Nicola Pedrazzi (Bologna, 1986), è un giornalista, pubblicista, corrispondente da Tirana e ricercatore di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (OBCT).
Da settembre 2012 a gennaio 2016 ha vissuto e lavorato in Albania, presso l’Istituto Italiano di Cultura, occupandosi dell’insegnamento della lingua italiana, dell’organizzazione convegnistica e della promozione culturale.
Nel medesimo triennio, per conto dell’Università di Pavia, ha condotto ricerche dottorali sulle relazioni italo-albanesi durante il comunismo; gli esiti di quello studio sono oggi raccolti nel libro L’Italia che sognava Enver. Partigiani, comunisti, marxisti-leninisti: gli amici italiani dell’Albania Popolare (1943-1976), edito da Besa Muci Editore, nel 2021.
Ha scritto e scrive per diverse testate, cartacee e online, tra cui «il Mulino», «Riforma», «Confronti», «il Foglio», «Link – idee per la televisione».
Nell’intervista che ci ha gentilmente concesso, Pedrazzi racconta del suo libro e dell’Albania passata, presente e futura. Buona lettura.
Parliamo del legame italo-albanese. Cosa è stato e cos’è oggi?
Se stiamo alla politica, il legame tra Italia e Albania è all’origine dell’esistenza dell’Albania stessa. Non degli albanesi e della loro cultura chiaramente, ma dello stato albanese sì. Il risorgimento nazionale albanese fu il risultato delle scelte dei patrioti albanesi che avvertivano un’appartenenza linguistica e culturale, ma fu reso possibile da un contesto internazionale in cui le grandi potenze, e tra queste l’Italia appena nata, si trovarono a gestire la fine dell’Impero Ottomano.
Nei Balcani i regni di Serbia e Grecia avrebbero potuto spartirsi i territori albanesi, l’Italia fu tra i garanti della nascita di uno stato albanese indipendente; questo per diversi motivi, sia per meri interessi geostrategici, ma anche per la presenza in Italia delle minoranze arbëreshe, culturalmente e politicamente attrezzate, che seppero influire sui governi delle due sponde dell’Adriatico.
Non dobbiamo dimenticare che fino all’ottobre 1912 l’Italia fu impegnata in una vera e propria guerra contro l’Impero Ottomano, al fine di conquistare le regioni libiche della Tripolitania e della Cirenaica. L’indipendenza albanese venne proclamata il 29 novembre 1912, appena un mese dopo la fine della guerra italo-turca. In sintesi, lo stato albanese è sempre stata una delle priorità della politica estera italiana, dalle guerre balcaniche a oggi.
Questo nel corso del Novecento ha poi assunto anche le forme dell’ingerenza, del protettorato e infine del colonialismo. Nel 1939, per rispondere all’espansionismo di Hitler, Mussolini organizza una scenografica occupazione militare dell’Albania. Per quanto sia stata una parata di regime, preparata da decenni di penetrazione economica, venne fatta con le armi, trascinando i territori albanesi in quella che sarà la disastrosa campagna di Grecia. I nazisti arrivano fino in Albania a causa dell’8 settembre italiano.
Dopo la Liberazione dal nazifascismo, i due paesi per la prima volta si separano: l’Italia filo-atlantica e l’Albania prima filo sovietica e poi filo cinese. Durante il comunismo le relazioni vennero ridotte al minimo, ma gli storici di entrambe le sponde avevano ormai dimostrato come al di sotto della divisione in blocchi della Guerra Fredda sia rimasta viva una “tacita alleanza” tra i governi italiani e albanesi. Lo dimostra il fatto che l’ambasciata italiana a Tirana non ha mai chiuso e che dopo la caduta del muro, l’Italia è tornata a giocare un ruolo egemone. Negli anni delle guerre civili e delle migrazioni albanesi non mancarono nuove missioni militari: pensiamo all’Operazione Alba del 1997, guidata dal primo governo Prodi a poche settimane dalla tragedia della Katër i Radës.
Pensiamo al ruolo avuto dalla cooperazione italiana nella ricostruzione del paese. Se stiamo agli ultimissimi decenni, la continuità di questa alleanza politica è ancora visibile. Edi Rama è al governo dal 2013: da allora è stato “amico” di Renzi, Gentiloni, Di Maio, persino di Salvini, di cui ha sempre parlato malissimo negli anni in cui i discorsi anti-immigrati della Lega colpivano anche gli albanesi d’Italia. Ora il “socialista” Rama chiama Meloni “sorella d’Albania”. Si può vedere in questo del mero opportunismo politico, ma questa continuità è anche da parte italiana: possiamo cambiare i governi e i discorsi politici, passare dall’europeismo al sovranismo, ma il sostegno dell’Italia in seno alle istituzioni dell’Ue per l’integrazione in Europa di Tirana non è mai venuto meno.
