Possiamo non preoccuparci della metrica di un poeta (io è da tanto tempo che ho buttato il mio metro), ma non possiamo ignorare la sua voce – quando essa ci parla dentro.
“Ma adesso mi ascolti!
Ti siedi, qua gli occhi”
Sono i versi che aprono la raccolta poetica “Vera deve morire” di Julian Zhara (Interlinea 2018).

Capace di rievocare i suoni silenziosi di un tempo esaurito, suturando la nostalgia e dando al lettore: il senso del nulla che rimbomba nelle tempie. Una linea di parole semplici che non sfuggono alla profondità e, si bastano tra di loro, mantenendosi in piedi da sole, lì, per le giornate che a volte non sai distinguere e per ricordare che forse, non è il stare male che ci uccide, ma il chiedere aiuto. Una nuova voce lirica che si affaccia nel panorama letterario italiano – con la consapevolezza di voler rimanere fame e rumore, per testimoniare che un tempo nuovo – può arrivare.
Zhara è poeta, performer e organizzatore di eventi culturali. È nato a Durazzo (Albania) nel 1986. Si trasferisce in Italia nel 1999. Pubblica “In apnea” e “Vera deve morire” edito da Interlinea 2018. Partecipa con un progetto di spoken music a Generation Y, evento sulla poesia ultima, a cura di Ivan Schiavone, al MAXXI. Sempre con lo stesso progetto, è presente all’omonimo documentario andato in onda su Rai 5. Cura assieme a Blare Out, il festival di poesia orale e musica digitale Andata e Ritorno. Nel 2016 gli viene assegnata una menzione speciale al Premio Internazionale di Poesia Alfonso Gatto. Sue poesie sono presenti in La poesia italiana degli anni Duemila (Carrocci, 2017). È vincitore del Premio Internazionale Lermontov poesia 2020.
È rinuncia e rivincita.
Intervista a Julian Zhara
L’attività della scrittura si lega all’esperienza e alla memoria. Dove e quando comincia la sua?
La mia esperienza di scrittura inizia in Albania, alle elementari. Per risponderti, recupero qualcosa che ho scritto ed è uscita su La Repubblica, nella bottega gestita da Gilda Policastro: ero sul balcone della mia casa a Durazzo. A sinistra c’era il faro, la villa del re, che divideva la mia visuale dal mare, di fronte vegetazione e qualche casa sparsa e dietro non so; non ho mai voluto vedere per poterlo immaginare e tuttora sogno di andare sopra e vedere cosa c’è dietro. Dopo non so quante ore che ero lì, mi monta una sensazione strana, che chiedeva di uscire, fissarsi. Ho preso un quaderno e una penna e ho cercato di isolare la sensazione, portarla in versi, come quelli che imparavo a memoria e leggevo già. Ma mentre scrivevo ho iniziato a distorcere il senso, giocare con l’ordine delle parole. La sensazione era sparita ed ero dentro un processo di gioco. Mi stavo divertendo. Stavo creando. Non avevo isolato la sensazione di prima che ormai si faceva un ricordo lontano ma ero felice, sorridente: avevo giocato con le parole e disposte come i soldatini per un’occupazione militare. Ero il generale di un’armata di parole nella lingua albanese. Cambio scena: molti anni dopo, torno a scrivere ma nella lingua di adozione: l’italiano, lingua della mia formazione intellettuale e artistica, che non ho più abbandonato – nella scrittura.
La sua poetica è concentrata sull’tema dell’amore, mantenendo assai fresco il profumo dei suoi versi. Di cosa si nutre la sua poesia?
Di vita, di letteratura. Di musica, di cinema. Di voci. Silenzi.
Pessoa scrive: “Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere sia dolore / il dolore che davvero sente. Cosa pensa di questa ambiguità e quanto è presente nella sua poesia (se lo è)
Penso che “Vera deve morire” sia l’attuazione di questi versi di Pessoa.
Quale funzione e valore attribuisce alla poesia nella sua vita e in rapporto agli altri?
Conrad scriveva: è difficile spiegare a tua moglie che anche quando guardi fuori dalla finestra, stai lavorando. La poesia nella mia esistenza interiore è una sorta di delta, fino a raggiungere livelli omniossessivi. Ho spesso l’impressione che il fine stesso del mio vivere, ramificato in migliaia di situazioni psicologiche, emotive e biologiche abbia come fine la scrittura poetica. Scrivo davvero molto poco eppure basta un’immagine, una successione ritmica delle parole, siano dette da me o ascoltate, per portarmi a lavorare su improbabili versi o metriche per ore. La quasi totalità di questo lavoro va perduto, lo cestino. Nel mio rapporto con gli altri invece, vivo la condizione del malato consapevole: cerco di non ammorbarli con la poesia. Chi mi conosce bene sa quanto posso diventare pesante a parlare di poesia per ore.
Quali modelli poetici le sono stati di riferimento, tra autori italiani e stranieri, contemporanei e classici?
