Giovanna Nanci è nata a Lamezia Terme nel 1982. Nell’A.A. 2001-2002 è entrata in contatto con la lingua albanese, in quanto studentessa del corso di laurea in Lingue e Letterature Moderne presso l’Università della Calabria. Si è laureata con il massimo dei voti nel 2008.
Presso l’ateneo calabrese, nel 2015 ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Studi Linguistici, Filologici e Traduttologici, discutendo una tesi di dottorato incentrata sul particolare filone di ricerca della Critica della Traduzione, applicata all’analisi traduttiva in contesto interlinguistico delle traduzioni italiane del romanzo Kështjella di Ismail Kadare.
L’approccio critico all’analisi della traduzione è stato acquisito nel corso dell’anno di ricerche dottorali e studio presso l’ateneo svizzero di Ginevra, Facoltà di Traduzione e Interpretariato, dove ha frequentato il corso di Critica della Traduzione tenuto dal prof. Lance Hewson.
Alla professione di traduttrice si è avviata grazie alla partecipazione al Progetto PromoAlba (NPP Interreg III-A FESR/Cards Italia Albania 2004/2006).
La Nanci racconta questo e tanto altro nella corposa intervista che ci ha rilasciato. Buona lettura.
Come diventi traduttrice dall’albanese? Parliamo del tuo percorso di studi e degli incontri che ti hanno orientato verso questa scelta.
Mi ero appena iscritta alla facoltà di lingue dell’Università della Calabria e avevo iniziato a seguire i primi corsi, quando ho fatto la scoperta, che si è rivelata tra le più determinanti della mia vita! Ricordo come fosse ieri quel momento. Seguivamo il corso di Linguistica, eravamo un centinaio di studenti nell’aula e in sottofondo il parlottio, in attesa che iniziasse la lezione.
In mezzo a quel cicaleccio, il mio orecchio colse una parlata bizzarra, con una musicalità particolare, nella quale riuscivo a cogliere qualche termine simile al dialetto calabrese o all’italiano, inserito all’interno di frasi dal significato a me ignoto e di cui non sapevo identificare la provenienza. Non potetti resistere e chiesi a quel gruppetto di studenti che lingua fosse. L’arbëresh, mi risposero con naturalezza, come se fosse l’idioma più noto della Terra. Mi sentii piccolissima, in quel momento, poiché non sapevo minimamente di cosa si trattasse. Era il lessico delle comunità storiche albanesi, presenti nella mia regione da cinquecento anni… e io cadevo dalle nuvole!
I miei nonni raccontavano di aver avuto dei contatti di lavoro, da giovani, con i “greci” di Vena di Madia o di Caraffa, con i quali, talvolta, avevano avuto difficoltà a capirsi, considerandoli come discendenti dalla Magna Grecia nel Sud d’Italia. Personalmente non avevo ancora avuto modo di fare luce sulla questione: difatti, non si trattava di greci, ma di albanesi!
Da quel momento qualcosa si illuminò nella mia mente, si accese in me il desiderio di rimediare a quella mancanza e al contempo di imparare qualcosa di diverso dalle solite lingue, l’inglese, il tedesco e il francese, già presenti nel mio curriculum. Mi recai dunque in segreteria e aggiunsi al mio piano di studi una materia a scelta: l’albanese. Fu amore a prima vista! Il lettore quell’anno era il prof. Gjovalin Shkurtaj, una figura professionale e amorevole.
Ricordo ancora la prima lezione. Imparammo l’alfabeto, iniziammo da “avull” (vapore). Fu questa la mia prima parola pronunciata in albanese. Ero l’unica non arbëreshe del gruppo, i miei colleghi già riuscivano a comunicare e io facevo di tutto per stare al loro passo. Iniziarono, poi, i corsi di filologia, con il prof. Francesco Altimari, quelli di letteratura con il prof. Anton Nikë Berisha dal Kosovo, i corsi di dialettologia con il compianto prof. Gianni Belluscio.
Raggiunsi ben presto un buon livello nelle competenze comunicative e durante l’estate del mio secondo anno di studi universitari, dopo dodici mesi di lettorato con la prof.ssa Aljula Jubani, presi parte al Seminario di Lingua, Letteratura e Cultura Albanese a Prishtina, in Kosovo. Fu un’esperienza così entusiasmante e formativa da lasciare in me il segno per tutta la vita. Incontrare studenti di tutto il mondo e comunicare con loro in albanese era qualcosa di incredibile e affascinante. Strinsi nuove amicizie, conobbi kosovari, che, a distanza di anni, sento ancora.