Se dal politico passiamo al culturale il discorso si complica. Per certi versi l’Italia e l’Albania sono innanzitutto due paesi mediterranei, ma il piccolo canale d’Otranto ha dovuto fare i conti con tre faglie profondissime: qui Roma e là Bisanzio, qui il Rinascimento di là i turchi, qui la democrazia liberale e l’egemonia americana, di là il comunismo. Sono faglie che hanno venato di diversità storica la prossimità geografica e che ancora oggi si avvertono nella mentalità e nella cultura. Credo che per noi italiani l’Albania è e rimarrà ancora a lungo il più vicino dei posti lontani. L’Oriente sotto casa.
L’Italia che sognava Enver è frutto di un grande lavoro e fonte di innumerevoli informazioni. Ci parla della genesi del libro? Come nasce, perché nasce e quali approfondimenti ha comportato.
Se me lo chiedete voi non posso non essere sincero. Il mio libro nasce perché dopo poche settimane che ero a Tirana ho conosciuto Mirela, la ragazza che ora è mia moglie e capii subito che mi serviva un pretesto di studio o di lavoro per rimanere in Albania più a lungo. Era l’ottobre 2012, lo stage all’Ambasciata d’Italia sarebbe durato solo fino a dicembre, ma ero entrato al dottorato all’Università di Pavia e allora mi venne l’idea di riscrivere da capo il mio progetto di ricerca, pregando il collegio del dottorato di fidarsi; anche se di Albania sapevo poco, avevo il vantaggio di essere “sul campo”.
Per raccogliere il patrocinio dell’Istituto Italiano di Cultura e poter avere il permesso di soggiorno mi serviva un progetto italo-albanese, ma sul fascismo era già stato scritto molto, non mi andava di stare su cose note. Per mia fortuna, avevo visto il documentario di Roland Seiko , Il paese di fronte, in cui Sergio Staino raccontava delle sue esperienze di comunista italiano nell’Albania di Enver Hoxha.
Allora ho pensato che nell’archivio di Stato albanese avrei potuto trovare documenti per approfondire quel filone. Mi feci accompagnare dal Prof. Artan Hoxha, che ancora ringrazio, e mi appoggiai a Mirela per la lingua e le traduzioni. Insomma, scoprii per caso che c’era una storia italo- albanese ancora da raccontare. Ne sono seguiti tre anni meravigliosi, di studio e passione, come solo da ventenne puoi avere. Il lusso del tempo che ho avuto a Tirana in quei tre anni, per inseguire questa storia e mettere insieme i pezzi, è una cosa irripetibile.
Quel libro è il risultato, per certi versi inevitabile, di una curiosità che si è mossa senza avere uno schema preciso. Per questo è bitorzoluto. Ora che lavoro nell’editoria posso dire che un libro così non lo prenderei in considerazione, almeno non prima di un taglio di almeno metà delle pagine.
Anche se eccessivo è un lavoro preciso e documentato, sia per il filone albanese, grazie all’Archivio di Stato di Tirana, sia per quello italiano, grazie ai tanti piccoli archivi che ho messo insieme per ricostruire la galassia del microscopico ma variegato mondo del marxismo-leninismo italiano degli anni Sessanta e Settanta. Immaginate minuscoli leader politici, che attraverso l’Albania raggiunsero addirittura la Cina e strinsero la mano a Mao Tze Tung.
Negli archivi albanesi ho scoperto il lato romantico dell’allucinazione ideologica della guerra fredda e insieme la brutalità del regime di Enver Hoxha, la durezza di quel contesto geopolitico. Feci le cose seriamente, sulla base di fonti e interviste, proprio per questo non riuscii a controllare il desiderio di metterci dentro tutto quello che avevo trovato.
È inevitabile fare riferimento al concetto di memoria storica: quanto la sua conservazione, a suo avviso, è importante per l’evoluzione storico-sociale di un popolo e nello specifico di quello albanese?