Modelli stranieri più incisivi: Auden, Dylan Thomas, Sylvia Plath, Laforgue. I modelli italiani sono tanti, la maggioranza. “Vera deve morire” si rifà, metricamente, sulla triade Pascoli- Pavese- Rosselli (e l’ho scritto nella nota al testo). Altri nomi tutelari del mio Novecento italiano sono Pagliarani, Pasolini – tra i morti; Frasca, Dal Bianco tra i vivi. Ne cito pochi ma sintomatici del percorso che ho svolto fino a oggi. Ho sempre pensato alla poesia come a un’officina e chi mi ha insegnato a liberare il mio lavoro dalle insegne esterne e fare di tutto materiale è il mio maestro: Franco Buffoni
C’è un poeta albanese che ha inciso nella sua poesia?
Fan Noli. “Lungo i fiumi” mi ha insegnato, già da piccolo, come fosse possibile comporre musica con le parole. Tra i contemporanei Agron Tufa, traducendolo, mi ha fatto capire come comprimere vari piani, che paiono spesso inconciliabili, nell’orizzontalità del verso. In questo è un maestro assoluto. Luljeta Lleshanaku, sempre traducendola, mi ha fatto comprendere l’enjambement a sorpresa: nelle sue poesie spesso il verso successivo è una scoperta impossibile da indovinare come ha similitudini e metafore spiazzanti.
Mario Luzi diceva: dovete leggere tanto e dovete leggere autori che non vi influenzano.
Non amo particolarmente Luzi ma qui direi che il suo consiglio è sacrosanto. E Luzi era un uomo estremamente curioso e un lettore trasversale.
Rapporto scuola – poesia. Siamo in tanti a sostenere che, spesso, è proprio la scuola a creare il distaccamento dei ragazzi dall’”arte antica che porta verso noi stessi”.
L’azione negativa della scuola sulla percezione e ricezione della poesia contemporanea è un elemento innegabile. Un bellissimo e provocatorio libro scritto a quattro mani da Berardinelli (quando era ancora un critico e non un ripetitore di se stesso) ed Enzesberger: Che noia la poesia (Einaudi, 2006) analizza questo problema dalla radice. Le cose stanno, per fortuna, cambiando – e in positivo. Noto un cambio di tendenza negli ultimi dieci anni. Speriamo che col tempo, i docenti italiani preparino più lettori di poesia spogliandola dagli aggettivi “squalificativi” che più la rappresentano nella testa dei ragazzi: noiosa, vecchia.
Si parla tanto di “ponti” tra le due sponde (nel nostro caso – poetico), ma quasi mai delle “strade” o delle “autostrade” nazionali che dovrebbero collegare le città italiane dove vivono tanti poeti di origine albanese…A cosa è dovuto?
Per stare nella sua metafora, oltre ad asfaltare le autostrade, bisognerebbe costruire degli aggregatori, o motivi, per mettere in moto gli scrittori. Sono sicuro che nei prossimi anni verrà fatto.
Crede che nella partecipazione degli scrittori albanesi nei grandi festival della letteratura italiana c’entri la politica?
Credo che c’entri la politica ma declinata nella sfera editoriale. La poesia albanese contemporanea è poco tradotta, purtroppo, e non ha sbocchi editoriali “importanti”. Se il direttore di un festival volesse invitare un poeta albanese, lo potrebbe fare solo se il poeta in questione ha sulle spalle una traduzione – valida. Un poeta albanese spesso invitato nei festival italiani è Gëzim Hajdari ma la sua poesia non è minimamente rappresentativa della qualità e vivacità che abita la scena albanese di oggi. In vista delle traduzioni che sto portando avanti, ho chiesto esplicitamente ai festival dove sono stato invitato (sono stati molti) se poteva interessare la poesia albanese e le risposte sono state entusiaste. Nei prossimi anni ci sarà molto da lavorare al riguardo.
Dopo “Vera deve morire” – che cosa deve nascere?
Ho aperti vari cantieri: una rapsodia balcanica, un libro di versi in tredecasillabi e un progetto in prosa. Ho messo le fondamenta, come radici nell’aria. Appena riesco, inizio a costruire.
I quattro versi che suonano dentro di lei da sempre e ovunque?
Ce ne sono tanti ma cito quelli scolpiti nelle stanze che abitano la mia testa. E ne cito sei.
Vado in verso e uccido io per voi, di Ivano Ferrari.
Pianta la tenda nel baratro, di Luigi Nacci.
Vincerai tu, dovrai patire, di Franco Buffoni.
Only a hero can deserve such love, di Auden.
Due mondi – e io vengo dall’altro, di Cristina Campo.
Non c’è una medicina ma la cura / del nostro male è la ferita stessa, di Adriano Padua.
Ma gli ultimi versi, li lasciamo a loro, a Julian ed alla sua Vera che deve morire:
“io non ti aspetto, se vado – vado,
non mi sentirai più, tu devi fare pace
col passato”