Divenni una frequentatrice abituale del seminario. Fu lì che conobbi, qualche anno dopo, il mio compagno, uno studente ceco di Praga, anch’egli appassionato e studioso dell’Albania e fu così che l’albanese divenne la mia lingua del cuore. Se tutto è andato così bene, lo devo molto all’ambiente stimolante, professionale, incoraggiante della Cattedra di Albanologia del prof. Altimari, che mi ha offerto tante possibilità formative durante il mio percorso di studi, rendendomi profondamente grata per la fiducia che mi è stata concessa e per avermi coinvolto in vari progetti universitari.
Oltre alle ricerche in campo dialettologico sulle comunità arbëreshe, desidero menzionare il progetto PromoAlba per la traduzione letteraria. Parte da qui il mio interesse rivolto all’attività di traduttrice. Nel quadro del programma, a conclusione del corso formativo seguito presso l’Università del Salento, fu proposto agli studenti partecipanti di realizzare una traduzione. Io avevo da poco conosciuto di persona il compianto prof. Luan Starova, albanese della Macedonia del Nord, il quale mi aveva fatto dono del suo romanzo, Kurbani ballkanik.
La scelta dell’opera da tradurre, dunque, fu chiara. Sacrificio balcanico (Acustica, 2008), mi aprì le porte al mondo della traduzione. Fu un lavoro difficile, come prima esperienza, eppure mi piacque tanto; scoprii un mondo nuovo, una prospettiva per il mio futuro. Mi dedicai a questo campo di studi con sistematicità, fino a conseguire il titolo di dottore di ricerca in Studi filologici, linguistici e traduttologici.
Pian piano acquisii maggiore consapevolezza delle mie competenze linguistiche e traduttive, così come dei limiti e delle potenzialità e grazie agli studi compiuti, iniziai a prendere dimestichezza con la professione, considerandomi, ancora adesso, un’esordiente motivata a continuare. In particolare, vale la pena menzionare il corso di Critica della Traduzione, tenuto dal prof. Lance Hewson presso l’Università di Ginevra, che mi è stato di particolare aiuto. In ogni lavoro di trasposizione che eseguo, faccio riferimento alle nozioni teoriche e al metodo pratico appresi durante le lezioni, che ritengo costituiscano il vademecum sul quale ogni traduttore dovrebbe fare affidamento.
Quali sono le difficoltà e le bellezze della traduzione dall’albanese, secondo la tua esperienza?
Il mio motto, tanto nella vita quanto nella professione, è “mettere il cuore in quel che si fa”. Sono convinta che si possa e si debba applicare questo precetto. Nel lavoro di traduzione penso sia determinante l’aspetto emozionale: entrare in contatto con un mondo diverso dal proprio, penetrare in esso, calarsi nella mente dell’autore, nel suo sistema di valori e nel modo che ha di comunicare agli altri contenuti e sensazioni.
Solo in seguito subentra la razionalità: è importante riuscire a trasmettere l’esatto contenuto del testo tradotto. In quanto calabrese, ritengo che tra la mia terra e l’Albania ci siano molte affinità, per cui, scavare nel sistema di valori appartenente agli scrittori albanesi, rappresenta un atto agevole per me, dal quale scaturiscono complicità e intesa. Dal mio punto di vista, la bellezza della traduzione dall’albanese all’italiano sta proprio nel fatto di poter scoprire i ponti che ci uniscono, la comunanza di principi e ideali e poterli trasmettere a chi, altrimenti, non li conoscerebbe mai.
Tradurre, tra le altre cose, significa divulgare. Cosa c’è di più bello, che divulgare e condividere con gli altri qualcosa che ti affascina e ti appassiona? Se poi si guardano le strutture linguistiche, ci rendiamo conto che tra l’italiano e l’albanese ci sono molte affinità, nella sintassi, nel sistema verbale e in quelli semantico e lessicale. Ciò costituisce un beneficio per il traduttore, a patto che lo sappia gestire nella lingua d’arrivo, evitando di incorrere in traduzioni troppo alla lettera, che ricalcano parola per parola le impalcature filologiche dell’originale.
Sarebbe bene non confondere la “fedeltà” nei confronti del testo di partenza, con la “ricalcatura” dello stesso: per essere fedeli, occorre prendere il dovuto distacco dall’organismo linguistico originale, al fine di rispecchiare forma, stile e contenuto dell’originale, nel volume tradotto.
