Julian Zhara, classe 1986, è un poeta, performer, traduttore, organizzatore di eventi e curatore letterario nato a Durazzo, che dal 1999 vive in Italia, dove ha pubblicato le due raccolte di poesie In apnea (2009) e Vera deve morire (2018). Nel 2014 ha fatto parte, con un progetto di spoken music, di Generazione Y, evento MAXXI presente anche nell’omonimo documentario andato in onda su Rai 5.
Tra il 2013 e il 2016, con il collettivo Blare Out ha curato il festival di poesia orale e musica digitale Andata e Ritorno, mentre nel 2016 gli è stato assegnato il Premio Internazionale di Poesia Alfonso Gatto e ha curato la direzione artistica del festival di poesia Flussidiversi/9. Alcuni dei suoi componimenti sono presenti su varie riviste specializzate, blog e nella raccolta La poesia italiana degli anni Duemila di Paolo Giovannetti (2017).
Nel 2020 gli è stato assegnato il Premio Lermontov nell’ambito del Premio Nazionale di Poesia “Città di Sant’Anastasia”. Abbiamo incontrato Julian Zhara durante il secondo giorno del Salone Internazionale del libro di Torino, al termine del panel La zona Dantesca. Cultura vicina/Influenze condivise, che ha visto l’autore confrontarsi con lo scrittore Besnik Mustafaj e con la traduttrice Liljana Cuka Maksuti sui punti di contatto letterari tra l’Albania e l’Italia attraverso i secoli.

Rispetto ai temi che sono stati affrontati nel corso dell’incontro appena conclusosi, come si sono sviluppati i rapporti letterari tra i due paesi nel corso degli ultimi trent’anni, quindi a partire dall’inizio della transizione democratica dell’Albania?
Credo che la letteratura italiana contemporanea degli ultimi vent’anni sia pressoché del tutto assente in Albania, nelle sue punte più alte; parlando di prosa, mi riferisco soprattutto a lavori antologici, come quello di Andrea Cortellessa (La terra della prosa. Narratori italiani degli anni zero, 2014).
Viceversa, credo che tanti capolavori della letteratura albanese contemporanea siano assenti in Italia, ovvero anche se sono presenti, questi autori non si sono ancora imposti sulla scena letteraria italiana.
Prendendo degli esempi analoghi che provengono dalla Romania o dall’Ungheria, autori come Mircea Cartarescu, oggi uno dei più amati dalla scena letteraria italiana, o Laszlo Krasnahorkai, autore di Satantango, hanno raggiunto il pubblico italiano in un modo che non si è verificato nell’ambito della letteratura albanese. I principali fattori possono essere quello editoriale, quello legato alla traduzione, ma anche ragioni più politiche che letterarie.
Per quanto riguarda il lato opposto, cioè la presenza della letteratura italiana contemporanea in Albania, ci sono autori degli anni zero ancora oggi poco presenti, quando non assenti, nei cataloghi albanesi. La stessa Ornela Vorpsi è stata tradotta e pubblicata in Albania appena due o tre anni fa.
Anche in questo caso, credo che i motivi siano editoriali e politici, non letterari o poetici. Per quanto riguarda la poesia, in Albania Milo De Angelis non c’è, manca Franco Buffoni, così come sono assenti Valerio Magrelli e Antonella Anedda, solo per fare alcuni nomi. In sostanza, credo che i rapporti siano ancora quasi tutti da costruire. Questo Salone per me è un passo fondamentale, un primo passo per la costruzione di rapporti e progetti duraturi.
Per quanto riguarda il tuo lavoro, oltre a essere un performer e aver pubblicato due raccolte di poesie, hai curato diversi festival e sei uno studioso di poesia e letteratura. Quali sono i progetti a cui stai lavorando o a cui ti dedicherai nel prossimo futuro?
In questo momento sto dirigendo la collana dedicata alla poesia orale LOUD per industria & letteratura, una realtà editoriale italiana giovane e molto interessante.
Nel frattempo, ho abbandonato il mondo della performatività quando ho visto cos’è un vero performer, ovvero Giovanni Fontana. Infine continuerò, come faccio già da anni, a fare da punto di congiunzione tra la letteratura
albanese e quella italiana nelle vesti di traduttore, anche perché come ho già detto, manca completamente quel trait d’union tra i vertici della letteratura italiana che ha segnato gli ultimi vent’anni e l’Albania, e viceversa.
