi per tempo all’insegnamento; avrei potuto fare più tentativi con le scuole private, è vero, ma quando sei da sola e devi sbarcare il lunario, tutto diventa più complicato.
Parliamo del tuo racconto Il mio zio italiano: perché nasce e quale messaggio hai voluto consegnare al lettore?
Ho scritto diverse cose, ma il racconto è stato l’unico a essere pubblicato. Sono stata collaboratrice di alcune riviste culturali e messo nero su bianco tanto altro, di cui intendo chiedere la pubblicazione.
L’idea di scrivere Il mio zio italiano nasce quando ero molto giovane, perché una zia era sposata con un uomo italiano, rimasto bloccato in Albania dopo la seconda guerra mondiale. La loro è stata una storia d’amore molto bella; si sposarono e rimasero sposati in Albania per ben dieci anni, fino a quando, nel 1951 lui fu costretto a tornare in Italia e lei, essendo cittadina albanese, non poté imbarcarsi. Non si sono mai più rivisti.
Io sono cresciuta con questa storia, della quale si parlava e non si parlava, perché a quei tempi, in Albania, era meglio non parlare. Quando sono arrivata a Roma per i miei studi, ho scoperto che questo signore non solo era in vita, ma risiedeva a pochi minuti da dove ero io di casa. Così, l’ho cercato, l’ho incontrato e a qual punto è nato il desiderio di raccontare la sua sofferenza.
Io non ho mai conosciuto mia zia, è morta quando ero piccola e la storia mi è stata raccontata dalla mamma, quindi ho acquisito un racconto tutto al femminile. Parlando con questo signore, sono riuscita a portare nella narrazione il suo punto di vista e il suo dolore, creato non solo dalla perdita della zia, ma anche dalla perdita dell’Albania. Lui amava tantissimo Scutari della quale ricordava le canzoni, i nomi, le famiglie. Da quelle 17 pagine di racconto, emergono diverse vite; tra l’altro l’ho scritto in pochissimi giorni, ma per immaginarlo e costruirlo nella mia testa, ci è voluto tanto tempo.
Come si è arrivati alla trasposizione teatrale?
Questa è un’altra bella storia della quale vado molto fiera. Anche qui entrano in gioco la cooperazione Italia-Albania e la collaborazione tra donne. Ho perso mia madre durante la pandemia e il fatto che io sia riuscita a realizzare tutto questo prima che lei andasse via, significa molto per me, oltre che aver potuto dare il giusto valore a una storia tramandata.
Tutto nasce nel cortile della scuola di mio figlio: inizio a chiacchierare con una mamma che mi dice di essere un’attrice napoletana che fa tante cose. Io le dico che scrivo e così mi chiede di mandare il racconto, che sottopone al suo regista. Quest’ultimo, vedendo che la messa in scena può essere corredata da foto, video e musica, si mostra subito interessato. Tutto è nato così, per caso, per passione, senza scopo di lucro, solo per la voglia di raccontare.
Mi chiedi perché decido di dar luce al racconto… Proprio per narrare il passato, per lasciare una testimonianza, per la quale, senza volerlo, alla fine, ci siamo messi tutti in gioco. Si tratta di un reading teatrale, in cui l’attrice legge e alle sue spalle scorrono le foto: per realizzarlo è stata necessaria quella che io chiamo “l’operazione antropologica”, che ha comportato un’accurata ricerca di foto degli anni Quaranta, dei video, tanto che abbiamo chiesto all’Archivio Centrale del Film albanese, alcuni minuti utili per descrivere determinati momenti.
A raccontare, quindi, non è solo la voce dell’attrice, ma anche le foto e i video: la soprano Ana Lushi entra in tre momenti e canta tre canzoni Scutarine. Abbiamo portato lo spettacolo in diversi posti, tra cui anche la Scuola, per lasciare una testimonianza storica. Attraverso questo racconto, ho voluto evidenziare come tutti i regimi, indipendentemente dal nome che portano, sono dannosi, rovinano le generazioni che li vivono e quelle a venire. Io narro di questo impedimento e del male connaturato alla dittatura. Non sono una storica, ma so quello che faccio: ho cercato, quindi, di dare al racconto un profilo divulgativo, perché della storia d’Albania si parla ancora troppo poco.
Hai altro in cantiere?
Sto scrivendo un altro racconto che tratta di tematiche familiari. Mio padre scriveva poesie di nascosto, che venivano lette, sempre di nascosto, (visti i contenuti politici), quando arrivavano i parenti a farci visita. Alla fine, anche la democrazia per noi è stata una delusione, perché, per esempio, io sarei tornata in Albania, ma nel 1997 non si poteva far ritorno e non è stato più possibile farlo, perché non si sono mai create le condizioni. Dopo la morte di mio padre, ho raccolto e pubblicato le sue poesie in un’antologia che abbiamo presentato all’Università di Scutari, con il prof. Mauro Geraci. In questo periodo sto scrivendo un racconto su mia madre, perché credo che valorizzare la vita dei genitori sia uno dei compiti dei figli.