Ovviamente tra le due lingue e le due culture si riscontrano anche molte differenze, motivo per cui, il lessico etnografico, per esempio, comporta delle sfide per il traduttore, il quale, non trovando un corrispondente nella lingua di arrivo, deve fare delle scelte traduttive: parafrasare, trovare accettabili equivalenti, inserire note a piè di pagina, riportare il termine originale corredato di spiegazioni, e così via. Si pensi alle parole: besa, meze, raki, opingë, amanet, e tante altre.
Ricordo l’umorismo e l’esattezza con cui Ylljet Aliçka, mentre traducevo il suo romanzo Valsi i lumturisë Il sogno italiano, Rubbettino Editore, 2016, mi spiegava alcuni termini ed espressioni relativi alla vita del popolo albanese sotto il regime comunista, di cui non trovavo riscontro nei dizionari. Uno su tutti: kanaçe, la lattina di alluminio usata per ricevere di nascosto il segnale della televisione italiana.
Quale impegno ha comportato tradurre Il dittatore in croce? La scrittura di Mira Meksi è molto particolare e ricca di sfumature.
Il dittatore in croce mi ha letteralmente rubato il cuore. È un romanzo fuori dal comune, avvincente, emozionante, istruttivo ed erudito allo stesso tempo. Ti porta con sé nei meandri della mente del tiranno, nelle sue frenesie; ti conduce, in punta di piedi, nell’interiorità dell’albanologo von Guttenberg, permettendoti di vivere le sue emozioni. Ti coinvolge nella passione e nella sofferenza della gente di Labova, dei saggi della Croce, ti rende partecipe dell’amore di Jolanda e del suo sacrificio, ti fa conoscere le brutture del regime comunista, ti impressiona, ti tiene col fiato sospeso, ti delizia e ti tormenta. Il linguaggio di Mira Meksi è così complesso, ricercato e articolato, da riuscire a passare da un capitolo all’altro, da un paragrafo all’altro, attraverso vari stili.
Da una narrazione lucida, verosimile e impersonale, si passa a un racconto lirico, denso di emozione, che tocca le corde dell’anima. Tradurlo è stato un lavoro impegnativo e affascinante: ho voluto curare ogni singola parola, trovando la sfumatura lessicale più adatta a tutto ciò che l’originale implicava. Mi sono premurata di rispettare le sfumature stilistiche e formali del testo di partenza, cercando di ricreare nel lettore di arrivo la varietà di stati emotivi, che suscita la lingua originale.
Un particolare impegno ha richiesto la terminologia relativa all’architettura bizantina e all’iconostasi. La precisione con cui la scrittrice descrive l’altare della chiesa di Labova e l’intero edificio, anche dall’esterno, necessitava di altrettanta esattezza nella lingua d’arrivo, il che ha richiesto ricerche e indagini in materia.
Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Mira Meksi, una donna eccezionale per la sua professionalità e il suo lato umano. È stata sempre esaustiva e cordiale nelle spiegazioni che ha fornito alle mie domande. A volte abbiamo cercato insieme la soluzione migliore, ci siamo trovate in sintonia e in convergenza di vedute su tanti aspetti, anche al di là della traduzione. Quest’ultimo è uno dei maggiori riconoscimenti, la massima gratificazione, per un professionista del settore.
In tanti sostengono che, dopo l’opera di trasposizione, il libro diventi un po’ del traduttore o della traduttrice e alcuni autori ne sono talmente convinti, tanto da non volervi apporre più l’autografo. Cosa ne pensi?
Per me è significativo e stimolante il rapporto che si crea con lo scrittore o la scrittrice. Ho apprezzato questo aspetto fin dai miei esordi, quando ero carente di esperienza e di autostima. Ripenso al prof. Starova, un uomo colto e cordiale, il quale fin da subito si è dimostrato pronto a rispondere con dedizione a ogni mia domanda, dimostrandomi la sua stima in varie circostanze. In occasione della traduzione del romanzo Librat e babait I libri di mio padre, Rubbettino Editore, 2018, ricordo che sottolineò quanto fossi riuscita a entrare nella sua ottica di vita e a ben gestire i ricordi legati all’esilio della sua famiglia.