Per fare tre esempi, cito dei romanzi albanesi che secondo me sono straordinari e che ho letto negli ultimi anni: Gjinkallat e vapës, (Le cicale della canicola), di Besnik Mustafaj, ancora non tradotto in italiano, Stina e hijeve, (La stagione delle ombre), di Virion Graçi, tra i libri più belli che io abbia letto, e Kukullat nuk kanë atdhe, (Le bambole non hanno patria), di Flutura Açka.
Parlando invece di poesia posso citare Virion Graçi, Luljeta Lleshanaku, che non è ancora stata tradotta bene in italiano e della cui traduzione mi sto occupando, e Agron Tufa, che in questo momento è in esilio in Svizzera: secondo me è un autore capitale della letteratura albanese degli ultimi vent’anni e vorrei proporlo ad alcuni editori.
In Italia mancano proprio i cosiddetti maestri della poesia contemporanea albanese, così come manca completamente quella fetta di poesia italiana antilirica, o non lirica, sperimentale, in Albania, che credo potrebbe nutrire le nuove generazioni, perché da quanto ho visto i poeti delle nuove generazioni sono esclusivamente lirici.
Prima dell’incontro appena concluso hai detto che non scrivi poesie in albanese, ma solo in italiano. Spesso si pensa alla poesia come all’espressione della propria interiorità, dei propri sentimenti, e può sembrare strano che un autore decida di non farlo nella sua lingua madre. Come mai non utilizzi l’albanese come strumento di espressione?
Io sono venuto in Italia quando avevo tredici anni e ho sempre pensato che l’italiano fosse la mia lingua intellettuale, ma in realtà non è così: non è la mia lingua intellettuale, ma è la lingua delle emozioni.
La prima volta che ho detto “ti amo” l’ho detto in italiano e non in albanese, la prima volta che ho cercato di conquistare una ragazza l’ho fatto in italiano, quindi quando ho dovuto effettivamente confrontarmi con le mie emozioni, ad esempio con la psicoanalisi, l’ho fatto in italiano.
L’albanese è la lingua dell’inconscio, la lingua dei sogni, ma in tutti questi anni ho studiato in italiano e dunque non sarei in grado di avere lo stesso strumentario in albanese. La poesia non è la trascrizione delle proprie emozioni. La poesia è lavoro, stile, un sistema molto complesso dove si incontrano tanti stili e tante sedimentazioni letterarie, quindi pensare che la poesia sia uguale al sentimento è ciò che fanno i poeti mediocri e quelli pessimi. Se la poesia non ha stile, è una trascrizione inutile di qualcosa, è una prosa che va a capo.
A questo proposito, un aspetto molto interessante del tuo lavoro letterario è l’accurata scelta delle parole che compongono le tue poesie, che fa sì che i suoni che compongono il singolo verso acquistino una musicalità importante che non toglie al significato, ma anzi lo rafforza.
In effetti la metrica è una delle mie ossessioni, quella che Verlaine chiamava de la musique avant toute chose. Il linguaggio è il limite del nostro mondo e spesso è facile che la poesia aiuti a lavorare alla costruzione del proprio mondo, ai ricorsi e ai temi dominanti del proprio essere.
Una curiosità: quando ci siamo incontrati, ti sei presentato pronunciando il tuo nome “all’italiana” (Giùlian). Dove sta la differenza con Julian (Iuliàn)“all’albanese”, o non c’è alcuna differenza ed è semplicemente una questione di pronuncia che non ha nulla a che vedere con l’identità?
Credo che abbia molto a che fare con l’identità: io in albanese sono Julian Zhara, in italiano sono Giùlian Zara. Il viaggio, il percorso tra una pronuncia e l’altra è la mia storia, e la mia storia è una di emigrazione. Come mi definisco in un posto, non mi definisco in un altro e credo che questo sia anche speculare all’Albania stessa: gli albanesi le si riferiscono come Shqipëri, mentre gli altri la chiamano Albania. Questa distanza, questo percorso tra l’autodefinizione e la definizione che gli altri danno di noi, credo sia una delle traduzioni più corrette dell’identità.
La mia identità passa per quella storia, per quel percorso.