Senza una memoria storica condivisa non possono esistere popoli o comunità politiche. La differenza la fa la qualità della memoria su cui si fondano le appartenenze. Tutte le memorie, sia private che pubbliche, sono selezioni operate con un obiettivo. Io che ricordo il buon carattere di mio nonno seleziono cosa ricordare di lui e ho un motivo per farlo. Lo stesso fa un comune o un qualsiasi potere politico che intitola una via a Garibaldi. In termini storici, mio nonno e Garibaldi sono molto più complessi di ciò che vogliamo o ci è utile ricordare di loro.
Ecco perché uno storico che scrive di mio nonno potrà darmi fastidio o descrivere un nonno che io non riconosco. Eppure, con ogni probabilità, gli storici si avvicinerebbero maggiormente alla verità storica della sua vita, perché essi, quando bravi e corretti, sono laici, non hanno obiettivi ideologici e cercano di ricostruire ciò che realmente accadde senza altre ragioni che non siano capire ciò che veramente successe, con gli strumenti disponibili.
Il rapporto tra storia ed elaborazione della memoria diventa molto difficile sotto le dittature, dove non è possibile la libera ricerca storica, perché ogni regime accetta unicamente la selezione dei fatti che è funzionale alla sua propaganda e alla sua conservazione. L’Albania comunista è un esempio paradigmatico di un luogo in cui la memoria può essere una e una soltanto: la storia non conta, la ricerca non conta, la storiografia non esiste. Vale solo il mito imposto dal regime.
Enver Hoxha fu molto abile a costruire il suo regime violento e liberticida con i pezzi del nazionalismo albanese: il contesto internazionale e il mondo comunista furono il palcoscenico della sua recita, furono lo scenario internazionale con cui conservarsi al potere. Per il pubblico di casa il copione venne scritto nell’unica lingua da tutti comprensibile, cioè con il lessico del nazionalismo di stampo risorgimentale. Avere memoria di questo sarebbe utile alla società albanese contemporanea.
Per questo livello di consapevolezza e memoria pubblica, però, servono studi storici, programmi scolastici, generazioni di bravi insegnanti. In Albania siamo ancora lungi da tutto ciò, purtroppo. I libri di storia risentono ancora dell’impostazione di regime, mentre il discorso democratico ha sempre archiviato la dittatura come “comunista”, così come tutto il periodo pre-risorgimentale è archiviato come “turco”, come se l’albanesità non fosse intrecciata a quelle vicende storiche, ma sempre e solo estranea e vittima di meri fattori esterni.
Finché l’albanesità verrà concepita come una purezza e diversità assoluta nei marosi delle avversità delle Storia e non come a una delle molteplici identità in continua relazione nell’area balcanica, secondo me gli albanesi avranno una cattiva memoria di loro stessi. Staranno insieme ma male, come si sta insieme male allo stadio (e io amo andare allo stadio, intendiamoci).
Due parole sul futuro dell’Albania.
Il futuro dell’Albania è senza dubbio in Europa, insieme a tutti i Balcani occidentali, che sono un buco bianco nella mappa blu dell’Ue e che attendono la definitiva pacificazione dentro alla casa dell’Unione. Basta guardare la carta geografica per capirlo. Questo non significa che quello europeo sia un futuro vicino. I giovani albanesi sanno che per raggiungere la cittadinanza europea e i suoi diritti faranno prima come singoli, con l’emigrazione, che come paese, con l’integrazione.
In una delle sue ultime interviste televisive, Indro Montanelli dichiarò che vedeva un buon futuro per gli italiani ma non per l’Italia. Credo che qualcosa di simile possa valere a maggior ragione per gli albanesi di oggi. Persone che continuano a emigrare da uno stato disfunzionale, che non gli consente di sprigionare il potenziale che le varie diaspore in questi anni hanno donato ai paesi vicini, Grecia e Italia in primis.
Può sembrare un discorso pessimista, ma io credo che guardare con realismo a un nostro vicino sia responsabile e rispettoso. Credere alle favole di Edi Rama sul miracolo albanese non fa bene all’Albania. Noi italiani quelle storie ce le beviamo più volentieri di altri, perché l’idea di aver aiutato un paese che oggi sta meglio è molto più comoda che continuare a essere solidali. A noi piace che l’Oriente sotto casa rimanga tale, sconosciuto e stereotipato.
Rama l’ha capito e ci vende ciò che ci fa stare meglio, in cambio di piccoli aiutini ogni tanto e tanti occhi chiusi. È evidentemente uno scambio al ribasso, soprattutto se consideriamo la storia del legame italo-albanese.