A volte si complimentava perché riteneva che avessi espresso meglio di lui un certo concetto. Per me era un incoraggiamento a fare bene, ma non ho mai avuto l’ardire di voler migliorare il libro originale, né di pormi al di sopra dell’autore. Il traduttore ha fatto un buon lavoro se il testo tradotto si presenta scorrevole, armonico, fluido, consono alle norme grammaticali e stilistiche del sistema letterario di arrivo e soprattutto quando riesce a mantenere, nella traduzione, il colorito dell’originale, lo stile, il registro, le peculiarità linguistiche e del contenuto, dietro le quali è riconoscibile lo scrittore. In breve, al di sopra della traduzione dovrebbe emergere l’impronta dell’autore, a cui il traduttore deve saper dare forma e voce.
Se il traduttore, poi, si affeziona a quanto traduce, tanto da sentirlo in parte frutto del proprio lavoro, della propria dedizione, a mio modo di vedere, ciò non sminuisce la figura dello scrittore, al quale rimane in ogni caso il merito di aver steso quel romanzo, di avergli dato vita, di averlo ideato ed elaborato.
Mi hanno riempito di gioia gli apprezzamenti di Grigor Banushi per le scelte lessicali fatte durante la traduzione di Simfonia e pambaruar, Sinfonia incompiuta, Besa Muci Editore, 2023, relativamente ad alcune espressioni dal caratteristiche regionali, in cui ho potuto sbizzarrirmi grazie alla familiarità con le locuzioni dialettali tipiche dell’Italia meridionale.
Pertanto, mi sento di dire che in quella traduzione ho potuto mettere del mio, ma non penserei mai di scavalcare l’autore circa la paternità dell’opera. Altresì, mi sono sentita gratificata e commossa, quando, nelle conversazioni con Mira Meksi, ci siamo ritrovate a dire “il nostro libro”. Non per questo ho l’ingenuità di pensare che un romanzo come Il dittatore in croce, nella cui dimensione di universalità si avverte il vigoroso battito del cuore schipetaro, possa appartenere più al traduttore italiano che all’autore albanese.
Quale libro o autore ti piacerebbe tradurre?
Non vorrei peccare di presunzione o superbia nel confessare che la mia massima aspirazione professionale sarebbe quella di tradurre in italiano Ismail Kadare, che considero la voce più autorevole della letteratura albanese, non solo in Patria ma anche al di fuori dei confini nazionali. Oltre ad apprezzare la sua cospicua e pregevole produzione letteraria, mi sento di sottolineare l’importanza della sua opera, ai fini della divulgazione della cultura, della storia, della civiltà albanese tra le cerchie intellettuali e tra il pubblico di lettori d’Europa.
In virtù della portata internazionale dello scrittore, il mio auspicio è che Kadare occupi, nel panorama letterario italiano, un posto dignitoso, grazie a traduzioni consone al valore artistico degli originali. Se potessi scegliere quale romanzo tradurre, indicherei Kështjella, nella variante rivista dall’autore e intitolata Rrethimi. In realtà si tratterebbe di una ritraduzione, dal momento che, in lingua italiana, sono già disponibili due rese di questo volume, una intitolata La Fortezza e l’altra I tamburi della pioggia, TEA Libri, 2008.
Ho incentrato la mia tesi di dottorato sull’analisi traduttologica di queste due versioni e ho avuto modo di constatare alcune incoerenze e lacune, sulle quali non intendo dilungarmi. Basti però menzionare il fatto che, eccetto la prima trasposizione, risalente al 1975, realizzata nell’ambito delle cosiddette traduzioni del regime da parte di uno staff di funzionari e intellettuali (albanesi, ovviamente) impiegati presso la casa editrice “8 Nëntori”, specializzata nelle traduzioni ideologiche, tutte le traduzioni italiane di Kështjella (otto in totale, di cui l’ultima uscita nel 2008) sono state realizzate dalla versione in lingua francese, operata da Augusto Donaudy. La sfida che mi piacerebbe affrontare sarebbe quella di fornire al pubblico italiano una traduzione nuova che, partendo dall’originale albanese, recuperi ciò che è andato perso o ciò che è stato manipolato per via degli infelici processi traduttivi, a cui il romanzo è stato sottoposto.
Progetti futuri sui quali stai già lavorando?
Sono impegnata nella traduzione del libro di Diana Çuli Dreri i trotuareve. Sono solo all’inizio, non so ancora quando il libro uscirà, ma posso garantire al pubblico di lettori italiani che si tratta di un’altra piccola perla della letteratura albanese, incentrata su tematiche inerenti il regime comunista, che si intrecciano con le sfaccettature della vita quotidiana degli individui, personaggi universali, nei quali, ognuno di noi può trovare un brandello di sé.